Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
Segui la storia  |       
Autore: Midnight Writer    12/12/2014    1 recensioni
“Tu non sai quante cose ho fatto solo grazie a te. Tu non sai per quanto tempo ti ho amato in silenzio, beandomi di ogni tua parola e di ogni tuo atteggiamento, tentando però di reprimere questa sensazione in ogni maniera. E stavo sempre in silenzio e coglievo al volo ogni occasione buona per soddisfare la mia bellissima e tremenda assuefazione a te. Ogni tuo respiro e ogni tuo tocco erano come un alito di vita nuova per me. Tu... Tu sei la mia seconda possibilità. Sei la mia possibilità di redimermi e di scrollarmi di dosso questa tristezza opprimente. Sei la mia opportunità di credere ancora che la vita sia bella. Sei così tante cose che non posso nemmeno dirle a parole perché le sminuirei. Sminuirei ciò che tu mi fai sentire. Sei così importante e nemmeno te ne rendi conto. Sei tutto per me e pensi che nella mia vita ci possa essere spazio per amare qualcun altro come amo te. Sei davvero così cieco, Armin?”
[serie di appartenenza: "Alice's story"]
[prequel: "Hero"]
{Capitoli 7 e 8 in fase di riscrittura}
Genere: Angst, Comico, Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Armin Arlart, Nuovo personaggio, Rivaille, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Alice's story'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Chapter 2. Here's the one who saved me - Aren't my two universes mixing up a little too much?
 
 
 Il secondo giorno ebbi il grande "piacere" di fare conoscenza con il professore di latino e greco.
Come sempre entrai a scuola con le cuffie nelle orecchie ed una canzone rock a volume massimo, nel frattempo guardavo quasi disgustata ciò che mi circondava; non perché mi conferisse davvero una sensazione di disgusto, bensì perché immaginavo che non sarei rimasta a lungo in quell'ambiente: avrei avuto altri problemi di bullismo che mi avrebbero costretto, ancora, a cambiare istituto. Era quello che mi disgustava.
Entrata in classe salutai i miei compagni e mi sedetti al mio posto. Armin mi accolse con il suo angelico e bellissimo sorriso, mentre Jean con il suo divertito e malizioso, quasi avesse in serbo una battuta cattiva e divertente, ma si stesse sforzando per tenerla per sé.
Un giorno imparerò anche io a sorridere così a scuola, pensai mente canticchiavo.
Qualche minuto prima del suono della campanella di inizio delle lezioni fece il suo ingresso il ragazzo senza la divisa che avevo visto il giorno prima, e si sedette con nonchalance alla cattedra rivolgendo a noi tutti uno sguardo estremamente annoiato.
"Wow! Ma è davvero un professore? Cioè, è dannatamente basso!” Dissi ad Armin con un tono di voce un po' alto, senza paura di essere sentita nonostante il brusio che vi era dentro l'aula. Ero sempre stata leggermente sfacciata e questo mi ha provocato non pochi problemi. Armin guardò prima il professore e poi me, con aria molto spaventata. Solo dopo compresi il perché. Si avvicinò al mio banco. Adesso, pur non avendo cambiato espressione, nei suoi occhi brillava qualcosa che diedi per scontato fosse rabbia, ma sembrava quasi ammirazione. Quando fu abbastanza vicino al mio banco lo osservai più attentamente: era un uomo sulla trentina, imponente nonostante la sua statura, portava un paio di pantaloni e una giacca entrambi neri, una camicia bianca e delle scarpe nere, i suoi capelli erano organizzati in quello che avevo da pochissimo compreso si chiamasse doppio taglio o qualcosa del genere, secondo quella che era una moda hipster o chissà cosa, e i suoi occhi erano grigi e molto sottili; li scrutai e vi notai quello che pareva un perenne fuoco alimentato dalla tristezza e dalle delusioni, molto simile al mio insomma. Mi sembrava anche leggermente familiare, tuttavia non ne capivo il perché. Dovetti ammettere che era un uomo bellissimo.
Questa cosa dei complimenti innocenti mi sta leggermente sfuggendo di mano, mi ammonì la parte del mio cervello ove risiedeva quel frammento di buon senso che non erano ancora riusciti a strapparmi via, ma non lo ascoltai. Sostenni lo sguardo dell'uomo mentre intorno a noi si creava un silenzio tombale, finché non fu proprio lui a romperlo
"Tu devi essere la nuova studentessa, Alice Sweets" esordì con la sua voce profonda che pareva perennemente annoiata, poi quando pronunciò il mio nome assunse un tono di fastidio malcelato "io invece sono il professor Rivaille, insegno greco e latino e all'occorrenza anche l'educazione" fece una pausa e trasse un profondo respiro “ora ascoltami, perché quando do lezioni di buone maniere non sono solito ripetermi: mai parlare troppo.” 
“Vedrò di tenerlo a mente” risposi con una leggera aria di sfida. Mi squadrò dall'alto in basso per una seconda volta, per poi tornare ad occupare la sua cattedra. Ripassammo qualche argomento, facendo così volare in un lampo quelle due ore che ci separavano dalla ricreazione. Al suono della campanella che la annunciava stavo avviandomi verso il cortile insieme al ragazzo equino, avevamo lasciato indietro Armin perché sia io che Jean avevamo fretta di uscire dalla classe: lui per rivedere il suo caro Marco e io per fuggire lontano dal prof. Rivaille. Mi sentii poggiare una mano sulla spalla, immaginai che fosse Armin che ci aveva raggiunto di corsa e stesse per farci i suoi occhioni dolci da cucciolo e chiederci perché lo avevamo lasciato indietro, quindi mi girai e sussurrai
“Armin non abbiamo tempo da perdere, ho la sensazione che quel nano potrebbe uccidermi se resto ancora qui.” 
Immaginate il mio sconcerto quando, invece del mio amico biondo mi trovai davanti il professore. Nel frattempo il biondo ci aveva effettivamente raggiunto all'ingresso della classe, non appena i nostri sguardi si incrociarono mi mimò una frase per cui quasi lo uccisi con lo sguardo
Ma ci riesci a stare fuori dai guai per una giornata intera?
Il professore ci fissò per qualche secondo prima di dire ai due ragazzi 
“Mi scuserete se vi rubo per qualche secondo la vostra amica. Potete andare.”
Guardai prima Armin poi Jean con l'espressione di una condannata a morte, nella speranza che mi avrebbero salvato da questa situazione, cosa che invece non fecero. Col senno di poi avrei capito che era stata la decisione migliore.
“Sei molto sfacciata, sai?” Sentenziò con tono piuttosto neutrale, come se stessimo chiacchierando normalmente 
“Sì, lo so. Mi scusi se l'ho offesa” risposi piano chinando il capo 
“No, tranquilla. È tutto okay, succede sempre: quasi non ci faccio più nemmeno caso. Tuttavia non è questo il motivo per il quale ti sto trattenendo.” 
Lo guardai con espressione piuttosto interrogativa, al che lui continuò 
“Ogni volta che ci sono studenti trasferiti da altre scuole mi informo un po' su di loro, e così ho fatto anche con te. Ho saputo che vivi in Italia da poco”
“Adesso saranno all'incirca tre anni, mese più mese meno. Da un mese prima di iniziare le superiori, comunque.” Lo interruppi
“Giusto, poi ho saputo che vivi con i tuoi nonni materni.” Annuii “e che ti sei trasferita qui a causa di bulli, giusto?” Annuii di nuovo, non mi disturbai a parlare: tanto mica sarebbe servito.
“Andando al sodo volevo assicurarti che Armin, Jean e tutti gli alti sono delle brave persone. E se hai comunque problemi puoi chiedere a me.” 
Lo ringraziai e, mentre stavo finalmente uscendo dalla classe per andare in cortile sentii il professore dirmi
“A proposito, Alice, non disturbarti a portarmi sempre lo zucchero: prendo sia il te che il caffè amari. E soprattutto mi piacerebbe che decorassi anche il mio cappuccino, la domenica mattina: sono stanco di essere sempre invidioso di quelli dei tavoli accanto ai miei. Intesi?” 
Cazzo.
“Intesi.” Risposi, dopo aver capito ciò che voleva dire.
Dopo la giornata scolastica, la mia bocca si spalancò in un largo sorriso vedendo il luogo dove abitavo. Non era nulla di speciale, solo due edifici accorpati a due piani: quello a sinistra occupato al pianterreno dal bar pasticceria dei miei nonni, dove ero solita dare una mano, amavo lavorare in quel bar perché amavo osservare la gente e un bar ti dà moltissime possibilità di farlo, e al primo piano dalla casa dei miei nonni; quello a destra invece era interamente occupato da casa mia: quella era la casa dove avevo vissuto con mia madre prima che lei passasse a miglior vita (per un solo mese) e che poi era diventata mia a causa dell'eredità. Piuttosto che lasciarla in mano d'altri avevo scelto di viverci da sola, in maniera totalmente indipendente, dipendendo però in qualcosa dai miei nonni; ad esempio io cucinavo i miei pasti e pulivo la mia casa, ma odiavo stirare e non potevo permettermi di pagare le bollette, quindi lasciavo questi oneri ai miei nonni. 
Le porte dei due edifici davano direttamente sulla strada, anche se i miei nonni avevano un entrata sul retro, per non dover passare dal bar. Gli edifici avevano entrambi delle facciate bianche, anche se accanto alla porta dell'attività dei miei nonni vi era la scritta “Al solito posto” (era il nome del bar, sì, i miei nonni avevano sempre avuto un grande senso dell'umorismo) dipinta da me sul muro come primo lavoro fatto sul suolo dello Stato italiano, usata ormai da tempo in sostituzione dell'insegna, che consumava corrente inutilmente. 
Citofonai a casa dei miei nonni, e ricevetti poco dopo in risposta a gentile voce di mio nonno che mi chiedeva chi fosse al citofono
“It's me! I'm home!” Risposi. Avendo vissuto per circa tutta la mia vita a New York, mi veniva naturale parlare inglese piuttosto che italiano, e grazie a Dio i miei nonni erano ferrati in inglese. Mangiai, svolsi i compiti che avevo da svolgere e indossai quella che ormai consideravo la mia divisa da lavoro: un paio di pantaloncini di jeans (che all'arrivo del freddo, che si prospettava ancora lontano, sarebbero stati sostituiti da jeans lunghi), un paio di sneakers e una canotta bianca con sopra una camicia a quadri rossi, bianchi e blu che tenevo aperta e annodata sotto il seno per evitare di farla svolazzare. Alle cinque ero già pronta per divertirmi a dare una mano a servire i clienti. Quello al bar per me non era affatto un lavoro, bensì era un piacere su molti punti di vista: ormai tutti i clienti abituali mi conoscevano e chiedevano sempre dove io fossi, quelle volte in cui arrivavo in ritardo a causa di qualche compito per il quale avevo impiegato troppo, e mi accoglievano tutti con dei sorrisi che ricambiavo. Quello era l'unico posto in cui riuscivo a sorridere. Tutto ciò mi ricordò una splendida canzone di Billy Joel, che mi misi a canticchiare mentre servivo ai tavoli.
Verso le 17:15 arrivò il professor Rivaille. Era un cliente abituale: veniva ogni pomeriggio e ogni domenica mattina, da tempo immemore ormai, era comunque sempre stato presente sin da quando ero venuta a vivere qui e a dare una mano.  Avevo avuto modo di osservarlo varie volte e avevo dedotto che era un maniaco del pulito, e anche che era un professore, tuttavia prima di quella mattina non sapevo in che scuola insegnasse, e non mi era riuscito di riconoscerlo data la mia estrema reticenza a miscelare il mondo della scuola con quello del bar, che era un po' come il mio mondo segreto di cui nessuno sapeva. 
“Buon pomeriggio, professore! Si accomodi pure, le ho tenuto libero il solito tavolo.” Lo accolsi con un sorriso radioso, che ricambiò con la sua solita espressione impassibile che avevo imparato ad apprezzare nel corso degli anni trascorsi
“Cos'è tutta questa formalità, oggi? Fino a ieri mi chiamavi solo Levi e mi davi del tu. Cosa è successo, ragazzina?” Oggi doveva essere stata una buona giornata per lui: raramente si sbilanciava in delle parole, di solito mi chiedeva solo di raccontargli la mia giornata. Chissà perché, poi.
“Pensavo che, date le differenze gerarchiche che ci sono adesso tra noi, fosse scortese permanere nelle vecchie abitudini.” 
“Cazzate. Tu stessa stai bene attenta a tenere separato questo mondo da quello della scuola, quindi usare qui i tuoi modi di fare scolastici sarebbe incoerente, non trovi?” Quello era il suo vero modo di parlare, diretto e a volte volgare, nulla era cambiato in lui, quindi decisi che sarebbe stato scortese far cambiare qualcosa in me. Dopotutto gli anni scorsi era sempre lui ad ascoltare i miei problemi e a darmi consigli, seppur con i suoi modi sgarbati e inappropriati, chissà perché, poi. Diciamo che lo consideravo il mio più caro amico.
“Va bene, Levi. Ti porto il tuo tè.” Dissi annuendo sorridente e mi diressi a preparare un po' di quel tè nero che piaceva tanto anche a me, anche se, al contrario di quell'uomo, io vi mettevo un'enorme quantità di zucchero. 
Glielo portai e mi diressi subito a preparare il cocktail da servire al signor Troina (poveretto, che cognome) un uomo che da qualche mese veniva un giorno sì e l'altro pure a bere qualcosa di alcolico per dimenticarsi un po' della sua vita. Era un uomo sulla quarantina, dai capelli brizzolati e i vestiti sempre firmati o fatti addirittura su misura, era stato sposato fino a non molto tempo prima, come rivelava la striscia di pelle più chiara sull'anulare sinistro, la prima volta che lo vidi. Non sapevo chi fosse, cosa facesse o cosa fosse successo al suo matrimonio, ma sicuramente con la fine di quello la sua vita sembrava esser finita pure. Nonostante mia nonna fosse già al banco, questo signore esigeva che fossi io a preparare il suo drink e a scherzare un po' con lui, sosteneva che gli ricordassi una sua amica d'infanzia. Mentre servivo questo signore vidi entrare due ragazzi dalle facce troppo familiari. Li guardai e mi accorsi che erano Jean e Marco.
I miei due mondi si sono mescolati già troppo, oggi. Pensai.
Rimasi pietrificata per qualche secondo, chiedendomi se fosse la scelta giusta andare a servire loro. 
E se fosse stato un appuntamento? Avrei rovinato tutto.
E se avessero scoperto che do una mano qui? Avrebbero pensato che sono una cameriera che fa questo lavoro perché viene da una famiglia povera, quando in realtà io e i miei nonni eravamo tutti piuttosto benestanti, avrei rovinato la reputazione costruitami tra ieri e oggi. Decisi che non era il caso che io mi occupassi di loro.
“Nonna, facciamo un po' cambio, che ne dici? Io sto al bancone e tu ai tavoli, okay?” Articolai in inglese, senza accorgermi di aver cambiato lingua. La mia cara nonnina annuì, così ci scambiammo i ruoli, naturalmente solo dopo averla supplicata di non chiamarmi per nome ad alta voce e di non farmi muovere dal bancone, con la promessa che le avrei spiegato tutto in seguito, promessa che non avrei mantenuto, ma fa lo stesso. 
Osservai i due ragazzi, senza però dare troppo nell’occhio: non sembrava proprio una semplice uscita tra amici, o forse ero solo io che facevo troppi viaggi mentali. Dopo qualche minuto, Levi si spostò dal suo tavolo al bancone, continuando impassibile a bere il suo tè. 
“Allora? Com’è andata la tua giornata?” mi chiese, come di consueto
“Perché me lo chiedi sempre?” domandai di rimando, dandogli tuttavia poca attenzione, impegnata com’ero ad osservare i due ‘piccioncini’ 
“Non si risponde ad una domanda con una domanda, ragazzina.” Mi ritenni fortunata a non starlo guardando negli occhi in quel momento, poiché sapevo che il suo sguardo mi avrebbe persuaso: gli avevo posto questa domanda già tantissime volte, e avevo ricevuto sempre questa risposta, e poi gli avevo parlato della mia giornata, persuasa dal suo impassibile sguardo di un grigio temporalesco. Un assordante silenzio calò per qualche decina di secondi tra me e l’uomo, finché (con mio grande stupore) cedette
“Tch. E va bene, te lo racconto. Però devi fare attenzione e devi smettere per un attimo di osservare come un’ebete quei due gay. Intesi?” 
“Intesi.” Gli risposi con tono avvilito e insieme speranzoso di ottenere la risposta alla domanda che ormai mi ponevo da anni.
“Vedi, Alice, la prima volta che ti ho vista, ormai circa tre anni fa, avevi lividi sparsi qua e là sulle braccia e le gambe e parecchie cicatrici sui polsi” storsi un po’ la bocca al ricordo del periodo in cui ero diventata, stupidamente, autolesionista “volevo capire cosa ti avesse portato ad avere quell’aspetto, quindi ti ho chiesto cosa ci fosse che non andava. Ti ricordi per caso come mi hai risposto?” scossi la testa
“Cosa c’è che non va? Cazzo ne so. Io, credo” 
Fermò il suo discorso per qualche attimo, come per farmi assaporare l’amaro gusto di quelle parole, poi riprese “Mi hai risposto così. Poi ti ho chiesto per quale motivo, e tu hai tagliato corto dicendo che non volevi pietà. Ci sono volute settimane prima che ti decidessi a parlarmi, poi ho visto che le nuove cicatrici cominciavano ad essere sempre meno, fino a, nel giro di un anno, sparire del tutto.  Dunque, te lo chiedo ogni fottuto giorno perché vedo che ti fa bene raccontare le tue giornate a qualcuno. Ed ecco anche il motivo per cui, dopo aver saputo che saputo che saresti stata trasferita nella nostra scuola, ho chiesto ad Erwin di metterti nella mia classe. Adesso sei contenta, ragazzina?”
“Decisamente” risposi
 
 
A (Death) Note dell’Autrice Ω
E rieccoci! 
Scusate l’attesa eterna, ma tra scuola, sport e corso di inglese sono mezza morta (MARCO DOES NOT APPROVE) tutto il tempo…
Perdonate la solo velata presenza di JeanMarco, ma non preoccupatevi… il secondo capitolo rincarerà la dose ;) *risatina malefica*
Se Levi vi sembra OOC, chiedo venia, ma è complesso mantenere IC un personaggio complesso come il suo, in una AU, poi… XD
Comunque spero che il mio personaggio vi piaccia e noi ci rivediamo al prossimo capitolo!
BELLA RAGAZZI!
(ogni riferimento a Favij è puramente casuale, eh)
 
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti / Vai alla pagina dell'autore: Midnight Writer