Note prima della lettura:
*Maharaja:
titolo dei sovrani dei principati indiani.
**Intoccabili:
in India, le persone senza casta, perciò esclusi dalla vita sociale.
***
Maharani: titolo della sposa del maharaja.
Immagini utili:
http://www.indiafolder.com/indian-monuments/img/Taj%20Mahal.jpg
http://lh6.ggpht.com/_4ByJynxioQw/SFSiqn8rPCI/AAAAAAAABWY/QUoqZhospZc/balcony.jpg
http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/e/ec/Interior4.jpg/300px-Interior4.jpg
http://s304.photobucket.com/albums/nn179/LulyChan/?action=view¤t=ShikaRisci.jpg
->
XD
Un Petalo Di Rosa
Nella Notte D’Oriente
Capitolo 1. “Un Petalo di Rosa In Una Scatola”
Una
foschia leggera circondava ogni edificio, una coltre evanescente simile a un
velo candido, di quelli usati dalle giovani spose nel giorno più importante
della loro vita per celare i loro volti dal trucco perfetto prima della
cerimonia, una tenda inconsistente che si sollevava dalle strade fangose ancora
impregnate della pesante umidità dei giorni precedenti.
Il Taj
Mahal, candido tempio consacrato all’amore devoto ed eterno, dominava la
sconsolata città di Agra, fortemente debilitata durante quella stagione
monsonica così violenta e distruttiva.
Un passo
pesante venne affondato nel fango, seguito da un altro, e un altro ancora; poi
uno sbuffo annoiato, una mano che frugava nella tasca alla ricerca di un
sottile foglietto bianco mentre l’altra maneggiava con cura il drum; si rollava la sua prima sigaretta del mattino,
Shikamaru Nara, sedendosi sui gradini di un edificio degradato e maleodorante
che da quelle parti osavano chiamare casa.
Espirò
delle nuvolette di quel fumo così amaro da lasciare quasi la gola secca, che si
andarono ad unire alla foschia che lo avvolgeva, dando alle strade deserte,
illuminate a stento dall’alba spenta, un’aria decisamente spettrale.
Era
semplicemente meraviglioso. Amava godersi in pace, da solo con se stesso,
quegli effimeri raggi di sole, che ben presto sarebbero stati sostituiti da
cupi e pesanti nuvoloni neri, già visibili all’orizzonte.
Shikamaru
sbuffò sonoramente, affondando la sigaretta ormai consumata nel fango e
alzandosi in piedi di malavoglia. Del resto, il lavoro sporco toccava sempre a
lui, ed era meglio farlo bene e in fretta, prima di venir preso nel sacco.
Tirò su
la grossa bisaccia che si portava appresso, caricandosela sulle spalle, e
ricominciò a scarpinare in mezzo alla strada fangosa, mentre l’alba lentamente
si oscurava e il canto mattutino dei galli veniva surclassato dall’eco dei
vicini tuoni.
\
Il suo
respiro caldo si adagiò delicato sul vetro, creando una patina biancastra sulla
finestra, che la ragazza levò con un lento colpo di mano.
Gli occhi
chiari, insolitamente tendenti al bianco, si posarono tristi e rassegnati sulle
nuvole tuonanti che sovrastavano come ogni giorno il suo cielo, rendendo il Taj
Mahal, visibile dalla sua stanza, un monumento estremamente malinconico,
spegnendo in un triste grigio le mura di quel bianco che d’estate pareva quasi
vivo.
-“Principessa
Hinata…”-
Una voce
calma e amica le accarezzò l’orecchio, tormentato notte e giorno da grida
isteriche e rimproveri delle varie madri e zie che tanto pretendevano da lei,
forse troppo.
Hinata si
voltò con occhi lucidi, ritrovandosi davanti la dolce e affettuosa Tenten, la
sua amata dama di compagnia nonché unica amica. Si strinsero con forza le mani,
mentre la bella principessa dai lunghi capelli neri sospirava, rassegnata.
-“Principessa…
fatevi coraggio, domani è il 4 luglio.”- cercò di incoraggiarla Tenten,
semplicemente bella avvolta nel suo sari purpureo.
-“Io… non
voglio sposarmi, Tenten.”- sospirò Hinata, voltandosi nuovamente verso la
finestra, trascinando il suo abito colorato del blu divino e adornato da
splendide rifiniture dorate.
La
brunetta abbassò gli occhi, dispiaciuta, non sapendo che dire. Sapeva bene
quanto l’amica fosse contraria all’unione con suo cugino, ma non c’era nulla da
fare per impedirlo. Il maharaja* Neji aveva espresso chiaramente il suo
desiderio di unirsi in matrimonio con la congiunta per preservare pura la
stirpe Hyuga, una delle più antiche casate reali
d’India, e nessuno poteva fare nulla per fermarlo… nemmeno Tenten stessa, in
quanto sua amante preferita, era riuscita a dissuaderlo dai suoi propositi.
\
Un
profondo sospiro si espanse per l’atrio non appena il ragazzo toccò il
pianerottolo sporco e trasandato, gettando a terra la pesante bisaccia.
Shikamaru
chiuse gli occhi, stanchi e pesanti dopo una nottata in piedi, sbadigliando
sonoramente. Un topolino gli passò velocemente sopra un piede, fuggendo in
direzione della porta. Dalla strada, le urla gioiose dei bambini che, per
quanto poveri e affamati potessero essere, non perdevano mai la voglia di
giocare.
Il Nara
si regalò un lieve sorriso, mentre con la mente tornava indietro ai giorni in
cui erano lui e i suoi amici i bambini che giocavano chiassosi per le strade; i
rimproveri di sua madre, i bagni nel fiume, le risse, i dispetti: era tutto
così lontano…
Improvvisamente,
la porta davanti alla quale sostava Shikamaru si aprì, mostrandogli il volto di
Kiba, che lo guardava male con espressione molto più assonnata di lui.
-“Bentornato
bello, che ci hai portato di buono?”- sbiascicò tra uno sbadiglio e l’altro il
ragazzo dai bizzarri segni rossi sul volto.
-“Il
solito. Come hai fatto a capire che ero tornato?”- domandò perplesso il Nara,
entrando in casa.
-“Beh,
quando sbadigli tu sull’uscio tremano le pareti.”- rispose Kiba divertito, prendendo
a ravanare dentro la bisaccia dell’amico.
Shikamaru
si levò la giacchetta sgualcita, lanciandola sul divanetto, poi si diresse
verso la porta più mal ridotta della casa; la porta della casa che era sempre
stata aperta, ma che da qualche giorno a quella parte rimaneva perennemente
chiusa.
Il
ragazzo vi diede qualche lieve colpo, ma ovviamente, nessuno rispose. Fece
pressione sulla maniglia, facendo scricchiolare l’ormai instabile pezzo di
legno, e si intrufolò nella stanza lentamente. Lo sguardo di Shikamaru si
spense gradualmente non appena si posò sulla figura dell’amico, che da ormai
una settimana se ne stava sdraiato su quella scrivania antica (che avevano
trovato per strada qualche anno prima), senza parlare mai.
Quello
sul tavolo non era il Naruto Uzumaki che era
cresciuto con lui, decisamente non lo era. Era un ragazzo triste, privo di
speranza, rassegnato. I suoi occhi blu sempre saettanti ora erano vacui come
quelli di vetro di quel mercante d’armi incontrato per strada molti anni prima.
-“Ho
portato qualcosa da mangiare, Naruto.”- asserì Shikamaru, avvicinandosi e
appoggiandogli una mano sulla spalla, amichevolmente.
-“Hai
saputo qualcosa?”- domandò il biondino, ignorando deliberatamente la proposta
dell’amico.
-“Il
solito. Ci sono un sacco di carrozze che arrivano da ogni dove e si affollano
intorno al palazzo. Del resto, è per domani.”- ammise in tutta sincerità il
ragazzo col codino.
-“Già,
domani… domani è il 4 luglio…”- sospirò l’Uzumaki,
tirandosi su a sedere, continuando a fissare la scrivania mestamente.
-“Naruto…
hai provato a fare di tutto. Purtroppo le mura del palazzo sono invalicabili,
le abbiamo tentate tutte per infiltrarci e abbiamo fallito miseramente. Lascia
perdere e torna a vivere, amico mio.”- gli propose Shikamaru, stringendogli con
forza la spalla.
-“Vivere…
tu la chiami vita, la nostra? Combattiamo ogni giorno per sopravvivere, rubiamo
ogni notte da qualche fornaio per sfamarci, tiriamo un risciò fino a sfinirci per
guadagnare pochi spicci… che cavolo di vita è, la nostra?”- commentò Naruto,
amaramente.
Il Nara
corrugò le sopracciglia, fissandolo seriamente e con aria dubbiosa: chissà se
parlava per sofferenza o era veramente ciò che pensava.
-“Che
proponi di fare, Naruto? Mollare tutto per andare in giro per il mondo come
viandanti? Tu puoi farlo, tuo padre era marinaio, tu stesso sei nato su una
nave, non hai mai avuto radici legate alla terra; io non sono così. Sono nato
in campagna, in mezzo agli allevamenti di mio padre; io sono un tipo
sedentario, ho bisogno di una casa, di un posto a cui legarmi.”- spiegò
Shikamaru, con tono amaro, rimpiangendo i vasti pascoli di montagna fra i quali
era cresciuto spensierato.
-“Già.
Figlio di marinaio, di contadino, di cacciatore… che importa? Alla fine siamo
tutti bloccati in questa città, fra quattro mura degradate in lotta continua
per la sopravvivenza. Per quanto diversi possiamo essere, di sogni… non ce ne
sono comunque. La sopravvivenza non mi basta più come sola ragione di vita,
Shikamaru.”- sospirò infine Naruto, senza aggiungere altro.
Passarono
brevi ma intensi momenti di silenzio, interrotti solo dai loro respiri. Poi i
passi strascicati del Nara si diressero verso la porta, chiudendosela alle
spalle, senza aggiungere altro.
Il
biondino strinse con forza i pugni, sbattendoli sul tavolo preda di uno scatto
d’ira. Perché non riusciva mai a rassegnarsi al destino? Perché dentro sentiva
sempre l’imperante bisogno di combattere anche davanti a una sconfitta certa?
Naruto alzò
gli occhi stanchi verso quella scatolina blu posta all’angolo della scrivania:
quello era l’oggetto più prezioso che possedesse, l’unico che avesse un valore
per lui, che da anni custodiva gelosamente.
La
raccolse, aprendola lentamente mentre il groppo in gola gli si stringeva sempre
più: dentro, nient’altro che un petalo bianco essiccato sul fondo.
-“Ehi
Kiba, smettila di abbuffarti e fila a lavorare.”- gli intimò Shikamaru,
ritornando in salotto.
-“Eh?”-
sbottò l’Inuzuka, che aveva tirato fuori dalla
bisaccia tutto il cibo che l’amico era riuscito a recuperare in una notte di
furti vari. –“Ma come, sempre a me tocca andare a lavorare?!”- protestò,
indignato.
-“Beh,
vedi tu, io ho già dato stanotte…”- sbiascicò il Nara, chiudendosi in quella
che osava chiamare camera.
-“Ma,
ma…e Naruto?! È comodo fare i depressi, tanto ci sono gli altri che sgobbano
per lui!”- brontolò Kiba, stizzito.
-“Fila al
lavoro, Kiba!”- gli ordinò Shikamaru, con tono irritato, dalla camera.
-“Va
bene, va bene…”- sbuffò l’amico, tirando su la giacchetta sgualcita dal divano.
\
Tutta la
corte era radunata nella sala delle cerimonie, luogo dove cibi raffinati
venivano serviti in grande abbondanza, dove fiumi di vino scorrevano fra i
tavoli, dove risate goliardiche si innalzavano fino a raggiungere l’orecchio
infastidito del maharaja, che dominava la sala dall’alto del suo trono d’oro
zecchino.
Neji
sbadigliò annoiato, regalando una superficiale occhiata ai numerosi invitati
con disinteresse. La sua vista acuta scrutò tutti i presenti senza trovare
nessuno che fosse minimamente degno della sua attenzione. Si voltò verso il suo
fedele servitore, invitandolo ad avvicinarsi con un gesto della mano.
Kakashi gli si accostò silenzioso, piegandosi con discrezione verso
di lui per sentire ciò che il suo maharaja ordinava.
-“Kakashi, dov’è la principessa Hinata?”- domandò Neji,
pensieroso.
-“La
principessa è nei suoi appartamenti, Vostra Altezza. Sapete bene che non ama
queste cerimonie troppo sfarzose.”- cercò di spiegare l’uomo dal volto perennemente
coperto, ma venne interrotto da un cenno della mano di Neji.
Il
maharaja sogghignò compiaciuto quando vide le porte sul fondo della sala
aprirsi, lasciando che una cascata di colori, di gioielli e di musica invadesse
l’enorme stanza.
Giovani
bellissime e dai corpi perfetti danzavano, muovendosi a ritmo di note sinuose
che si diffondevano ovunque leggiadre; erano ricoperte da ricchi abiti
succinti, fatti di sete preziose d’oriente e di gioielli brillanti d’occidente,
e ballavano ingannando e seducendo i presenti con movimenti sensuali, giocando
con lievi veli colorati.
Kakashi si allontanò da Neji, lasciando che il sovrano si godesse
appieno quelle meraviglie della natura, le ragazze più belle di Agra radunate
alla sua corte solo per soddisfare i suoi occhi avidi di bellezza.
Ma ve
n’era una, una sola, la cui bellezza sovrastava quella di tutte le
altre, la cui grazia faceva sembrare elefanti le fanciulle che le si
avvicinavano, la cui sensualità poteva far cadere ai suoi piedi un uomo anche
grazie a un solo sguardo.
Ella era
una dea discesa sulla terra per gli uomini, una sfacciata senza pudore per le
donne; un “Fiore di Luna” per il maharaja Neji.
Ino
Yamanaka (questo era il suo nome) entrò per ultima nella stanza. Il seno era
avvolto in una succinta fascia di seta viola araba, adornata ai bordi da ricami
dorati e pietre preziose incastonate appositamente per lei; una catenella d’oro
collegava, attraversando tutto il bacino piatto, il top con il pareo di veli
violaceo stretto in vita da una costosa cintura aurea, tappezzata anch’essa di
gemme. Le braccia morbide erano ricoperte di bracciali non meno lussuosi di
quei gioielli che le adornavano i lunghi e setosi capelli, raccolti in una coda
alta, così lucenti da sembrare brillare da soli.
Non
appena mise piede nella sala, tutti si zittirono; silenzio assoluto per
ammirare con il dovuto rispetto la cortigiana più giovane, più bella, più
potente e più desiderata che quella corte avesse mai avuto. Silenzio assoluto
per ammirare la preferita nonché ufficiale amante del maharaja.
Tutte le
altre odalische si appartarono ai lati della stanza, inginocchiandosi davanti
al loro esempio di vita. Ino Yamanaka era tutto ciò che una ragazza di umili
origini poteva aspirare a divenire, anzi, forse era persino troppo per una
della sua condizione sociale.
La
bellissima cortigiana prese a danzare sola e indisturbata nel centro della
stanza, consapevole che vi era il mondo a guardarla, il mondo a giudicarla, il
mondo a bramarla e ammirarla. Gli occhi di tutti erano suoi, ne era certa,
nessuno riusciva a schiodarle lo sguardo ammaliato di dosso.
Ino
racchiudeva in sé la grazia e la sensualità di tutto l’oriente, grazie ad anni
e anni di studi, di viaggi, d’insegnamenti.
Ancora
bambina, il padre l’aveva strappata alla sua terra natia d’Egitto per condurla
attraverso gli harem d’Arabia, facendola istruire dalle più abili concubine dei
sultani, raggiungendo persino l’Estremo Oriente, dove le amanti degli
imperatori cinesi e le raffinate geishe del Sol
Levante si erano offerte di farle da maestre. Ino aveva appreso tutte le arti
dell’amore fisico e della seduzione in maniere molto diverse, in mondi distanti
eppure tutti collegati dall’arte lasciva del sesso.
Suo padre
aveva puntato tutto su di lei, sulla sua bellezza; aveva cresciuto una rosa
bella e procace, a cui nessun uomo di potere sarebbe stato in grado di
sottrarsi. Per concludere la sua opera, l’aveva condotta dal più ricco e
potente maharaja di tutta l’India, l’aveva presentata alla corte di Neji Hyuga. Da ottimo intenditore delle più svariate bellezze
della natura quale era lui, il giovane maharaja non si era fatto sfuggire
quell’eterea gemma preziosa, che sin dall’inizio egli aveva soprannominato
“Fiore di Luna”.
E ora
eccola lì, Ino Yamanaka: danzava per sedurre quel maharaja freddo e
affascinante, colto e sapiente, verso il quale non aveva mai provato il benché
minimo sentimento, ma nemmeno il benché minimo disprezzo. Si riteneva fortunata
a essere l’amante di un bel uomo, giovane e raffinato; sapeva che molte altre
donne della sua stessa razza non avevano avuto una tale fortuna. Oltretutto,
era consapevole della sua unica proibizione: mai amare un uomo se non
per il denaro che egli può donare.
E Ino non
amava, infatti: ella danzava, seduceva, si concedeva, si arricchiva, per poi
ricominciare a danzare ancora. Quello era il suo compito: nulla era più
importante per lei dell’appagamento del suo maharaja.
Mentre
danzava leggiadra, lanciando sguardi ammalianti in direzione del suo amante,
Ino non fu sorpresa di quegli occhi glaciali rivolti perennemente a lei, quanto
da uno sguardo effimero e sfuggente non dedicato alla sua danza. Sì, la
biondina si era chiaramente accorta di una netta distrazione da parte di Neji.
Per un attimo sfuggente, il maharaja aveva dedicato la sua attenzione a una
giovane ancella di corte, il cui corpo imperfetto era avvolto in un ingombrante
e semplice sari, e i capelli comunissimi erano raccolti in due umili chignon.
La ragazza, che Ino aveva riconosciuto come Tenten, la dama di compagnia della
principessa Hinata, aveva ricambiato imbarazzata con un sorriso, distogliendo
immediatamente lo sguardo da Neji. Lo stesso fece lui, tornando a interessarsi
(o almeno di fingendo di farlo) alla sua amante bionda.
Ino
sapeva fin troppo bene quante amanti avesse Neji, ma davvero non le importava,
non finché rimaneva lei la numero uno. Mai Neji le aveva fatto un affronto del
genere; mai il maharaja aveva distolto lo sguardo per un solo secondo dalle sue
danze seducenti. E adesso preferiva guardare una scialba sguattera piuttosto
che lei? Questo davvero era troppo. Era un’offesa troppo grande per essere
accettata.
Ma Ino
non si lasciò prendere dalla rabbia. Come una vera professionista, concluse il
suo spettacolo, prostrandosi ai piedi del suo amante (sebbene con un po’ di
ribrezzo) alla fine di questo.
Neji la
ringraziò, alzandosi in piedi, invitandola ad alzarsi a sua volta, mostrando
all’intera corte il suo tanto bello quanto raro “Fiore di Luna”. Impassibile,
imperscrutabile come sempre, degno erede degli Hyuga.
Ino
rifiutò l’invito a prendere parte ai festeggiamenti, congedandosi con la scusa
di sentirsi poco bene. Semplicemente, la vista di quella sgualdrina di Tenten
la ripugnava. E Neji non la fermò, invitandola a non raggiungerlo nelle sue
stanze quella notte in modo da poter riprendersi completamente. Tradotto con
altre parole era un chiaro invito a non intralciarlo quella notte, visto che ci
sarebbe stata un’altra donna a soddisfarlo.
Senza
protestare, Ino se ne andò, con in volto stampato un broncio e in cuore incisa
un’offesa troppo grande da mandar giù.
\
Qualcuno
bussò leggermente sulla porta, attirando l’attenzione della principessa.
Hinata
sollevò il volto bagnato di lacrime dalle lenzuola, mentre vedeva la figura di
una donna molto affascinante intrufolarsi silenziosa nella sua camera buia.
Kurenai si avvicinò al letto della ragazza, sedendosi accanto a lei
mentre quest’ultima si tirava su, asciugandosi le ultime lacrime.
-“Principessa
Hinata, non dovete fare così, lo sapete bene.”- la rimproverò con tono gentile
l’insegnante della Hyuga, porgendole un pregiato
fazzoletto.
-“Oh,
maestra Kurenai… ma come, come posso sopportare
questo? Non è ciò che voglio!”- protestò Hinata, singhiozzando.
-“Vostra
Altezza, non dovete comportarvi come una bambina capricciosa. Voi siete la
principessa di una casata molto ricca e potente, sapete quante persone al mondo
invidiano questa vostra posizione? E voi invece vi lamentate, protestando di
quanto ingiusto sia il fato. Ringraziate piuttosto di vivere sotto un tetto
sicuro, di potervi cibare ogni giorno, di dormire in un comodo letto. Voi
meglio di chiunque altro sapete che la vita per le strade di Agra non è così.
Voi meglio di chiunque altro, tramite il sacrificio del matrimonio, potete
salvare questa città dalla miseria!”- cercò di incoraggiarla Kurenai, accarezzandole i lunghi capelli corvini.
Hinata
sfuggì al gentile tocco della donna alzandosi dal letto, preda dei singhiozzi
che ancora non ne volevano sapere di andarsene. Si avvicinò alla finestra,
lasciando che la lunga veste strisciasse contro il pavimento, osservando per
l’ennesima volta il Taj Mahal e sospirando rassegnata. Quell’enorme tempio
d’amore era sempre lì, davanti ai suoi occhi, pronto a ricordarle quanto il
maharaja che lo fece erigere amasse la consorte. Sapeva fin troppo bene che con
quel matrimonio, lei non avrebbe mai avuto nulla del genere. Solo figli dagli
occhi di nuvola, che avrebbe amato sì, ma mai completamente. Sarebbe stata
schiava di un marito e di una famiglia che non la amavano per chi era,
ma solo per ciò che era. Un oggetto di preservazione della specie. Solo
questo.
La
moretta si morse il labbro inferiore con forza, volgendo lo sguardo sofferente
alla scrivania di prezioso legno d’ebano intarsiata d’oro. Lasciò scivolare la
mano vellutata lungo tutto il perimetro del tavolo, raggiungendo una scatola
d’avorio candida, posta al centro della scrivania. La attirò a sé, sostando a
lungo sul coperchio che portava le sue iniziali, accarezzandone gli angoli con
i polpastrelli. Poi prese un respiro profondo, come per farsi forza, e aprì
lentamente il coperchio.
I suoi
occhi sembrarono rasserenarsi alla vista di quel fiore di rosa bianco, che
ormai privato completamente della sua linfa vitale dallo scorrere del tempo,
giaceva fragile e secco sul fondo di quella scatola preziosa.
-“Che
cosa guardate, principessa Hinata?”- domandò Kurenai,
avvicinandosi alla ragazza e lanciando un’occhiata curiosa dentro la scatolina.
–“Una rosa essiccata?”-
-“No, non
è solo una rosa essiccata. È… il mio cuore.”- sorrise teneramente la Hyuga, richiudendo il prezioso scrigno e stringendoselo al
petto.
-“Principessa!”-
sussultò la donna, posando una mano contro la sua, allarmata. –“Non potete
tenere pegni d’amore di altri uomini! Se il maharaja lo scoprisse…”-
-“Maestra
Kurenai!”- la guardò con sguardo supplichevole
Hinata, sul punto delle lacrime –“Ho più gioielli di qualunque altra
principessa d’India, eppure nemmeno il più grande e costoso di essi vale quanto
questo piccolo fiore… i ricordi sono tutto ciò che mi permettono di restare in
vita, perché volete privarmi pure di essi?”-
-“Perché
vi distraggono dal vostro consorte, Vostra Altezza.”- rispose Kurenai, fredda e categorica.
-“Sarà
consorte quando ci saremo sposati. Fino ad allora il maharaja non è altri che
mio cugino. Ora vi prego maestra… allontanatevi da qui. Vorrei restare sola.”-
la invitò ad andarsene la principessa con tono freddo, dandole le spalle e
ritornando alla finestra.
-“Come
Sua Altezza desidera.”- si congedò la donna, sollevando elegantemente il sari
scarlatto in modo da uscire senza far troppo rumore.
Aprì la
porta, pensierosa, voltandosi un’ultima volta verso la giovane. Hinata era alla
finestra e aveva ripreso a piangere, mentre fissava il Taj Mahal avvolto dalle
tenebre, occasionalmente squarciate da qualche lampo.
–“Principessa
Hinata…”- la richiamò con voce pacata –“…per quanto ne sapete quel giovane
potrebbe già essere morto. Vi ho detto che la vita nei bassifondi è molto dura…
perciò rinunciate al suo ricordo, ve ne prego.”- la supplicò infine,
abbandonando la stanza.
La
moretta sospirò, assottigliando lo sguardo sull’orizzonte fatto di tenebre e
tempesta, così come la sua anima in quel momento. In un impeto improvviso di
ansia, strinse di più a sé la scatola, che era tutto ciò che di candido era
rimasto nella sua vita insieme ai suoi occhi sempre offuscati dalle lacrime.
…to be continued!
*Angolo di Sakurina*
Oh mio
Dio, davvero, sono emozionata *O*
Non me lo
sarei davvero mai aspettata ç___ç !!!
Il primo
posto con una storia dove ci sono le mie coppiette preferite… awww!
Ringrazio
Sil e Milly per aver indetto questo splendido
concorso, ma soprattutto per aver inserito il Taj Mahal fra le scelte! Senza questo
bellissimo edificio, questa storia non sarebbe mai nata nella mia mente bakata!
Che dire
se non che amo questa storia, perché mi sono impegnata tanto per scriverla e perché
mi piace particolarmente come ho reso i caratteri dei pg
in questo contest altamente AU. Soprattutto Ino e Shika… awww!
*___*
Mi congratulo
anche con tutte le altre splendide partecipanti! *O*
E un
grazie a tutti coloro che vorranno recensire! <3