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Autore: controcorrente    16/12/2014    2 recensioni
Metà del 1800. Soledad Blanca Escobar ha solo 8 anni eppure sa già quanto sia veritiero il significato del proprio nome e, forte dell'esperienza della sua famiglia, arriva a pensare che amore e matrimonio non siano compatibili. Soledad rinnega l'amore ed ogni forma di sentimento, ritenendolo causa di ogni sua sciagura...eppure sarà proprio un matrimonio combinato a farle capire quanto sia importante...sia pure a caro prezzo.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Violenza
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LE HAVRE

Dicono che quando perdi ogni speranza, quando la consapevolezza di essere ormai finita, divora ogni illusione, sia possibile capire cosa si sia davvero importante, dopo averlo perso in modo beffardo.

All'epoca dei fatti, avevo creduto di vivere quella mancanza, convincendomi presuntuosamente di aver fatto un considerevole bagaglio di dolore, sufficiente per definirmi esperta. Non avevo più una madre ed avevo scoperto che la sua nobile schiatta era completamente disinteressata alla mia sorte, se non nella misura in cui avrei evitato ogni possibile scandalo per i De Rossignol. Quando mi gettai dalla nave, trovando una forza inaspettata in quel corpo che fino a quel momento era rimasto inerte e muto allo scorrere degli eventi, avevo creduto di porre fine a quello che era successo.

Mi sbagliavo...come sbagliavo nel credere che avrei voluto rivedere Honor, con la quale condividevo solitudine e malinconia. Quando aprii gli occhi, credetti di essere, per un momento, nella mia dimora a Cordoba, quando ancora possedevo quella casa.

Pensai di rivedere il cortile interno dell'edificio, con uno spicchio di cielo sopra la testa e l'odore di limone e gelsomino perennemente nelle narici. Invece, non accadde niente di tutto questo. Vidi il soffitto coperto di muffa della terza classe e sentii il pavimento oscillare sotto di me, ondeggiando.

Piano piano, lentamente, mi misi a sedere, con la bocca impastata di qualcosa di amaro e secco e compresi che non ero nella mia città natale.

-Ti sei svegliata-disse una voce.

Mi voltai di scatto, impallidendo di nuovo.

Don Escobar era seduto accanto al mio letto. Gli abiti erano sgualciti, come se non avesse dormito per molto tempo. Anche la chioma, solitamente ben curata, sembrava non conoscere un pettine da mesi. Fu inevitabile, per me, cogliere una simile stranezza e mi arrabbiai per questo insano interesse per quell'uomo. Non avrei dovuto badare a quelle cose. Era colpa sua se ora vivevo in quell'inferno.

Solo sua.

Lui non sembrò accorgersi dei miei pensieri ostili o, se mai ne fu al corrente, erano cose che, ai suoi occhi, non avevano alcun peso...così non mi stupii quando prese una bottiglia di liquido trasparente e me la porse. Allungò la bottiglia nella mia direzione, tenendo lo sguardo rivolto verso di me. Io protesi il braccio, quasi senza pensarci...ma l'altro si allontanò di scatto, insieme alla bottiglia, non appena fui sul punto di toccare il vetro. -No, non te la meriti. Non se fai una cosa tanto stupida.- fece -Perché devo sprecare la mia acqua in questo modo?-

Mi immobilizzai un momento. Malgrado la sete mi stesse annientando, non riuscivo comunque a smettere di provare paura nei suoi confronti. Don Escobar mi fissò un momento, poi scoppiò a ridere. -Ovviamente scherzavo-disse,buttandomi malamente quella bottiglia.

La presi al volo, con le braccia che tremavano, tentando di non guardarlo negli occhi. Farlo mi terrorizzava, fin da quando ero nata. Solo Honor non ne aveva mai avuto paura di lui ma questo non gli aveva impedito di fare quella tragica fine...e quel ricordo mise da parte la sete che mi stringeva la gola.

Alzai la testa e fissai Don Escobar. Perché dovevo bere? Per quale ragione avrei dovuto mettere da parte tutto quello che stavo passando...

-Mangia ragazzina- disse questi, avvicinandomi poi un piatto di zuppa che prima non avevo visto.

Osservai il suo viso, dai lineamenti efebici e privi d'imperfezione. Nessun sentimento li attraversava, in nessuna occasione. Anche quando la mamma era viva, conservava quell'arcaica staticità. Io avevo semplicemente paura, come sempre. Intimidita com'ero dalla sua assenza di espressioni, mi ritrovai bloccata come in uno strano e insolito intontimento.

-Immagino che tu abbia fame. Hai corso un rischio non indifferente e devi bere e nutrirti come si deve.-disse, fissandomi a lungo.

Quelle parole mi spiazzarono. Che non si fosse accorto del mio gesto? Un senso di sollievo, misto ad euforia, attraversò il mio corpo, tanto che mi ritrovai a sorridere come una sciocca. Per una volta avevo imbrogliato mio padre, facendogli credere il falso. Presi quello che mi porgeva, con aria quasi riconoscente.

Per una volta, ero riuscita a porre rimedio a quello che la mia incoscienza aveva scatenato. Toccai appena le sue mani, come per accertarmi di quello che stavo per fare... ma quello, con una mossa repentina mi prese i palmi, bloccando i miei intenti.

-Cosa volevi fare?-domandò, stringendo improvvisamente le mani attorno ai miei polsi, alla stessa maniera di una tenaglia. Ricordo bene quella morsa, il panico che lentamente si diramò dentrò, mangiandosi ogni forma di raziocinio. L'assassino di mia madre era lì ed io non potevo muovermi in alcun modo. -Io non ti permetterò di morire...e, se mai dovesse accadere, verrò all'inferno e ti ritrascinerò nel mondo dei vivi per i capelli, maledetta loca.- sibilò, con un tono privo di ogni inflessione.

A quella minaccia, alzai lo sguardo.

Con quale coraggio poteva dirmi quella parole? Lui non aveva nessun diritto di darmi alcun ordine, non dopo quello che aveva combinato. Era colpa sua se adesso conducendo quella vita raminga e senza scopo. Era colpa sua se mi trovavo in quelle condizioni. Per l'ennesima volta, un odio confuso si diramò dentro, dandomi improvvisamente quella spinta necessaria a fissarlo...ma Don Ignatio ghignò, prendendomi alla sprovvista.

Lo guardai confusa...poi uno schiaffo impietoso calò sulla mia guancia, facendomi cadere sul materasso. -Che questo ti serva da monito, se hai intenzione di prendermi in giro per l'ennesima volta. Tu non mi lascerai. Non te lo permetterò.-disse, prima di andarsene fuori.

Nel farlo, la porta si chiuse, battendo con forza...ma non me ne curai.

Non avevo nessun rimorso nell'aver scatenato la sua ira e, una volta sola, mi ritrovai a digrignare i denti, come un cane selvatico che, pur avendo di fronte un animale più grosso, continuava a sfidarlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Don Escobar aveva molte qualità...ed una di queste era quella di essere di parola. Se faceva una promessa a qualcuno, questi poteva confidare nel fatto che avrebbe mantenuto quanto stabilito, per quanto impossibile fosse. Un tempo, prima della disgrazia, avrei benedetto quel modo di fare. Lo avrei ringraziato...ora, invece, non facevo altro che avere paura.

Paura ad ogni sussurro.

Paura ad ogni respiro dell'uomo che mi teneva con sé.

Terrore, per qualsiasi azione avesse deciso di compiere, nel malaugurato caso in cui avessi deciso di agire contro.

Non avevo nessuna speranza, come prima...eppure qualcosa era cambiato.

Se, in passato, avevo creduto strenuamente di riuscire a rivedere un giorno mia madre ora, con il mio folle gesto, avevo la sicurezza che quella possibilità mi era completamente preclusa. Benché fallendo, avevo tentato di uccidermi ed ora non ero più degna di ricevere l'abbraccio di Honor.

In nessuno dei mondi possibili, benché il tuffo nell'oceano avesse istillato il timore di ripetere quell'esperienza.

Sapevo perfettamente di essere un peso considerevole per l'uomo che mi teneva in catene. Nessuno sano di mente porterebbe con sé una bambina incapace di camminare perché sarebbe d'intralcio.

La consapevolezza di questo stato di cose mi confondeva. Perché stava facendo tutto questo?

Don Ignacio, comunque fosse, non si fidava di me e, per una sorta di atavica incapacità di affidarsi a qualcuno, aveva deciso di lasciarmi chiusa nella cabina fino alla fine del viaggio. Mi portava il cibo necessario a nutrirmi, controllando che mangiassi tutto, senza lasciare nulla nel piatto. Ogni tanto lo sentivo entrare nella cabina, alle ore più disparate...e tutte le volte fingevo di dormire, per non vederlo più del necessario. Lui rimaneva lì alcuni istanti e poi usciva di nuovo, senza fare rumore.

Non so cosa lo spingesse a entrare in quel modo.

Non aveva mai mostrato i suoi sentimenti e non so nemmeno cosa lo avesse spinto a uccidere Honor. Dentro di me, meschina, covavo il desiderio che il senso di colpa lo divorasse, mangiandosi tutta la cattiveria che lo aveva portato a commettere quel crimine tanto orribile.

 

 

 

-MALEDETTA!- urlò mio padre, svegliandomi di soprassalto. Istintivamente, mi rannicchiai sul letto, turandomi le orecchie con tutta la forza che avevo.

-Non è come credete! Vi supplico, Ignacio...-pregò mia madre, con voce tremante.

-Come potrei farlo? Avete deliberatamente messo in ridicolo la mia persona...ma non vi siete fermata qui. Avete rovinato la mia vita nella maniera più gretta che potesse esserci. Mi fidavo di voi, Iddio mi sia testimone!-sbottò, furibondo.

Sentii dei colpi...e istintivamente chiusi anche gli occhi.

Non era la prima volta che Ignacio picchiava la mamma. Ultimamente lo faceva molto spesso, tanto che Honor, per non spaventarmi, indossava abiti che coprivano quasi interamente il suo corpo. Io fingevo di crederle, con una menzogna a fin di bene. Honor voleva lasciarmi con la protezione dell'ignoranza...ma non aveva tenuto conto che ero spaventosamente sensibile, abituata com'ero a muovermi senza infastidire nessuno. Le lasciai comunque credere in quello che voleva mostrarmi.

Anche la mia era una bugia pietosa ma volevo che la mamma sorridesse...prima o poi.

 

A quel pensiero, chiusi gli occhi. Volevo che soffrisse. Volevo che subisse lo stesso dolore che aveva provocato a mia madre...ma i miei desideri non si avverarono. Don Escobar, malgrado tutto, continuava a frequentare le stanze della prima classe, accompagnando i passeggeri e dispensando sorrisi.

Sembrava lieto e privo di preoccupazioni, felice di poter cominciare una nuova vita...ed io lo odiavo sempre di più.

Mangiavo, forzata dal suo sguardo. Se mai avessi avuto desiderio di morire d'inedia, non avrei potuto esaudire nemmeno un simile proposito, per quanto fosse assai a portata di mano. Don Ignacio controllava ogni mio movimento, badando che mangiassi, senza lasciare niente, senza che potessi rigettarlo, se avessi voluto. Lui mi avrebbe fatto ingoiare tutto, anche se lo avessi rovesciato a terra. Questo pensiero non era una paura recondita ma una certezza.

Non mi restò altro che il sogno, unica e ingannevole valvola di fuga da quel Mondo, ai miei occhi, sempre più orribile. Vedevo mio padre andare e venire dalla prima classe, con abiti sempre nuovi e profumi sempre diversi addosso.

Non mi disse più nulla.

Né un rimprovero.

Né una minaccia.

Pareva lieto e sereno come un efebo.

Come se tutto il male arrecato non fosse mai esistito.

 

 

 

 

Il giorno dell'arrivo in quella che era la nostra destinazione, mio padre irruppe nella cuccetta all'improvviso, cogliendomi alla sprovvista. Ero così abituata a mangiare e dormire da rimanere come intorpidita da quell'ingresso tanto brusco. Una volta ricomposta, lo guardai.Indossava un completo scuro, simile a quello che aveva portato quando passeggiava nei pressi della città di Cordoba.

-Figlia- disse- è il momento di scendere. Prendete uno dei vestiti che ho messo sul letto e vestitevi.-

Non feci domande. Quanto accaduto era bastato ad insegnarmi di non irritare mio padre più del dovuto e, dopo il mio tentato suicidio, avevo imparato a temere la morte quanto bastava per forzarmi a sopravvivere, al di là di ogni sofferenza.

Fissai laconica il paesaggio oltre il vetro sporco dell'oblò.

Lo trovavo scuro e sgradevole...e questa sensazione aumentò quando scesi dall'imbarcazione, spinta da mio padre. Don Escobar aveva provveduto a prendere una nuova carrozzella, in modo da potersi muovere liberamente, senza il fastidio del peso del mio corpo. Per paradosso, gli fui grata di una simile premura. I pochi contatti fisici che avevo avuto con lui mi avevano svelato quanto li odiassi.

-Siamo a Le Havre-disse, interrompendo i miei pensieri e, con quelle parole, ebbe termine qualsiasi conversazione. Tutto ciò che mi rimase fu quello spazio immenso ed estraneo, accompagnato da parole di biasimo che, sapevo, non avrei rivelato al diretto interessato.

Le Havre era grande e rumorosa, avvolta da una frenesia che mi lasciava confusa e sgomenta. Nemmeno Lisbona, intrisa dell'odore del merluzzo e del pesce dell'oceano, era riuscita a colpirmi in quel modo. Le urla ed il vociare intorno mi scuoteva, percuotendomi come un bastone che colpisce una campana di ferro, facendomi vibrare, come una cassa di risonanza. Istintivamente mi chiusi nello scialle che tenevo attorno al corpo, nel tentativo di coprirmi da quelle persone. Alcune erano semplici operai del porto, altri erano venditori ambulanti, altri ancora semplici straccioni che elemosinavano, attaccandosi ai passanti. Quella vista mi spaventava maggiormente.

Non avevo mai visto così tante persone intorno.

Non riuscivo a contarle.

Con i loro abiti pesanti e grezzi.

Con le loro mani ruvide.

Con il tanfo d'umanità che si portavano addosso.

Immersi in quella massa, mio padre ed io ci avventuravamo, scivolando sinuosi con la stessa grazia di una biscia sull'erba. Io mi coprivo più del necessario, terrorizzata da quella folla che mi sembrava così nuova e terribile. Così facendo, mi avvicinavo a lui, senza veramente volerlo. Poi mi accorgevo della distanza ridotta e mi ritraevo, riproducendo un movimento simile al mare sulla spiaggia. Non volevo toccarlo più del necessario ma era un pensiero che non potevo realizzare pienamente.

Quel viaggio sembrava non finire mai.

Percorremmo quel tragitto nel silenzio più profondo che avessi mai sentito. Un'assenza di parole che sapeva d'ineluttabilità. Ancora una volta, quel mutismo mi ribadiva che non potevo fare niente per cambiare quanto stava avvenendo. Durante quel viaggio, dopo aver fallito i miei propositi ed aver sperimentato cosa Don Escobar poteva fare, nel malaugurato caso in cui non fossi riuscita a raggiungere Honor, avevo messo da parte il mio desiderio, seppellendolo nell'apatia. Tutto passa era solita dirmi Donna Escobar, con un sorriso triste.

Tutto passa.

Le cose liete e quelle tristi.

Così mi raccontava...ma in quel momento tutto mi sembrava vuoto e spento. Non avrei mai potuto accogliere quelle parole con animo sereno. Ero insieme all'uomo che aveva rovinato tutto, come potevo accettare una simile situazione? La risposta era una ed una soltanto: dovevo, per sopravvivere, anche se il futuro mi spaventava, così tanto da togliermi il fiato.

 

 

 

 

 

 

Lentamente, in modo quasi impercettibile, il paesaggio mutò. La zona frenetica del porto lasciò il posto alla periferia della città. Le bettole e le locande, intasate di marinai, furono sostituiti da vie ampie e luminose, costellate di alberi. Anche il tanfo di umanità, che prima mi aveva disgustato, sparì di colpo, inghiottito da quegli spazi inattesi.

Mentre mio padre stringeva con una mano la mia carrozzella e con l'altra teneva stretto a sé i propri averi, io fissavo silenziosa le persone che incontravo. Indossavano abiti di fattura diversa, rispetto a quella che avevo visto fino a quel momento. C'erano donne con eleganti cappellini ed abiti abbinati che passeggiavano insieme ai loro compagni. Quel modo di fare appariva completamente estraneo ai miei occhi.

Honor non era mai uscita dalla dimora degli Escobar, se non per le feste religiose. Non aveva nemmeno rivolto dei toni così scherzosi a mio padre, anche prima che tutto declinasse fino al tragico epilogo. Le risate dei passanti colpivano i miei ricordi come aghi ghiacciati, lacerando un'anima che ormai aveva perso il conto delle ferite. Era tutto così nuovo e strano da farmi dubitare della loro veridicità.

Giungemmo infine in una piccola chiesa dalla pietra scura. Aveva una forma piccola e vagamente dimessa, dai colori grigi e foschi.

Quella vista mi lasciò completamente indifferente ma mio padre, non appena vide l'edificio, si mosse verso quella direzione. Camminammo fino all'ingresso, dove trovammo una donna vecchia e grassa. -Buongiorno, vogliamo parlare con il parroco di questa basilica.-disse, con un tono deciso e dimesso insieme.

-Chi cercate?-chiese, sospettosa, squadrando entrambi con i suoi occhi piccoli.

-Ho una lettera da parte dell'ambasciatore Louis Anjoux, di stanza a Lisbona. Mi ha detto di consegnarla al parroco Don Armand.-rispose, studiando la donna con finta indifferenza. Sentii la voce di mio padre scivolarmi accanto, come un corso di acqua invernale. Mi venne spontaneo guardare verso il cielo ma le nuvole che viaggiavano sopra la mia testa, non mi lasciavano il calore che cercavo.

La donna lo guardò. -Lo informerò subito. Aspettate nel giardino.-rispose, prima di entrare nuovamente nell'edificio.

 

 

 

 

Il giardino della chiesa era piccolo ma ben curato. Alcune piante, con dei fiori violetto, crescevano nei pressi del muro di pietra grigia, accompagnando un albero dalla corteccia nera. Un vento umido scuoteva pigramente le fronde, penetrando nella stoffa.

Mi avvolsi ancora di più nello scialle che avevo intorno al corpo, nel tentativo di ricevere un po'di calore. La luce lattiginosa che usciva dalle nuvole non riusciva a raggiungermi davvero.

-Bonjour, Monsieur Escobar- disse una voce, interrompendo il flusso dei miei pensieri. Udendo il nome di mio padre, mi girai di scatto...e fu allora che vidi un uomo tarchiato e dai capelli bianchi. Indossava una tonaca nera ed una croce dorata si stagliava sul suo petto. -Ho saputo che siete un amico di Louis. Ditemi la verità: sta bene?-chiese.

Mio padre annuì. -Ha un ruolo molto importante nella città di Lisbona ed è un amico sincero e leale. Sono molto fortunato ad essere in buoni rapporti con lui.-disse.

Quella frase, unita alla vista degli incontri che avevo visto nella capitale portoghese che ricordavo, per mia sfortuna, con dovizia di particolari, era così stridente nella mia mente da sembrare quasi divertente. Fu difficile, per me, trattenere le risa...ma non avevo scelta. Non dubitavo, infatti, che mi avrebbe schiaffeggiato, se non avessi resistito.

-La lettera dice così-convenne l'uomo- e mi ha anche riferito delle vostre difficoltà. Iddio vi ha comunque assistito, dal momento che i viaggi dal vostro Paese sono estremamente ardui, in questo periodo.-

Don Escobar annuì, mantenendo l'espressione compita con cui si era presentato all'inizio. -Ebbene, è mia intenzione cominciare una nuova vita in Francia. La Spagna ha dato molto alla mia vita ma è densa di ricordi che non amo trascinarmi dietro.-fece, apatico- Immagino che saprete cosa vi è scritto nella lettera.-

Il parroco scorse rapido il foglio. -Naturalmente, monsieur. Devo comunque dirvi che non posso accettare completamente tutto...e sapete bene perché. Senza dare garanzie, solo un folle darebbe il suo consenso.- disse.

Mio padre non batté ciglio, almeno in apparenza. Non mi sfuggì però il modo in cui aveva irrigidito le gambe. Quel gesto mi fece rabbrividire. Lo faceva spesso, quando le cose non andavano come desiderava. Spesso precedevano il momento in cui la mamma otteneva un nuovo livido, quando il matrimonio dei miei genitori scivolava nella sua china finale. -Avete pienamente ragione. La mia richiesta sarebbe eccessiva...ma non ho fretta. Louis ha sempre il vizio di dare più di quanto riceve.-commentò apatico.

Il parroco annuì, consapevole della verità dietro a quelle parole. -La vostra severità nei confronti della nostra comune conoscenza mi conforta. Louis tende a circondarsi di pessime amicizie ed è raro che si circondi di gente così schietta- concesse, con indulgenza- Siete i benvenuti in questa dimora del Signore. Immagino che non abbiate un alloggio.-

-Avete perfettamente ragione. Non abbiamo avuto il tempo di preparci adeguatamente.-rispose mio padre, con un tono che non ammetteva repliche. Mi venne spontaneo guardare fisso il prete.

Pareva sorpreso, dalla prontezza di quella frase. Non si aspettava che troncasse la conversazione in quel modo. Lo vidi aggrottare la fronte, salvo poi rilassarla quasi subito, con la piega cordiale con cui ci aveva accolto. Sperai che non facesse domande. Pregai con ogni fibra del mio essere che non chiedesse spiegazioni...perché sapevo che le risposte di Don Escobar, infarcite di nuove menzogne, avrebbero aperto nuove ferite.

-Siete il benvenuto. La mia foresteria è aperta a voi e a vostra figlia per tutto il tempo che occorre. Usatela come meglio credete.-disse.

 

 

 

 

La vecchia che ci aveva aperto la porta della chiesa, era la perpetua del parroco. Si chiamava Marthe e viveva insieme al sacerdote da molti anni. Ci indicò i luoghi dove potevamo alloggiare, gli orari in cui avrebbero servito il cibo e le regole del posto.

Mentre così faceva, non smetteva di squadrarci, soffermandosi su di me con un'insistenza che mi spinse, mio malgrado a stringermi alla mano di mio padre. Fu un gesto spontaneo, dovuto alle sensazioni sgradevoli che quella sconosciuta mi procurava. Erano le stesse occhiate che rivolgevano alla mamma, nell'ultimo periodo che avevamo trascorso insieme a Cordoba.

Quando però alzavo la testa, vedendo che quei palmi appartenevano al mio genitore, mi allontanavo di scatto.

Mio padre non dette segno di accorgersene ma accolsi con diffidenza quell'ignorarmi a bella posta. Non credevo che non si fosse accorto di nulla, tanto che, memore della brutta esperienza, durante la traversata, attesi la pena che sentivo mi sarebbe spettata.

La aspettai...ma non arrivò.

Pensavo che Don Escobar mi avrebbe nuovamente colpito, una volta rimasto solo con me ma non fece nulla di tutto questo.

Quell'esito lasciò in me una strana sensazione.

Avrei dovuto essere felice per non aver subito l'ennesima percossa e invece non lo ero. Per la prima volta, venni colta dal dubbio. Non avrei dovuto pensarla così. Quella mano, che avevo imparato a odiare era la stessa che mi aveva accarezzato la testa, mesi prima. Quella voce, bassa e sotterranea, era la stessa che mi cantava la ninnananna nei giorni di afa.

Eppure era un assassino.

Io lo sapevo.

Qualcosa si spezzò di nuovo.

Non avrei mai dovuto provare emozioni del genere. Dovevo odiarlo, dovevo scaricare su di lui tutto quello che stavo passando...eppure mi ritrovai a rimpiangere quei giorni lontani, quando il sole picchiava sui mattoni di tufo e l'aria era impregnata del profumo di limone e gelsomino. Odio e nostalgia cominciarono a duellare, in una guerra che avrebbe lasciato solo macerie.

Avrei davvero voluto tornare indietro...per rivedere Honor sorridere di nuovo a suo marito e a me.

 

Capitolo di passaggio. Il viaggio di Soledad non è ancora finito. Non so se sono riuscita a trasmettere i suoi sentimenti. Vorrei ringraziare tutti coloro che leggono. Considerando che sono sotto tesi, vi dico subito che qualche svista ci sta. Non so se ci sono ma metto le mani avanti, per prudenza. Non è proprio un avviso ma è un'informazione tecnica su come funziona la mente svitata dell'autrice di questa storia. Scusate il ritardo ma ho un mattone di tesi tra le mani e questa storia non è facile. Grazie a tutti.

   
 
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