Ol•fat•to [L'olfatto o odorato è
uno dei sensi specifici
e rende possibile, tramite i chemocettori,
la percezione della concentrazione, della qualità e
dell'identità di molecole
volatili e di gas
presenti
nell'aria.]
Marco’s POV
Inspira. Espira.
Ucciditi di nicotina,
che assorbisca le tue paure e i tuoi stupidi desideri.
Lasciai che il fumo della sigaretta fuoriuscisse dalle
mie labbra.
Ero un tale stupido, mi vergognavo di me stesso.
Non ero riuscito ad allontanarmi da lui.
Ero stato coraggioso, sì. L’avevo insultato per
bene,
me ne ero andato dopo essermelo fatto, sbattendo la porta, certo. Tutto
molto
bello. Peccato che, una volta fuori da casa sua, io non fossi riuscito
a
muovere più di un passo.
Ero crollato accasciandomi sull’uscio, come frastornato.
Dovetti mettermi a sedere e, una volta che il mio corpo ebbe toccato il
gelido
pavimento, scoppiai a piangere. La sua partenza, le cose che mi aveva
detto,
quello che io gli avevo fatto… era tutto troppo per me.
Pertanto, avevo subito
preso le mie sigarette e le avevo fumate tutte, l’una dopo
l’altra, per tutta
la notte, nella vana speranza di trovare una via di fuga da me stesso.
Arrivò l’alba. Il foyer era ormai invaso da una
fitta
nebbiolina di fumo, un pacchetto di sigarette vuoto era accasciato ai
miei
piedi, pieno di cenere. Che fossi a dir poco distrutto era un fatto
compiuto.
Il problema era che, minuto per minuto, lo diventavo sempre di
più.
Qualche ora fa, Michael aveva fatto una scelta: il suo
fidanzato invece che me, la sua vecchia vita invece di quella che
avremmo
potuto costruire insieme. Dopo avermi illuso per mesi, alla fine mi
aveva
rifilato un bel “grazie e arrivederci”. Nessuna
meraviglia se piansi tutta la
notte come un poppante.
Aveva confermato i miei più grandi timori, ossia che io
per lui non fossi che un po’ di sano divertimento, che da me
non cercasse che
un’avventura. Che io per lui non fossi niente. Che la mia
presenza nella sua
vita non contasse.
Tuttavia, benché stessi cercando da ore di stordirmi a
suon di tabacco, e benché ormai quell’odore acre e
penetrante avesse impregnato
le mie vesti e la mia pelle come fossero spugne, la mia mente si
rifiutava di
cedere del tutto. Come uno sciocco sentivo, o forse lo speravo
soltanto, che
lui provasse per me esattamente ciò che io provavo per lui.
Avevamo diviso
gioie e dolori, paure, risate, lacrime, letto. Tante essenze, quelle,
che
goccia per goccia si mescolavano come infusi e creavano qualcosa di
unico che sapeva di
amore. E, per quanto mi sforzassi di rievocare quelle sue dure e aspre
parole e
di convincermi che Michael fosse contento di essersi sbarazzato di me,
desiderai con una certa cattiveria che in realtà fosse
triste e sconsolato
anche lui. Pregai tutta la notte per quel miracolo.
Era l’alba quando sentii dei rumori provenire
dall’interno della casa. Solo allora mi resi conto di quanto
la notte, fuori
dalle braccia di Michael, facesse schifo.
Lì fuori puzzava di polvere e cenere di tabacco, lo
stesso con il quale avevo riempito il mio corpo per evitare di
impazzire del
tutto. Era l’odore che avrei dato alla galera, a
un’auto in panne che ha finito
di bruciare, a una casa abbandonata.
Mi faceva sentire dimenticato, oppresso.
Non avevo mai fatto caso a che odore ci fosse, invece,
dentro casa di Michael. La prima volta che ci ero andato, lo ricordavo
bene, fu
nel bel mezzo di un acquazzone, quindi la mia memoria difettosa avrebbe
senz’altro detto pioggia.
Ma no. Era un aroma più dolceamaro, più
orientale,
senz’altro più accogliente. Un ambiente che
rievocava quello dell’harem di un
principe indiano.
Già, proprio come un principe.
All’improvviso, la porta si aprì dietro di me.
Per poco non caddi dentro casa.
«Marco!» esclamò.
Tra le mille sfumature della sua voce, tra la sorpresa
e la paura, una punta di esultanza.
Certo. Ovviamente. Si era aspettato che io rimanessi lì
come un povero idiota ad aspettare lui. Perché era
ciò che avevo sempre fatto:
corrergli dietro come un cagnolino.
Mi alzai in piedi, raccogliendo il pacchetto vuoto di
sigarette, pronto a rispondergli che me ne stavo giusto andando,
così non
l’avrei disturbato oltre.
Ma quando mi voltai per fronteggiarlo e vidi che aveva
il naso e gli occhi rossi, come se avesse pianto tutta la notte, e un
indecifrabile sorriso sul volto, le parole mi morirono in gola.
Il mio problema era questo. A Michael non ero mai
riuscito a resistere, né da collega, né da amico,
né da amante. Se mai avevo
desiderato qualcosa nella vita, era lui. Se mai avevo avuto bisogno, un
bisogno
disperato, di qualcosa, era lui. Se mai avevo avuto bisogno di
illudermi che
qualcuno avesse potuto piangere tutta la notte per me, quel qualcuno
era lui.
Ma Michael era troppo per me e ormai era chiaro anche
ai miei occhi.
Lasciai da parte i pensieri e annusai l’aria.
Finalmente un odore familiare che invase e scaldò le mie
narici.
«Hai messo a fare il caffè?»
«Ehm, sì» rispose, impacciato e
frettoloso. «Tu ne
vuole?»
No.
«Sì.» Ti detesto e me ne voglio andare.
«Mi
piacerebbe. Posso entrare?»
Annuì e si fece da parte per lasciarmi entrare. Ero
talmente patetico che mi stomacai da solo.
Nella sua casa portai la mia nuvola di fumo, che soffocò
per un attimo quell’aroma che conoscevo bene –fiori
freschi, ne ero quasi
certo. Adorava ricoprire ogni superficie libera di piccoli
bouquet– misto al
caffè americano appena fatto. Il tutto risultava amarognolo
e vagamente
nauseante, mi fece girare la testa. Trasalii quando notai che tutti i
sopramobili, così come le cianfrusaglie che Michael lasciava
sempre ovunque, da
bravo disordinato qual era, erano scomparse. Stipate in valigia,
probabilmente.
La sera prima non ci avevo fatto caso, troppo preso dalla foga
dell’amore.
Rimanevano soltanto i mobili, il fumo e il caffè. Che
tristezza.
Andai in cucina e mi accasciai su una sedia senza
neanche rivolgergli un sorriso o uno sguardo. Lui fece lo stesso. Lo
sentii
tossicchiare un paio di volte a causa dell’odore di nicotina,
che lo aveva
sempre infastidito, e poi entrare in cucina per versare il
caffè in due tazze e
porgermene una.
Sollevai lo sguardo e soltanto allora notai una specie
di sigaretta lunga e stretta che stava al centro del tavolo della
cucina su un
appoggio, in verticale. Emanava fumo, un fumo che sapeva di legno.
«Incenso» mi spiegò, senza che io gli
chiedessi nulla,
forse captando la mia curiosità. «Tu sa, incenso
può calmare.»
Sorseggiai quel caffè disgustoso oltre ogni
immaginazione e poi ribattei, sperando di essere tagliente:
«E tu da quando in
qua sei un esperto di incenso?»
«Da quando io ha bisogno di calmare me»
borbottò, tutto
d’un fiato.
Poi posò gli occhi su di me.
Come se il motivo della sua mancanza di calma fossi io.
Oh, sì, certo. Adesso che aveva capito che Marco
Mengoni non era più a sua completa disposizione, doveva fare
qualcosa per
riprenderselo, giusto? La cosa mi nauseava.
Non finii neanche il caffè, mi alzai e feci per
andarmene, quando Michael mi richiamò.
«Marco, wait.»
Per qualche strana ragione, mi voltai.
Sembrò impacciato quando riprese a parlarmi: «Tu
ha
lasciato qui delle tue cose. Io le ha messe tutte su letto di là mia
camera se
tu le vuole.»
Ah, ecco. Non stavo levando abbastanza il disturbo,
dovevo farlo meglio. Ogni traccia di me doveva sparire. Bene,
l’avrei
accontentato.
Filai in camera da letto, che ritrovai perfettamente
ordinata e spoglia –le valigie come unica nota stonata in
quell’asettico vuoto–
come se nulla fosse accaduto quella notte, in quella stanza maledetta.
Sul
letto, una mia camicia bianca, uno spazzolino e una boccetta mezza
vuota di
colonia.
Mi salirono le lacrime agli occhi. Era il mio piccolo
kit per quando restavo a dormire da lui. Ossia, quasi tutte le notti.
Raccattai le mie cose, cercando di deglutire quel
gigantesco groppo alla gola, e tentai di scacciare dalla mia mente il
suo
adorabile faccino che mi diceva quando adorasse l’idea di
ritrovarmi accanto a
sé la mattina, al suo risveglio. Quando il nostro sesso
aleggiava attorno a noi
in maniera più blanda rispetto alla notte, quando i nostri
fiati erano
terribili e non ce ne importava un fico secco, anzi, ne ridevamo.
Quando la mia
pelle sapeva della sua e profumava come la sua, e mi sentivo parte di
lui ed
era la sensazione più bella del mondo.
Il telefono di casa cominciò a squillare e soltanto
allora mi ridestai. Asciugai le lacrime che, inevitabilmente, mi erano
scese
sulle guance e tornai di là.
La suoneria mi spaccava i timpani, eppure Michael non
sembrava intenzionato a rispondere. Nel corridoio c’era un
telefono, una luce
lampeggiante mi invitava a sollevare la cornetta e a rispondere. Non
avrei
dovuto farlo. Infondo, era la sua privacy.
Eppure mi guardai intorno per controllare che Michael
non spuntasse e, facendo meno rumore possibile, mi portai la cornetta
all’orecchio.
«Hi
Mika! It’s Andy here, are you ready to come back home?»
Riattaccai immediatamente.
Avevo capito tutto. Tutto quanto mi era perfettamente
chiaro.
Mika.
Andy.
Tornare a casa. Nessun posto per me.
Tornai da lui in cucina, con tutte le mie cose strette
al petto e le lacrime di nuovo pronte a traboccare dai miei occhi.
Piangevo
sempre a causa sua. Lo odiai.
Avrei potuto dirgli molte cose, fargli tante domande,
rinfacciargli parecchi dei suoi sbagli, tuttavia l’unica
frase che mi uscì di
bocca fu:
«Perché Andy ti chiama Mika?»
Sussultò, come se l’avessi spaventato, e mi
guardò.
Oh, no.
Di nuovo quel naso rosso, quegli occhi lucidi, ed erano
lacrime quelle che gli vedevo luccicare sul volto? Oh, povero il mio
tesoro.
No, Marco, nessuna
pietà stavolta, mi imposi. Presi
fiato. «Per quale motivo Andy ti chiama Mika?»
«Che tu vuole dire?» mi chiese, confuso, con un
filo di
voce. Ecco perché non aveva risposto al telefono.
Ero nervoso, talmente tanto che quasi potei sentire
quell’olezzo tipico di bruciato uscirmi dalle tempie per
quanto ero furioso, sul
punto di esplodere.
«Ho risposto al telefono» ammisi. «Era
Andy, che ti chiedeva
se eri pronto a tornare a casa. Ti ha chiamato Mika. Io ti ho sempre
chiamato
Michael, perché pensavo che Mika fosse il tuo nome
d’arte e ti infastidisse
essere chiamato così. Allora perché Andy lo fa?»
Lui non si scompose più di tanto. Era quasi come se si
aspettasse quel mio gesto sconsiderato. «Tutta mia famiglia
chiama Mika da
sempre, ecco perché lui chiama Mika anche.»
Oh, ecco perché. Era perfettamente logico, come avevo
fatto a non pensarci prima?
«Giusto» risposi, sprezzante. «Giusto.
Lui fa parte
della famiglia. Io invece ti ho sempre chiamato Michael, come ti
chiamano gli
amici, perché io non faccio parte di un emerito cazzo,
giusto?»
Si alzò dalla sedia e mi venne incontro. «Questo
è
falso.»
«Gli amici ti chiamano così!» sbottai.
«Perfino Morgan
ti chiamava così! Pensavo che Mika fosse solo il tuo nome
d’arte, ora scopro
che invece è il nome con cui ti chiamano le persone a cui
tieni di più al mondo
e io non sono fra queste, vero?»
«Marco, calmo» mi disse, la sua voce era
più vellutata
adesso. «No è importante.»
«Per me sì!»
«Marco, stop, è solo nome» fece, con un
flebile
sorriso. «Il modo che tu mi chiama no cambia chi io sono e
cosa io provo per te.»
Senza senso.
Le sue parole erano così vuote e senza senso.
Mi venne in mente un verso di Romeo e Giulietta.
“Ciò
che chiamiamo rosa con un altro nome conserverebbe il suo dolce
profumo”. Era
evidente che Shakespeare non aveva mai conosciuto Michael:
c’era una sottile
linea di demarcazione tra chi considerava importante e chi no, e questa
dipendeva dal suo nome.
Per me lui era Michael. Ero al di qua di quella stupida
linea.
«Bene, sai che ti dico allora?» dissi, fermo.
«Che
comunque tu ti faccia chiamare, resti sempre uno stronzo.»
Feci per andarmene.
Ma non potei.
Perché lui mi afferrò per un braccio, mi
strattonò e mi
fece voltare.
Tutto quello che avevo in mano cadde per terra.
Michael mi abbracciò. Mi strinse a sé,
più forte che
mai, mi imprigionò letteralmente tra le sue esili braccia
come se non volesse
mai più lasciarmi andare.
Si sentì un crack
secco, seguito da un odore intenso,
penetrante e sgradevole di colonia concentrata. La boccetta doveva
essersi
rotta, ma non mi importava.
Perché avevo bisogno di fuggire. E l’unico posto
in cui
avrei desiderato farlo erano proprio le braccia di Michael.
Mi maledissi, mi maledissi cento volte per avergli
ceduto per l’ennesima volta, per non essere riuscito di nuovo
a resistergli. Ma
ero vincolato a lui. Come un filo che mi teneva ancorato al suo cuore,
che
avevo provato a recidere in tutti i modi, ma ogni volta si riformava
dentro di
me.
Era una musica troppo bella, un profumo troppo forte,
un dolore troppo intenso, un amore troppo grande.
Mi aggrappai a lui, strinsi forte la stoffa della sua
maglia tra le dita e premetti forte il volto sull’incavo
della sua spalla.
Inutile dire che scoppiai a piangere ma, e la cosa mi sorprese, lui
fece
altrettanto. Gli dispiaceva per davvero andarsene. Per un attimo, mi
sentii uno
sciocco per averne dubitato.
Posai il naso sul suo collo e, per evitare di restare
soffocato dalla mia colonia appestante, inspirai forte il suo profumo.
Lo feci
di nuovo, e poi ancora e ancora per imprimerlo nella memoria. Era
l’odore
naturale della sua pelle.
Sapeva di agrumi e di sapone delicato, a tratti
ricordava il detersivo per piatti e la cosa mi fece quasi ridere.
Agrumi,
sapone, bucato appena fatto, di quando annusi le lenzuola e ci immergi
la
faccia perché sanno di pulito e, sì,
c’era anche un po’ di miele. Era un
profumo fresco, dolce e leggero. Il profumo che mi aveva accompagnato
nei
giorni di risate e nelle notti di urla. Non volevo perderlo. Non potevo
perderlo.
«Ti amo» mi sussurrò
all’orecchio. «Io ti amo, ti amo
Andy, io ti…»
Mi bloccai e lui fece altrettanto.
Scosse la testa e mi abbracciò più forte, mi
chiese
perdono almeno dieci volte, perché sapeva perfettamente cosa
stavo per fare.
Mi staccai da lui e lo guardai. Forse, dal mio volto
trapelava la mia delusione, perché i suoi occhi divennero
nuovamente umidi. Risi. Risi amaramente, risi e piansi al tempo stesso come
un matto, come un malato d’amore.
«Mi hai appena chiamato Andy» constatai
«e ancora dici di amarmi?»
Strinse i denti e mi guardò, disperato.
«Marco, per favore, io ti amo» mi
implorò. «No essere
arrabbiato con me. Io ti amo. No volermi male, Marco, io no vuole
scegliere tra
lui e te.»
Era spaventato e angosciato come un bambino. Non voleva
restare, né mi chiedeva di seguirlo. Non voleva che io ce
l’avessi con lui,
semplice. La rabbia si dissolse e sparì
all’improvviso, rimase solo una triste
pietà e il gelo nel cuore.
Mi allungai verso di lui e baciai le sue labbra, di cui
ero sempre assetato. Non mi bastavano mai. Mi cinse la vita con le
braccia e
premette la sua bocca sulla mia, con urgenza e amore. Tanto, tantissimo
amore.
Poi ci separammo.
Una volta per tutte.
Raccolsi le mie cose da terra, la boccetta rotta
di colonia e tutto il resto.
Poi lo guardai e dissi ciò che avrei sempre dovuto
dirgli: «Hai già scelto, Michael. Hai scelto Andy,
e hai fatto bene. D’altronde, perché dovresti
volere me?»
«Ma…»
«Fammi solo un favore: non tornare, mai più. Anzi, torna
per
amarmi o non tornare affatto.»
Aprii la porta e me ne andai.
Corsi, corsi veloce, via da quella casa, via da quella
vita.
Non mi voltai mai più indietro.
L’aria gelida mi penetrò nelle narici con
violenza, gli
occhi mi divennero lucidi e finsi che fosse per il freddo. Finsi con me
stesso.
Volevo tornare indietro e dirgli che lo amavo anch’io.
Volevo implorarlo di scegliere me.
Ma non feci nulla di tutto ciò. Era così che
doveva
essere.
Inspirai forte l’aria fatta di nuvole e smog, una
brezza malsana come il mio cuore.
«Addio, Michael.»
E me ne andai.
Verso un mondo vuoto.
Mika’s POV
L’avevo lasciato andare.
Marco era andato via e io non l’avrei mai più
rivisto.
Ero sotto shock.
E, come se non bastasse, il suo odore impestava la mia
dannatissima casa.
Non avrei ripulito la chiazza di liquido concentrato.
Che senso aveva farlo se non sarei tornato mai più in quella
dimora?
Andai in cucina e spensi l’incenso. Nulla avrebbe
potuto calmare un cuore spezzato. E poi, quel mix di aromi mi faceva
venire da
vomitare.
Andai in bagno, mi sciacquai il viso. Tra due ore avevo
l’aereo e non volevo arrivare a casa sembrando uno zombie. Se
avessero visto anche
solo una traccia di pianto sul mio volto, Andy e mia madre avrebbero
iniziato a
fare domande, domande alle quali non sarei riuscito a rispondere. O,
almeno,
non sarei riuscito a rispondere senza sciogliermi in lacrime
un’altra volta.
Ma il bagno era pregno di quella stessa colonia forte e
speziata che Marco aveva sparso così generosamente sul
pavimento.
Andai in camera, sentendomi inerte e privo di energie,
e mi gettai sul letto.
Non avrei dovuto farlo.
Spalancai gli occhi: fu come rivivere quei mesi tutti
insieme, all’improvviso. Sul nostro letto c’erano
ancora le tracce del profumo
di Marco, il suo odore selvaggiamente maschio, quello del nostro sesso
e del
nostro sudore. L’odore del caffè che gli portavo
la mattina appena svegli e con
cui lui macchiava regolarmente le coperte. L’odore della sua
colonia speziata,
forte e vellutata. Il profumo chimico e dolciastro del suo shampoo
misto a quello del
mio bagnoschiuma. L’odore delle lacrime che stavo versando in
quel preciso
istante.
Il profumo dell’amore perduto.
Cosa avevo fatto?
Io amavo Marco, lui era mio così come io ero suo.
Allora perché lo avevo lasciato andare? Volevo stringerlo a
me e sentire quei
profumi su di lui invece che su una stupida trapunta.
Pensava, forse, che io non lo volessi più? Che mi fosse
solo servito a scaldarmi il letto la notte? Avevo cercato di fargli
capire che
non era così, che io lo amavo più di quanto
pensasse. Ma la paura di perderlo
mi aveva bloccato e avevo fatto un casino, come al solito.
Non riuscivo mai a combinarne una giusta.
Era stata tutta colpa mia. Avevo rovinato la vita a
Marco.
Io l’avevo baciato. Io gli avevo proposto di cadere in
amore insieme. Io avevo nutrito i primi dubbi. Io avevo deciso di
lasciarlo. Io
gli avevo detto che non lo amavo quanto Andy. Io l’avevo
chiamato con un altro nome.
Io ero stato il tarlo del male che lo aveva lacerato
dall’interno.
Odiai me stesso per tutto quello che gli avevo fatto.
Odiavo me stesso per aver amato.
Per questo piansi, piansi e ancora dolorosamente piansi
sul nostro amore finito. Una semplice storia che sa di bugia.
Un segreto mai svelato.
Io e Andy
eravamo già d’accordo. Non sarebbe venuto
all’aeroporto, ci saremmo visti direttamente a casa. Arrivato
sull’uscio, feci
resistenza contro l’impulso di precipitarmi dentro per farmi
abbracciare e
coccolare dal mio fidanzato. Non lo meritavo affatto e lo sapevo.
Ma poggiai la mano sul pomello, inserii la chiave nella
toppa e la girai, aprendo la porta. Finalmente a casa mia.
Mi guardai intorno. «Andy, ci sei?»
Sentii il rumore di un oggetto che cadeva a terra,
forse una scodella o una padella. Melachi, il nostro cane, si mise
istintivamente ad abbaiare e mi raggiunse trotterellando. Sorrisi
mentre la
accarezzavo. La mia era una casa rumorosa e mi era mancato tutto quel
chiasso. Tra
me e Marco il più rumoroso ero io, perché
lui…
No, non dovevo pensare a Marco, era il passato.
«Mika!»
Andy spuntò dalla cucina e mi venne incontro. Si
fiondò
tra le mie braccia e io lo strinsi forte, ricoprendo di baci ogni
centimetro
del suo volto.
Il suo profumo era quello del legno d’acero, misto a
fragole e pane appena sfornato. Era il profumo di casa, un profumo di
cui avevo
un estremo bisogno.
Marco era caffè e tabacco, forte e invasivo. Andy era
un dolce piatto fatto in casa. Per un attimo, pensai, preferivo il
forte caffè
e l’importuno tabacco.
Dio, già mi mancava il profumo di Marco. Ero messo
male.
Andy premette le sue labbra sulle mie con foga e mi
lasciai trascinare nel suo bacio. Mi era mancato da morire, ma meno di
tutte le
altre volte in cui ero stato via.
«Oh, amore mio» iniziò a dire sulle mie
labbra, con
voce rotta dalla commozione. «Non andare più via
per così tanto tempo, intesi?»
«Intesi, amore» risposi, ed ero sincero.
Poi, come un cane che non riconosce il suo padrone,
Andy fiutò qualcosa che non gli garbò. Vidi il
suo adorabile visino contrarsi
in una smorfia di disgusto.
«Amore, cos’è questa puzza
nauseabonda?»
Sollevai un lembo della mia maglietta e la annusai. Non
sentivo nessun cattivo odore. «Che dici?»
«Sembra una specie di roba speziata andata a male»
spiegò, sprezzante.
Oh, giusto: la colonia di Marco.
Non pensavo che mi sarebbe rimasta addosso per tutto
quel tempo. Dannazione a lui, perché doveva essere
così invadente, perché
doveva aggrapparsi a me anche quando non era lì per farlo?
Era ancora avvinto a
me come edera.
Eccola, la mia prima bugia rifilata a Andy a meno di
due minuti dal mio ritorno. Che triste record.
«Il tizio che era seduto vicino a me in aereo aveva
praticamente fatto il bagno nella colonia» scherzai.
«Mi ha contagiato!»
Andy rise della mia finta disavventura e mi cinse il
collo con le braccia.
«Povero amore» cantilenò. «Hai
decisamente bisogno di
un bagno.»
Il suo tono era basso e voluttuoso, sottinteso era che
il bagno non l’avrei fatto da solo. Dopo tutti quei mesi,
riuscì comunque a
smuovere qualcosa sotto il mio ombelico.
«Anche subito, amore mio» sorrisi.
«Perfetto, così ti levo di dosso
quest’odore orrendo»
commentò.
Mi impietrii.
Una voce nella mia mente urlò disperata. No! Non farlo.
È l’ultima cosa che ti resta di lui, conservalo il
più possibile!
Fu così che io e Andy ci infilammo nella vasca da
bagno. Per tentarmi a dovere, prese una spugna e la passò su
ogni centimetro
del mio corpo. Dalla punta dei capelli alle dita dei piedi, fui lavato
e
strigliato dalle amorevoli mani di Andy.
Piansi ancora tanto quel giorno, gocce che si
disperdevano nell’acqua, lacrime che, mentendogli ancora,
definii di
commozione. Perché avevo sentito tanto la sua mancanza,
perché finalmente ero a
casa.
Ma mentre mi asciugavo e Andy mi baciava la schiena,
non avvertii né amore, né passione, né
commozione. Soltanto, pregai che
quell’acqua rimasta sul mio corpo di non svanisse
così presto.
Quando fui asciutto, anche l’ultima traccia di Marco
evaporò dal mio corpo.
La sua essenza scomparve.
Così come ogni prova tangibile che avesse mai fatto
parte della mia vita.
Era finita.
Stavolta è
finita davvero.
La soffitta
dell’autrice:
Ebbene sì,
stavolta è finita davvero. Perché i sensi sono
finiti.
I sensi sono
finiti ma la storia no.
Perché, sì, c’è
ancora quel qualcosa che manca, no? Quel piccolo non so che…
che serve a
completare le storie, no? Avete capito?
Bene, mentre voi
ci pensate, io mi scuso per il ritardo abissale e vi do appuntamento al
prossimo capitolo (che inizierò seduta stante a scrivere).
Sapete che vi adoro
tutti vero? Soprattutto la mia beta comeunangeloallinferno94, che adoro
più di
ogni altra cosa.
Bene, mi
dileguo, e alla prossima!