Fanfic su artisti musicali > Mika
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Autore: _Even    17/12/2014    7 recensioni
[Coppia: Mirco]
Marco e Mika. Il loro amore raccontato pezzo per pezzo.
Una raccolta che riguarda i momenti più importanti della loro storia. Filo conduttore: i sensi che, al contrario di ciò che si pensa, sono più di cinque.
«Perché noi eravamo questo. Vivevamo di piccoli istanti e brevi momenti che parevano senza senso, tanto erano piccoli e apparentemente senza importanza. Eppure per noi ce l'avevano, un senso. Noi eravamo in quello sguardo d'intesa, in quella parola detta sottovoce ed eravamo in quell'aroma di caffè. Eravamo nel dolore più intenso, nel profumo più forte e nella caduta che ci ha colti di sorpresa. Eravamo nelle notti statiche, il gelo nelle mani e il calore sulle guance. Eravamo noi in ogni cosa, eravamo vita. Eravamo amore.
E questo non ha mai avuto senso per nessuno. Per nessuno tranne che per noi.»
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Olfatto [L'olfatto o odorato è uno dei sensi specifici e rende possibile, tramite i chemocettori, la percezione della concentrazione, della qualità e dell'identità di molecole volatili e di gas presenti nell'aria.]

 

Marco’s POV

 
Inspira. Espira.
Ucciditi di nicotina, che assorbisca le tue paure e i tuoi stupidi desideri.
Lasciai che il fumo della sigaretta fuoriuscisse dalle mie labbra.
Ero un tale stupido, mi vergognavo di me stesso.
Non ero riuscito ad allontanarmi da lui.
Ero stato coraggioso, sì. L’avevo insultato per bene, me ne ero andato dopo essermelo fatto, sbattendo la porta, certo. Tutto molto bello. Peccato che, una volta fuori da casa sua, io non fossi riuscito a muovere più di un passo.
Ero crollato accasciandomi sull’uscio, come frastornato. Dovetti mettermi a sedere e, una volta che il mio corpo ebbe toccato il gelido pavimento, scoppiai a piangere. La sua partenza, le cose che mi aveva detto, quello che io gli avevo fatto… era tutto troppo per me. Pertanto, avevo subito preso le mie sigarette e le avevo fumate tutte, l’una dopo l’altra, per tutta la notte, nella vana speranza di trovare una via di fuga da me stesso.
Arrivò l’alba. Il foyer era ormai invaso da una fitta nebbiolina di fumo, un pacchetto di sigarette vuoto era accasciato ai miei piedi, pieno di cenere. Che fossi a dir poco distrutto era un fatto compiuto. Il problema era che, minuto per minuto, lo diventavo sempre di più.
Qualche ora fa, Michael aveva fatto una scelta: il suo fidanzato invece che me, la sua vecchia vita invece di quella che avremmo potuto costruire insieme. Dopo avermi illuso per mesi, alla fine mi aveva rifilato un bel “grazie e arrivederci”. Nessuna meraviglia se piansi tutta la notte come un poppante.
Aveva confermato i miei più grandi timori, ossia che io per lui non fossi che un po’ di sano divertimento, che da me non cercasse che un’avventura. Che io per lui non fossi niente. Che la mia presenza nella sua vita non contasse.
Tuttavia, benché stessi cercando da ore di stordirmi a suon di tabacco, e benché ormai quell’odore acre e penetrante avesse impregnato le mie vesti e la mia pelle come fossero spugne, la mia mente si rifiutava di cedere del tutto. Come uno sciocco sentivo, o forse lo speravo soltanto, che lui provasse per me esattamente ciò che io provavo per lui. Avevamo diviso gioie e dolori, paure, risate, lacrime, letto. Tante essenze, quelle, che goccia per goccia si mescolavano come infusi e creavano qualcosa di unico che sapeva di amore. E, per quanto mi sforzassi di rievocare quelle sue dure e aspre parole e di convincermi che Michael fosse contento di essersi sbarazzato di me, desiderai con una certa cattiveria che in realtà fosse triste e sconsolato anche lui. Pregai tutta la notte per quel miracolo.
Era l’alba quando sentii dei rumori provenire dall’interno della casa. Solo allora mi resi conto di quanto la notte, fuori dalle braccia di Michael, facesse schifo.
Lì fuori puzzava di polvere e cenere di tabacco, lo stesso con il quale avevo riempito il mio corpo per evitare di impazzire del tutto. Era l’odore che avrei dato alla galera, a un’auto in panne che ha finito di bruciare, a una casa abbandonata.
Mi faceva sentire dimenticato, oppresso.
Non avevo mai fatto caso a che odore ci fosse, invece, dentro casa di Michael. La prima volta che ci ero andato, lo ricordavo bene, fu nel bel mezzo di un acquazzone, quindi la mia memoria difettosa avrebbe senz’altro detto pioggia.
Ma no. Era un aroma più dolceamaro, più orientale, senz’altro più accogliente. Un ambiente che rievocava quello dell’harem di un principe indiano.
Già, proprio come un principe.
All’improvviso, la porta si aprì dietro di me.
Per poco non caddi dentro casa.
«Marco!» esclamò.
Tra le mille sfumature della sua voce, tra la sorpresa e la paura, una punta di esultanza.
Certo. Ovviamente. Si era aspettato che io rimanessi lì come un povero idiota ad aspettare lui. Perché era ciò che avevo sempre fatto: corrergli dietro come un cagnolino.
Mi alzai in piedi, raccogliendo il pacchetto vuoto di sigarette, pronto a rispondergli che me ne stavo giusto andando, così non l’avrei disturbato oltre.
Ma quando mi voltai per fronteggiarlo e vidi che aveva il naso e gli occhi rossi, come se avesse pianto tutta la notte, e un indecifrabile sorriso sul volto, le parole mi morirono in gola.
Il mio problema era questo. A Michael non ero mai riuscito a resistere, né da collega, né da amico, né da amante. Se mai avevo desiderato qualcosa nella vita, era lui. Se mai avevo avuto bisogno, un bisogno disperato, di qualcosa, era lui. Se mai avevo avuto bisogno di illudermi che qualcuno avesse potuto piangere tutta la notte per me, quel qualcuno era lui.
Ma Michael era troppo per me e ormai era chiaro anche ai miei occhi.
Lasciai da parte i pensieri e annusai l’aria. Finalmente un odore familiare che invase e scaldò le mie narici.
«Hai messo a fare il caffè?»
«Ehm, sì» rispose, impacciato e frettoloso. «Tu ne vuole?»
No. «Sì.» Ti detesto e me ne voglio andare. «Mi piacerebbe. Posso entrare?»
Annuì e si fece da parte per lasciarmi entrare. Ero talmente patetico che mi stomacai da solo.
Nella sua casa portai la mia nuvola di fumo, che soffocò per un attimo quell’aroma che conoscevo bene –fiori freschi, ne ero quasi certo. Adorava ricoprire ogni superficie libera di piccoli bouquet– misto al caffè americano appena fatto. Il tutto risultava amarognolo e vagamente nauseante, mi fece girare la testa. Trasalii quando notai che tutti i sopramobili, così come le cianfrusaglie che Michael lasciava sempre ovunque, da bravo disordinato qual era, erano scomparse. Stipate in valigia, probabilmente. La sera prima non ci avevo fatto caso, troppo preso dalla foga dell’amore. Rimanevano soltanto i mobili, il fumo e il caffè. Che tristezza.
Andai in cucina e mi accasciai su una sedia senza neanche rivolgergli un sorriso o uno sguardo. Lui fece lo stesso. Lo sentii tossicchiare un paio di volte a causa dell’odore di nicotina, che lo aveva sempre infastidito, e poi entrare in cucina per versare il caffè in due tazze e porgermene una.
Sollevai lo sguardo e soltanto allora notai una specie di sigaretta lunga e stretta che stava al centro del tavolo della cucina su un appoggio, in verticale. Emanava fumo, un fumo che sapeva di legno.
«Incenso» mi spiegò, senza che io gli chiedessi nulla, forse captando la mia curiosità. «Tu sa, incenso può calmare.»
Sorseggiai quel caffè disgustoso oltre ogni immaginazione e poi ribattei, sperando di essere tagliente: «E tu da quando in qua sei un esperto di incenso?»
«Da quando io ha bisogno di calmare me» borbottò, tutto d’un fiato.
Poi posò gli occhi su di me.
Come se il motivo della sua mancanza di calma fossi io.
Oh, sì, certo. Adesso che aveva capito che Marco Mengoni non era più a sua completa disposizione, doveva fare qualcosa per riprenderselo, giusto? La cosa mi nauseava.
Non finii neanche il caffè, mi alzai e feci per andarmene, quando Michael mi richiamò.
«Marco, wait
Per qualche strana ragione, mi voltai.
Sembrò impacciato quando riprese a parlarmi: «Tu ha lasciato qui delle tue cose. Io le ha messe tutte su letto di là mia camera se tu le vuole.»
Ah, ecco. Non stavo levando abbastanza il disturbo, dovevo farlo meglio. Ogni traccia di me doveva sparire. Bene, l’avrei accontentato.
Filai in camera da letto, che ritrovai perfettamente ordinata e spoglia –le valigie come unica nota stonata in quell’asettico vuoto– come se nulla fosse accaduto quella notte, in quella stanza maledetta. Sul letto, una mia camicia bianca, uno spazzolino e una boccetta mezza vuota di colonia.
Mi salirono le lacrime agli occhi. Era il mio piccolo kit per quando restavo a dormire da lui. Ossia, quasi tutte le notti.
Raccattai le mie cose, cercando di deglutire quel gigantesco groppo alla gola, e tentai di scacciare dalla mia mente il suo adorabile faccino che mi diceva quando adorasse l’idea di ritrovarmi accanto a sé la mattina, al suo risveglio. Quando il nostro sesso aleggiava attorno a noi in maniera più blanda rispetto alla notte, quando i nostri fiati erano terribili e non ce ne importava un fico secco, anzi, ne ridevamo. Quando la mia pelle sapeva della sua e profumava come la sua, e mi sentivo parte di lui ed era la sensazione più bella del mondo.
Il telefono di casa cominciò a squillare e soltanto allora mi ridestai. Asciugai le lacrime che, inevitabilmente, mi erano scese sulle guance e tornai di là.
La suoneria mi spaccava i timpani, eppure Michael non sembrava intenzionato a rispondere. Nel corridoio c’era un telefono, una luce lampeggiante mi invitava a sollevare la cornetta e a rispondere. Non avrei dovuto farlo. Infondo, era la sua privacy.
Eppure mi guardai intorno per controllare che Michael non spuntasse e, facendo meno rumore possibile, mi portai la cornetta all’orecchio.
«Hi Mika! It’s Andy here, are you ready to come back home?»
Riattaccai immediatamente.
Avevo capito tutto. Tutto quanto mi era perfettamente chiaro.
Mika.
Andy.
Tornare a casa. Nessun posto per me.
Tornai da lui in cucina, con tutte le mie cose strette al petto e le lacrime di nuovo pronte a traboccare dai miei occhi. Piangevo sempre a causa sua. Lo odiai.
Avrei potuto dirgli molte cose, fargli tante domande, rinfacciargli parecchi dei suoi sbagli, tuttavia l’unica frase che mi uscì di bocca fu:
«Perché Andy ti chiama Mika?»
Sussultò, come se l’avessi spaventato, e mi guardò.
Oh, no.
Di nuovo quel naso rosso, quegli occhi lucidi, ed erano lacrime quelle che gli vedevo luccicare sul volto? Oh, povero il mio tesoro.
No, Marco, nessuna pietà stavolta, mi imposi. Presi fiato. «Per quale motivo Andy ti chiama Mika?»
«Che tu vuole dire?» mi chiese, confuso, con un filo di voce. Ecco perché non aveva risposto al telefono.
Ero nervoso, talmente tanto che quasi potei sentire quell’olezzo tipico di bruciato uscirmi dalle tempie per quanto ero furioso, sul punto di esplodere.
«Ho risposto al telefono» ammisi. «Era Andy, che ti chiedeva se eri pronto a tornare a casa. Ti ha chiamato Mika. Io ti ho sempre chiamato Michael, perché pensavo che Mika fosse il tuo nome d’arte e ti infastidisse essere chiamato così. Allora perché Andy lo fa?»
Lui non si scompose più di tanto. Era quasi come se si aspettasse quel mio gesto sconsiderato. «Tutta mia famiglia chiama Mika da sempre, ecco perché lui chiama Mika anche.»
Oh, ecco perché. Era perfettamente logico, come avevo fatto a non pensarci prima?
«Giusto» risposi, sprezzante. «Giusto. Lui fa parte della famiglia. Io invece ti ho sempre chiamato Michael, come ti chiamano gli amici, perché io non faccio parte di un emerito cazzo, giusto?»
Si alzò dalla sedia e mi venne incontro. «Questo è falso.»
«Gli amici ti chiamano così!» sbottai. «Perfino Morgan ti chiamava così! Pensavo che Mika fosse solo il tuo nome d’arte, ora scopro che invece è il nome con cui ti chiamano le persone a cui tieni di più al mondo e io non sono fra queste, vero?»
«Marco, calmo» mi disse, la sua voce era più vellutata adesso. «No è importante.»
«Per me sì!»
«Marco, stop, è solo nome» fece, con un flebile sorriso. «Il modo che tu mi chiama no cambia chi io sono e cosa io provo per te.»
Senza senso.
Le sue parole erano così vuote e senza senso.
Mi venne in mente un verso di Romeo e Giulietta. “Ciò che chiamiamo rosa con un altro nome conserverebbe il suo dolce profumo”. Era evidente che Shakespeare non aveva mai conosciuto Michael: c’era una sottile linea di demarcazione tra chi considerava importante e chi no, e questa dipendeva dal suo nome.
Per me lui era Michael. Ero al di qua di quella stupida linea.
«Bene, sai che ti dico allora?» dissi, fermo. «Che comunque tu ti faccia chiamare, resti sempre uno stronzo.»
Feci per andarmene.
Ma non potei.
Perché lui mi afferrò per un braccio, mi strattonò e mi fece voltare.
Tutto quello che avevo in mano cadde per terra.
Michael mi abbracciò. Mi strinse a sé, più forte che mai, mi imprigionò letteralmente tra le sue esili braccia come se non volesse mai più lasciarmi andare.
Si sentì un crack secco, seguito da un odore intenso, penetrante e sgradevole di colonia concentrata. La boccetta doveva essersi rotta, ma non mi importava.
Perché avevo bisogno di fuggire. E l’unico posto in cui avrei desiderato farlo erano proprio le braccia di Michael.
Mi maledissi, mi maledissi cento volte per avergli ceduto per l’ennesima volta, per non essere riuscito di nuovo a resistergli. Ma ero vincolato a lui. Come un filo che mi teneva ancorato al suo cuore, che avevo provato a recidere in tutti i modi, ma ogni volta si riformava dentro di me.
Era una musica troppo bella, un profumo troppo forte, un dolore troppo intenso, un amore troppo grande.
Mi aggrappai a lui, strinsi forte la stoffa della sua maglia tra le dita e premetti forte il volto sull’incavo della sua spalla. Inutile dire che scoppiai a piangere ma, e la cosa mi sorprese, lui fece altrettanto. Gli dispiaceva per davvero andarsene. Per un attimo, mi sentii uno sciocco per averne dubitato.
Posai il naso sul suo collo e, per evitare di restare soffocato dalla mia colonia appestante, inspirai forte il suo profumo. Lo feci di nuovo, e poi ancora e ancora per imprimerlo nella memoria. Era l’odore naturale della sua pelle.
Sapeva di agrumi e di sapone delicato, a tratti ricordava il detersivo per piatti e la cosa mi fece quasi ridere. Agrumi, sapone, bucato appena fatto, di quando annusi le lenzuola e ci immergi la faccia perché sanno di pulito e, sì, c’era anche un po’ di miele. Era un profumo fresco, dolce e leggero. Il profumo che mi aveva accompagnato nei giorni di risate e nelle notti di urla. Non volevo perderlo. Non potevo perderlo.
«Ti amo» mi sussurrò all’orecchio. «Io ti amo, ti amo Andy, io ti…»
Mi bloccai e lui fece altrettanto.
Scosse la testa e mi abbracciò più forte, mi chiese perdono almeno dieci volte, perché sapeva perfettamente cosa stavo per fare.
Mi staccai da lui e lo guardai. Forse, dal mio volto trapelava la mia delusione, perché i suoi occhi divennero nuovamente umidi. Risi. Risi amaramente, risi e piansi al tempo stesso come un matto, come un malato d’amore.
«Mi hai appena chiamato Andy» constatai «e ancora dici di amarmi?»
Strinse i denti e mi guardò, disperato.
«Marco, per favore, io ti amo» mi implorò. «No essere arrabbiato con me. Io ti amo. No volermi male, Marco, io no vuole scegliere tra lui e te.»
Era spaventato e angosciato come un bambino. Non voleva restare, né mi chiedeva di seguirlo. Non voleva che io ce l’avessi con lui, semplice. La rabbia si dissolse e sparì all’improvviso, rimase solo una triste pietà e il gelo nel cuore.
Mi allungai verso di lui e baciai le sue labbra, di cui ero sempre assetato. Non mi bastavano mai. Mi cinse la vita con le braccia e premette la sua bocca sulla mia, con urgenza e amore. Tanto, tantissimo amore.
Poi ci separammo.
Una volta per tutte.
Raccolsi le mie cose da terra, la boccetta rotta di colonia e tutto il resto.
Poi lo guardai e dissi ciò che avrei sempre dovuto dirgli: «Hai già scelto, Michael. Hai scelto Andy, e hai fatto bene. D’altronde, perché dovresti volere me?»
«Ma…»
«Fammi solo un favore: non tornare, mai più. Anzi, torna per amarmi o non tornare affatto.»
Aprii la porta e me ne andai.
Corsi, corsi veloce, via da quella casa, via da quella vita.
Non mi voltai mai più indietro.
L’aria gelida mi penetrò nelle narici con violenza, gli occhi mi divennero lucidi e finsi che fosse per il freddo. Finsi con me stesso.
Volevo tornare indietro e dirgli che lo amavo anch’io. Volevo implorarlo di scegliere me.
Ma non feci nulla di tutto ciò. Era così che doveva essere.
Inspirai forte l’aria fatta di nuvole e smog, una brezza malsana come il mio cuore.
«Addio, Michael.»
E me ne andai.
Verso un mondo vuoto.
 

Mika’s POV

 
L’avevo lasciato andare.
Marco era andato via e io non l’avrei mai più rivisto. Ero sotto shock.
E, come se non bastasse, il suo odore impestava la mia dannatissima casa.
Non avrei ripulito la chiazza di liquido concentrato. Che senso aveva farlo se non sarei tornato mai più in quella dimora?
Andai in cucina e spensi l’incenso. Nulla avrebbe potuto calmare un cuore spezzato. E poi, quel mix di aromi mi faceva venire da vomitare.
Andai in bagno, mi sciacquai il viso. Tra due ore avevo l’aereo e non volevo arrivare a casa sembrando uno zombie. Se avessero visto anche solo una traccia di pianto sul mio volto, Andy e mia madre avrebbero iniziato a fare domande, domande alle quali non sarei riuscito a rispondere. O, almeno, non sarei riuscito a rispondere senza sciogliermi in lacrime un’altra volta.
Ma il bagno era pregno di quella stessa colonia forte e speziata che Marco aveva sparso così generosamente sul pavimento.
Andai in camera, sentendomi inerte e privo di energie, e mi gettai sul letto.
Non avrei dovuto farlo.
Spalancai gli occhi: fu come rivivere quei mesi tutti insieme, all’improvviso. Sul nostro letto c’erano ancora le tracce del profumo di Marco, il suo odore selvaggiamente maschio, quello del nostro sesso e del nostro sudore. L’odore del caffè che gli portavo la mattina appena svegli e con cui lui macchiava regolarmente le coperte. L’odore della sua colonia speziata, forte e vellutata. Il profumo chimico e dolciastro del suo shampoo misto a quello del mio bagnoschiuma. L’odore delle lacrime che stavo versando in quel preciso istante.
Il profumo dell’amore perduto.
Cosa avevo fatto?
Io amavo Marco, lui era mio così come io ero suo. Allora perché lo avevo lasciato andare? Volevo stringerlo a me e sentire quei profumi su di lui invece che su una stupida trapunta.
Pensava, forse, che io non lo volessi più? Che mi fosse solo servito a scaldarmi il letto la notte? Avevo cercato di fargli capire che non era così, che io lo amavo più di quanto pensasse. Ma la paura di perderlo mi aveva bloccato e avevo fatto un casino, come al solito.
Non riuscivo mai a combinarne una giusta.
Era stata tutta colpa mia. Avevo rovinato la vita a Marco.
Io l’avevo baciato. Io gli avevo proposto di cadere in amore insieme. Io avevo nutrito i primi dubbi. Io avevo deciso di lasciarlo. Io gli avevo detto che non lo amavo quanto Andy. Io l’avevo chiamato con un altro nome.
Io ero stato il tarlo del male che lo aveva lacerato dall’interno.
Odiai me stesso per tutto quello che gli avevo fatto.
Odiavo me stesso per aver amato.
Per questo piansi, piansi e ancora dolorosamente piansi sul nostro amore finito. Una semplice storia che sa di bugia.
Un segreto mai svelato.
 

Io e Andy eravamo già d’accordo. Non sarebbe venuto all’aeroporto, ci saremmo visti direttamente a casa. Arrivato sull’uscio, feci resistenza contro l’impulso di precipitarmi dentro per farmi abbracciare e coccolare dal mio fidanzato. Non lo meritavo affatto e lo sapevo.
Ma poggiai la mano sul pomello, inserii la chiave nella toppa e la girai, aprendo la porta. Finalmente a casa mia.
Mi guardai intorno. «Andy, ci sei?»
Sentii il rumore di un oggetto che cadeva a terra, forse una scodella o una padella. Melachi, il nostro cane, si mise istintivamente ad abbaiare e mi raggiunse trotterellando. Sorrisi mentre la accarezzavo. La mia era una casa rumorosa e mi era mancato tutto quel chiasso. Tra me e Marco il più rumoroso ero io, perché lui…
No, non dovevo pensare a Marco, era il passato.
«Mika!»
Andy spuntò dalla cucina e mi venne incontro. Si fiondò tra le mie braccia e io lo strinsi forte, ricoprendo di baci ogni centimetro del suo volto.
Il suo profumo era quello del legno d’acero, misto a fragole e pane appena sfornato. Era il profumo di casa, un profumo di cui avevo un estremo bisogno.
Marco era caffè e tabacco, forte e invasivo. Andy era un dolce piatto fatto in casa. Per un attimo, pensai, preferivo il forte caffè e l’importuno tabacco.
Dio, già mi mancava il profumo di Marco. Ero messo male.
Andy premette le sue labbra sulle mie con foga e mi lasciai trascinare nel suo bacio. Mi era mancato da morire, ma meno di tutte le altre volte in cui ero stato via.
«Oh, amore mio» iniziò a dire sulle mie labbra, con voce rotta dalla commozione. «Non andare più via per così tanto tempo, intesi?»
«Intesi, amore» risposi, ed ero sincero.
Poi, come un cane che non riconosce il suo padrone, Andy fiutò qualcosa che non gli garbò. Vidi il suo adorabile visino contrarsi in una smorfia di disgusto.
«Amore, cos’è questa puzza nauseabonda?»
Sollevai un lembo della mia maglietta e la annusai. Non sentivo nessun cattivo odore. «Che dici?»
«Sembra una specie di roba speziata andata a male» spiegò, sprezzante.
Oh, giusto: la colonia di Marco.
Non pensavo che mi sarebbe rimasta addosso per tutto quel tempo. Dannazione a lui, perché doveva essere così invadente, perché doveva aggrapparsi a me anche quando non era lì per farlo? Era ancora avvinto a me come edera.
Eccola, la mia prima bugia rifilata a Andy a meno di due minuti dal mio ritorno. Che triste record.
«Il tizio che era seduto vicino a me in aereo aveva praticamente fatto il bagno nella colonia» scherzai. «Mi ha contagiato!»
Andy rise della mia finta disavventura e mi cinse il collo con le braccia.
«Povero amore» cantilenò. «Hai decisamente bisogno di un bagno.»
Il suo tono era basso e voluttuoso, sottinteso era che il bagno non l’avrei fatto da solo. Dopo tutti quei mesi, riuscì comunque a smuovere qualcosa sotto il mio ombelico.
«Anche subito, amore mio» sorrisi.
«Perfetto, così ti levo di dosso quest’odore orrendo» commentò.
Mi impietrii.
Una voce nella mia mente urlò disperata. No! Non farlo. È l’ultima cosa che ti resta di lui, conservalo il più possibile!
Fu così che io e Andy ci infilammo nella vasca da bagno. Per tentarmi a dovere, prese una spugna e la passò su ogni centimetro del mio corpo. Dalla punta dei capelli alle dita dei piedi, fui lavato e strigliato dalle amorevoli mani di Andy.
Piansi ancora tanto quel giorno, gocce che si disperdevano nell’acqua, lacrime che, mentendogli ancora, definii di commozione. Perché avevo sentito tanto la sua mancanza, perché finalmente ero a casa.
Ma mentre mi asciugavo e Andy mi baciava la schiena, non avvertii né amore, né passione, né commozione. Soltanto, pregai che quell’acqua rimasta sul mio corpo di non svanisse così presto.
Quando fui asciutto, anche l’ultima traccia di Marco evaporò dal mio corpo.
La sua essenza scomparve.
Così come ogni prova tangibile che avesse mai fatto parte della mia vita.
Era finita.
Stavolta è finita davvero.

 

 

 

 

La soffitta dell’autrice:
Ebbene sì, stavolta è finita davvero. Perché i sensi sono finiti.
I sensi sono finiti ma la storia no.
Perché, sì, c’è ancora quel qualcosa che manca, no? Quel piccolo non so che… che serve a completare le storie, no? Avete capito?
Bene, mentre voi ci pensate, io mi scuso per il ritardo abissale e vi do appuntamento al prossimo capitolo (che inizierò seduta stante a scrivere). Sapete che vi adoro tutti vero? Soprattutto la mia beta comeunangeloallinferno94, che adoro più di ogni altra cosa.
Bene, mi dileguo, e alla prossima!

  
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