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Autore: aturiel    21/12/2014    5 recensioni
"Stanco si accasciò al suolo e il buio incominciò ad avvolgerlo. Si sentiva soffocare, l’aria cominciò come a pesare e a bloccargli la gola. Si strinse il collo con le mani, il respiro iniziava a mancargli; tutt'un tratto una farfalla dalle ali candide gli penetrò nel petto: il sangue usciva copiosamente, il dolore era insopportabile e, poco prima di perdere i sensi, vide la creatura uscire dalla sua carne e le sue ali, prima bianche, erano rosse di sangue."
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Prima classificata al contest "Tempo di... Tag - Second Edition" indetto sul forum di EFP da Ili91
Partecipa al contest "AU CONTEST - Wherever we are" indetto sul forum di EFP da EmmaStarr
Seconda classificata al contest "Brace yourself : angst is coming" indetto sul forum di EFP da Starhunter
Genere: Angst, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Haruka Nanase, Makoto Tachibana, Nagisa Hazuki
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mille anni, poi altri cento'
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Cosa ho fatto?
Erano queste le uniche tre parole che la sua mente riusciva a partorire, mentre tornava a casa. Avrebbe voluto capire quali pensieri l'avessero attraversato quando aveva aperto la sua bocca per accogliere la lingua di Rinidoto, quando aveva accettato le sue mani, quando l'aveva spogliato, quando l'aveva preso dentro di lui, schiacciato contro il muro ruvido e cadente di quella stanza.
Che fosse la punizione degli dei per aver ricevuto un'eccessiva felicità? Non conosceva la risposta, ma adesso sentiva i sensi di colpa trafiggere il suo cuore: si era unito a uno Spartano, aveva tradito la sua patria e, soprattutto, la fiducia di Machise. Non sapeva cosa fare, si sentiva perso e, in qualche modo, svuotato. L'unica cosa che gli veniva in mente di fare era andare a casa e dormire, sperando di scoprire che tutto fosse stato solamente uno scherzo di Morfeo.
Percorse le vie buie di Atene, quelle strade che ormai da anni conosceva a memoria, poi entrò nella sua – nella loro – dimora. Le stanze erano illuminate ancora dalle fiaccole, cosa che gli fece intuire che Machise era ancora sveglio. Lo cercò quasi freneticamente, e solo quando lo trovò seduto sul bordo del loro giaciglio si rese conto di quanto avesse bisogno di lui.
Egli, sentendolo entrare, si voltò per incrociare il suo sguardo e gli sorrise, gentile come sempre. Aveva capito cos'era successo, aveva già capito tutto, quindi si alzò e, senza dare tempo all'altro di parlare, lo avvolse in un abbraccio.
La sua pelle aveva l'odore pungente del sesso, e Machise non seppe mai quale fra gli dei immortali gli diede la forza di non staccarsi da lui e di permettere al suo volto bagnato di nascondersi nella sua spalla larga. Soffocò la tristezza profonda che l'aveva invaso e portò una mano tra i capelli neri dell'altro, costringendolo a non alzare il capo: non voleva che vedesse le lacrime calde rigargli le guance; lui l'avrebbe aiutato, anche a costo di farsi del male.
Aruse, dopo qualche minuto, si staccò dall'abbraccio e sussurrò:
«Scusami, Machise. Non so cosa mi è preso, come mai io abbia fatto una cosa simile... non lo capisco neanche io. È successo e basta».
«Non ti scusare, stai tranquillo e riposati, Aru».
Lui seguì il suo consiglio e si sdraiò sul suo giaciglio, nascondendo il volto nella stoffa ruvida.
Era proprio la farfalla purpurea, Rinidoto: una creatura malsana che si stava inzuppando sempre più del suo sangue; già lo sentiva premere per uscire, eppure bramava il dolore derivante da quell'intrusione e sperava che mai avesse trovato la via per fuggire da dentro di lui.

****

Le settimane proseguirono veloci, e ogni notte gli dei prendevano possesso del suo corpo facendolo unire a quello di Rinidoto che sempre, famelico, lo bramava. Non riuscivano a spegnersi mai, loro due, non avevano ancora trovato il modo per separarsi; Aruse aveva tentato più volte: l'aveva evitato di giorno, aveva rimosso il pensiero di lui dalla sua mente e aveva cercato di stare il più possibile vicino a Machise, eppure tutti i giorni, alla fine del turno, diceva fra i denti all'amico: «Senti, tu vai a casa. Io finisco di distribuire la cena ai prigionieri», e mai mancava una notte.
Ogni momento che passava lontano da Rinidoto lo trascorreva a pensare a lui, a immaginarlo, a sentirlo. Era diventata un'ossessione, sia per il suo corpo sia per la sua anima, come se avesse bisogno di vederlo ovunque. Ne aveva parlato a Machise e lui gli aveva detto, con aria stanca ma con il suo perenne sorriso: «Quando una persona ce l'hai dentro, è ovunque».
Ormai conoscevano vicendevolmente ogni centimetro di pelle, ogni cicatrice, ogni loro imperfezione, e avevano iniziato a parlare, dopo, confidando le proprie paure e i propri desideri. Rinidoto gli aveva narrato di quanto gli mancasse il suo compagno, un uomo alto e dagli occhi di un verde intenso, e di come l'avesse perso in battaglia, una di quelle contro gli Ateniesi. Era per quello che li aveva odiati, che ogni volta che li combatteva era invaso dal fuoco di Ares e dalla fame di vendetta, come se ogni anima nemica che riusciva a gettare nell'Ade potesse in qualche modo procurare sollievo al suo giovane amico morto troppo presto.
Aruse invece aveva parlato del morbo nero, di quanto avesse paura di svegliarsi un giorno e di veder spuntare sulla pelle abbronzata di Machise uno di quei disgustosi bubboni che lo caratterizzavano. Aveva paura di perdere le persone che amava e, ancora di più, aveva paura di non poterle seguire.
Avevano imparato ad amarsi oltre che a desiderarsi, lo Spartano e l'Ateniese; avevano cucito insieme le loro anime in un intreccio che difficilmente si sarebbe sciolto e sapevano che questo, prima o poi li avrebbe distrutti.
Un giorno come tanti altri Aruse andò per porre di fronte a uno dei prigionieri spartani la ciotola con il cibo, ma quello non alzò nemmeno gli occhi. L'Ateniese lo conosceva come un uomo cordiale che pure con i suoi aguzzini si comportava gentilmente, e per questo si preoccupò. Si chinò e gli diede uno scossone, ma quello non diede segni di vita.
La mente di Aruse viaggiava freneticamente, preoccupata da quell'immobilità improvvisa e, quando un brutto presentimento fece capolino nel suo animo, gli tirò su di scatto il volto: era morto. Aveva il viso gonfio e bluastro, la bocca semiaperta come alla ricerca di una boccata d'aria, ma la cosa che lo fece inorridire di più erano i bubboni che piagavano il suo collo.
Subito schizzò all'indietro, rendendosi conto che ogni minuto in più che passava vicino a quel cadavere aumentava le possibilità di rimanere contagiato. Chiese agli altri tre prigionieri se sapevano quando fosse morto, ma nessuno di loro rispose; solo dopo averli osservati in viso notò che anche loro erano solamente cadaveri bluastri e pieni di piaghe. Possibile che in soli dieci giorni – quelli durante i quali lui non si era recato alla prigione perché il suo comandante gli aveva ordinato di recarsi in battaglia e non alle prigioni – fossero tutti morti? Il morbo nero era diventato così forte?
Ma una paura ancora più grande gli attanagliò l'animo poco dopo: l'immagine di Rinidoto riverso a terra, con il volto bluastro e tremendi bubboni a distruggergli la pelle. Corse quindi nella stanza adiacente e, quando lo vide seduto in un angolo con il capo abbassato, si sentì morire perché senza di lui nient'altro sarebbe stato capace di fare. Allora si gettò su di lui, scuotendo forte la sua spalla, pregando che Ade il violento non gliel'avesse portato via per sempre.
Non riuscì a descrivere il suo sollievo quando quello alzò i suoi occhi purpurei, miracolosamente aperti. Eppure il suo sorriso si spense in fretta, notando quanto questi facessero fatica a guardarlo e, anzi, si socchiudessero e lacrimassero. Aruse allora toccò la sua fronte e la scoprì bollente, poi prese un pezzo di stoffa e lo ficcò a forza dentro la bocca dello spartano; non aveva il coraggio di tirar fuori quella pezza da lì, quindi fu Rinidoto a sputarla, e solo allora Aruse si vide costretto a osservarla: era sporca di rosso, di sangue. L'ateniese si accasciò a terra: si sentiva sopraffatto dalla consapevolezza che lui sarebbe morto, che proprio lui l'avrebbe abbandonato. Non riusciva a concepire una realtà simile, tanto che non scoppiò nemmeno a piangere.
I primi giorni li trascorse a bagnare la fronte del malato con pezzi di stoffa e a tenergli stretta una mano, ormai febbricitante; poi passò alla tosse che gli impediva ormai di fare un discorso compiuto; poi il suo corpo divenne freddo al tatto, tanto che Aruse ogni volta pensava di star afferrando le dita di un cadavere parlante; gli ultimi giorni furono i peggiori, quando Rinidoto aveva ormai perdeva la lucidità e delirava, urlava parole ad Aruse quasi incomprensibili, gli parlava come se si trattasse a volte della madre, altre del compagno perduto. E tossiva, tossiva sempre, e si lamentava del caldo che lo opprimeva, nonostante il suo corpo fosse gelido. Si era spogliato di quasi tutti i vestiti e chiedeva continuamente acqua fresca da bere; non dormiva più, e quando lo faceva si svegliava di soprassalto, scosso da incubi. L'ultima volta in cui riuscì a parlare ad Aruse razionalmente, non sopraffatto dal dolore o dalla febbre, gli disse: «Un po' di tempo fa ti chiesi di uccidermi, pensando di non aver altre vie di uscita, e adesso ti chiedo la stessa cosa: salvami da questa gabbia di carne, te ne prego, non ce la faccio più. Sai, ho visto come si riducono i malati gli ultimi giorni, la loro pelle si apre in piaghe purulente e maleodoranti e soffrono, soffrono tantissimo. Ti prego, Aru, se mi ami almeno un po', aiutami».
«Non posso farlo, non riesco a...»
«Ti prego, ti scongiuro. Non farmi diventare un cadavere in decomposizione».
«Ma Rin...»
«Aru, fallo per me».
Immaginò come sarebbe stato passare la vita con lui, come sarebbe stato bello poter far l'amore tutte le sere, come sarebbe stato piacevole continuare a parlare delle loro vite, con Rin che lo incitava a raccontare, cercando di far crollare quel muro di silenzio che da sempre lo circondava. Lui ci riusciva, ci riusciva sempre, e poi si spogliavano e si univano, come due anime che bramavano essere una sola.
Come avrebbe fatto senza di lui ancora non lo sapeva, non riusciva neanche a pensarci, eppure in quel momento decise che avrebbe voluto ricordarsi di lui come il fiero e terribile guerriero che era stato, come l'anima bruciata dal fuoco di Ares, come l'amante focoso che il suo corpo tanto desiderava. Prese quindi la sua amata lama e, per la prima volta piangendo da quando aveva scoperto la malattia, la premette sulla sua gola scoperta. Pensò che se la morte fosse stata una totale assenza di sofferenze e sensazioni, se davvero fosse apparsa simile a un sonno senza né sogni né incubi, allora poteva essere per il corpo e la mente di Rin un sollievo, un guadagno meraviglioso.
Chiuse gli occhi quando tagliò la giugulare dell'uomo, lanciò via la lama sporca del sangue caldo e si rannicchiò in un angolo, schiacciandosi forte le orecchie per non sentire i singulti provenienti da Rinidoto.
Gli dei con lui erano stati crudeli, avevano punito il suo tradimento nei confronti della patria e del suo amico, ma in fondo l'avevano avvisato da molto tempo di cosa sarebbe successo; nel momento in cui aveva ucciso quel giovane guerriero, la farfalla scarlatta aveva dolorosamente perforato il suo addome, lasciandolo irrimediabilmente vuoto.
La profezia si era finalmente compiuta ed era stata terribile, non tanto perché Rinidoto era morto, quanto più perché, adesso, lui sarebbe dovuto sopravvivere, senza di lui.


 


Note:
Per quel che riguarda la malattia, ho cercato un po' in giro su internet, ma visto che mi sono dimenticata di copiare il link, faccio che incollare qui esattamante da cosa ho preso spunto:

La malattia era annunciata da un fortissimo colpo di calore alla testa, seguita da un bruciore agli occhi (che si arrossavano), sovente si diventava fotobici e/o si avevano forti problemi di vista, quindi la gola e la lingua iniziavano a subire piccole perdite di sangue (talvolta anche coprendosi con pustole) e ad emettere cattivo odore. Subito dopo cominciavano starnuti e tosse irrefrenabile, associata a sintomi simili a quelli della bronco-polmonite e a dolori al petto, non tutti gli ammalati erano colpiti anche allo stomaco, o se lo erano avveniva solo dopo diversi giorni di malattia. In tal caso (più grave e con speranze di sopravvivenza realmente ridotte) si veniva colpiti da vomito, spasmi e in alcuni casi dal vomito di bile. Dopo un paio di giorni dal manifestarsi della malattia l'ammalato non sembrava né pallido né febbricitante (anche se aveva la febbre), il corpo era invece arrossato e livido, spesso coperto da vesciche e piccole ulcerazioni, differenti però da quelle del vaiolo (che era ben conosciuto dalla medicina di allora, e diffuso, come testimoniano alcuni busti di ritratti di ateniesi illustri di quella generazione e delle precedenti). Contemporaneamente si veniva sopraffatti da un senso di calore mai provato prima, accompagnato da una forte sete: le persone trovavano insopportabili i vestiti, anche di lino, e volevano gettarsi in acqua fredda. Dopo sette-nove giorni di malattia, in cui era difficilissimo dormire, sopraggiungeva il delirio, l'aprirsi di ulcere cutanee, un forte dolore al petto ed ai polmoni, e una fortissima diarrea che accelerava ulteriormente la disidratazione. Entro dieci giorni moltissimi ammalati morivano, i sopravvissuti sovente avevano delle deformità permanenti ai piedi, alle gambe e ai genitali, che iniziavano a gonfiarsi visibilmente a partire dall'ottavo-nono giorno di malattia, alcuni dei sopravvissuti rimanevano storpi o handicappati mentalmente e fisicamente.

 


Note Autrice:
Ed eccomi alla fine anche di questa mini-long. Era nata per essere una semplice shot, ma andando avanti mi sono accorta che, se avessi voluto davvero approfondire bene i legami fra i personaggi e la loro introspettività (che ovviamente è un po' diversa da quella originale a causa dell'ambientazione), mi sarei dovuta dilungare un po'. Per me è strano scrivere più di tre pagine di storia, per di più se si tratta di una fanfic, quindi posso dire che questa, per i miei canoni, è lunga ^_^
Sono felice del risultato, primo perché ho potuto finalmente scrivere di Free!, anime che ho sempre adorato (nonostante la demenzialità di base, è sempre riuscito a farmi passare dei divertenti e dolci venti minuti!), secondo perché ho potuto dare un po' di ossigeno alla RinHaru, pairing così snobbato ultimamente nel fandom, purtroppo: la MakoHaru dilaga TT___TT, terzo perché ho sperimentato la mia prima AU!, per di più storica, unendo così il mio infinito amore per questi personaggi e per la storia, in particolare quella greca. Inoltre, se vi è piaciuto questo esperimento, sappiate che il titolo originale di questa fic era "Mille anni", e ciò significa che scriverò - non so ancora quando, ma in queste vacanze natalizie è probabile che inizierò - altre tre shot/mini-long AU! ambientate in altrettanti periodi storici. Non vi anticipo con esattezza gli anni, ma il prossimo sarà sicuramente il Medioevo! Ne uscirà una serie piuttosto lunga, spero la seguirete ^_<
E niente, se siete arrivati fin qui, complimenti: le note autrice sono quasi più lunghe del capitolo xD e soprattuto cercate di non decapitarmi per la morte di Rinidoto: tutto ha un senso nella mia testa, anche questa violenza apparentemente ingiustificata nei vostri confronti U_U 
Ringrazio tantissimo chi ha letto questa fic, chi l'ha recensita e messa nei seguiti o anche solo apprezzata! Spero di non aver bistrattato troppo Rin e Haru e di non avervi annoiati con le descrizioni (solitamente ho uno stile molto scarno, ma volevo far apparire tutto più "epico") e in generale che la trama vi abbia entusiasmati.
Alla prossima allora!
Aturiel 


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