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Autore: Koira    22/12/2014    2 recensioni
"Nessuno aveva intenzione di rifiutare la proposta del proprietario, e, quando ci chiese cosa avevamo deciso, firmai quel contratto, convinto di fare la cosa più giusta che potessi fare.
O almeno così pensavo".
Genere: Horror, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 3

Dissociazione

«Le case non uccidono le persone. Le persone uccidono le persone».

Mi svegliai di colpo, impaurita.

Era solo un sogno.

Colpa del mio fantastico fratello minore, che la sera prima aveva insistito a portarmi al cinema a vedere Amityville Horror. Grazie a lui, quella notte non avevo fatto altro che sognare omicidi e pozze di sangue che avevano come scenario la nostra nuova casa. Come se non bastasse, dopo il cinema eravamo andati a cenare in pizzeria, dove avevo nuovamente incontrato quello strano ragazzo che mi spiava ormai da mesi e che, guarda caso, sarebbe stato presto il mio nuovo vicino. Un tipo molto singolare: alto, moro e con gli occhi azzurri. Un gran figo, penserete. E in effetti lo era, salvo quell’aura di eccentricità che si portava dietro. Stava sempre da solo, e devo ammettere che un po’ mi faceva pena. Eppure, non riuscivo a non esserne inquietata …

«Sorella, io sto per chiudermi a chiave in bagno».

Le parole di Davide mi catapultarono nella realtà. Caspita, se lui era sveglio doveva essere davvero tardi.

Guardai la sveglia sul comodino: le undici e trenta. Dovevamo sbrigarci: a breve sarebbero tornati mamma e papà a prendere la nostra roba.

«E’ tardissimo, spero che almeno abbia preparato la tua valigia!» gli dissi, agitata.

«Guarda che io è già da un po’ che sono in piedi, e grazie a te e ai tuoi stupidi incubi. Non hai fatto che strillare stanotte» esclamò Davide, irritato.

«Vorrà dire che la prossima volta sceglierò io cosa vedere al cinema!» controbattei io, prontamente.

Presi l’accappatoio e, approfittando della sua distrazione, mi intrufolai in bagno. Neanche il tempo di chiudere a chiave, che da dietro la porta risuonarono le sue urla contrariate.

«Non è possibile, sono ore che sono sveglio!».

«Ti saresti dovuto fare la doccia ore fa, allora» ribattei.

 

Circa trenta minuti dopo, liberai il bagno.

«E’ tutto per te, fratellino» dissi, ridacchiando.

Davide, senza nemmeno guardarmi in faccia, prese una tovaglia e si infilò sotto la doccia.

Mentre lui si sciacquava, mi misi a riempire un po’ di scatoloni, temendo le urla dei miei genitori.

Alle 12.30, mio padre suonò il campanello e caricò sull’auto tutti gli scatoloni e due valigie.

«Vi dispiace portare voi quello che resta? La nostra nuova vicina – una signora molto simpatica – è stata così gentile da offrirci il suo aiuto con il trasloco, e tra mezzora sarà qui a prendervi con la sua auto» disse mio padre.

«Simpatica significa bella nel tuo vocabolario?» chiesi io, maliziosamente.

«Bella come può esserlo una signora di ben ottantuno anni» rispose.

«Si chiama Dorotea, comunque … vive nella villetta accanto alla nostra con suo nipote, un ragazzo un tantino strano» aggiunse eloquentemente.

«Per te ogni ragazzo tranne Davide è strano» dissi.

Ero troppo orgogliosa per specificare che aveva ragione. Quel tipo era veramente strano. Se solo mio padre avesse saputo che era da un paio di mesi che mi gironzolava intorno, non solo avrebbe evitato di affittare quella casa, ma addirittura ci saremmo come minimo trasferiti su un altro pianeta.

Tipica iperprotezione meridionale.

I trenta minuti successivi furono allo stesso tempo i più brevi e i più lunghi della mia vita.

Passai tutto il tempo a contemplare la mia piccola casetta, che di lì a poco avrei abbandonato. Le mura della mia stanza scarabocchiate nei miei moti di follia, i calci di Davide negli angoli quando perdeva a basket. In un angolo, una foto di mio padre da giovane: era proprio un bel ragazzo. Occhi scuri, capelli castani. Non capivo perché quella fotografia fosse rimasta lì. Era davvero un peccato lasciarla. La presi e me la ficcai in borsa.

«Credo che sia arrivato il tuo fidanzato» disse Davide.

«Il mio che …?» ebbi appena il tempo di esclamare.

Suonarono alla porta e scesi ad aprire.

Davanti a me, la figura inconfondibile del mio (quasi) vicino di casa.

«Ciao» si limitò a dire.

«Ciao» risposi io.

«Chi sei?» aggiunsi, fingendo di non averlo notato nei mesi precedenti.

A quelle parole, ci rimase un po’ male. Sembrava quasi deluso.

«E’ vero, non ci conosciamo, che stupido! Mi chiamo Giacomo» rispose.

«Piacere, Giacomo. Io sono Melissa. Step due: chi sei?» chiesi io, insistentemente.

«Giusto. Sono il tuo nuovo vicino. Non so se tuo padre te l’ha detto … io e mia nonna siamo venuti a darvi un passaggio fino a casa» aggiunse.

«Ok, e tua nonna dove sarebbe?».

Era arrivato Davide. Seppur fisicamente fosse il contrario di mio padre, da lui aveva ereditato quella gelosia caratteristica del Sud Italia.

«Tu devi essere Davide, tuo padre mi ha parlato di te …» iniziò il ragazzo.

«Sì, piacere. Dov’è tua nonna?» ripeté mio fratello, contrariato.

Stava iniziando a perdere la pazienza.

«Eccola, è lì che ci aspetta» intervenni io, notando una figura che salutava in lontananza.

«Ok, Mely. Prendi la tua valigia e saliamo in auto» disse allora Davide.

Era evidente che Giacomo lo infastidiva. In effetti, quella sua aria eccentrica, da “fuoriposto”, proprio non lo aiutava.

Entrai in casa e presi il mio bagaglio. Diedi un’ultima occhiata alla vecchia cucina, così colma di ricordi, e una calda lacrima solcò il mio viso. Mi asciugai in fretta: non volevo che degli sconosciuti mi vedessero piangere. Non ero mai stata il tipo di persona che ama sfoggiare le proprie debolezze, o comunque i propri sentimenti; non mi piaceva che gli altri conoscessero di me certi aspetti così intimi.

«Ti mancherà, vero?».

Mi voltai di scatto, convinta di vedere Davide. Ma non era stato lui a parlare.

Di fronte a me c’era Giacomo.

Mi costrinsi ad assumere un tono di voce il più normale possibile.

«Ehm … sì, certo, mi mancherà. Ma trasferirsi è la cosa giusta. Sarà meglio per tutti».

«Guarda che con me puoi essere sincera» disse lui.

I nostri occhi si incrociarono, e per un istante ebbi l’impressione di perdermi nell’azzurro dei suoi. Sembrava diverso. Era così bello …

«Ma se non ci conosciamo neppure» affermai, cercando di ricompormi.

Tra noi due calò un silenzio imbarazzante. Giacomo continuava a guardarmi fisso negli occhi, e io, imbarazzata, distolsi lo sguardo e iniziai a fissare con insistenza una macchia sul pavimento. Prima o poi sarebbe entrato Davide, pensai.

«Te l’ha mai detto qualcuno che sei bellissima?» esclamò ad un tratto.

Non risposi. Mi limitai a fissare, con insistenza, la stessa macchia sul pavimento della cucina. Cosa era successo al ragazzo timido di pochi minuti prima, che a malapena era riuscito a dirmi come si chiamava? E dove diavolo era finito mio fratello?

«Che fai, non parli? Non ci credo che non te l’ha mai detto nessuno …» proseguì.

A poco a poco, si stava avvicinando sempre più a me. Finii col ritrovarmi con la schiena contro il muro della cucina, terrorizzata dallo strano comportamento di quel ragazzo che fino a cinque minuti prima sembrava tanto inoffensivo.

«Sta per entrare mio fratello, lasciami stare …» dissi, tentando di non far trasparire la mia paura.

Ormai eravamo attaccati l’uno all’altra. Sentivo il suo torace espandersi sul mio a intervalli regolari, e il suo cuore battere, energico. Iniziai a pensare che fosse un incubo. Avvicinò le sue labbra alle mie, pronto a baciarmi, e a quel punto gli assestai un calcio allo stomaco. Strillò e si contorse per il dolore, e io ne approfittai per scappare. Ma fu più veloce di me: mi prese per un braccio e mi scansò contro il muro. Urtai con la testa e, per un momento, mi sembrò di morire, talmente forte fu il colpo. Mi portai d’istinto le mani alla fronte, e notai che stavo sanguinando. Tentai di rialzarmi e mi misi a strillare il nome di mio fratello, sperando che mi sentisse. Nel frattempo, Giacomo si stava avvicinando, furioso. Mi guardai rapidamente intorno in cerca di qualcosa da poter usare come arma, ma non c’era nulla in quella stanza che potesse essermi utile. Chiusi gli occhi, pronta a tutto, quando sentii urlare il nome di Giacomo dall’altra parte della cucina: era sua nonna. Il ragazzo si voltò a guardarla e sembrò per un attimo tornare in sé, ma fu solo un’impressione fugace. Distolse lo sguardo dalla donna e tornò a dirigersi verso di me, pronto a sfogare la sua rabbia. Mi aveva quasi raggiunta quando arrivò Davide e gli frantumò in testa un vaso di fiori, facendolo cadere a terra, privo di sensi.

«Ma che cavolo gli è preso?!» esclamò.

«Tu stai bene?» aggiunse, rivolto a me.

Mi aiutò ad alzarmi e mi porse un pacchetto di fazzolettini per pulirmi il sangue che mi sporcava il volto.

«Io … sì, credo di sì …».

Non riuscii a dire altro: ero ancora troppo sconvolta dalla situazione così surreale.

«Che ti ha fatto al viso?» chiese mio fratello. «Hai una brutta ferita sulla fronte, ma non credo ci vogliano punti» aggiunse.

«Dove hai trovato quel vaso?» chiesi.

Ma cosa me ne importava?

«Nell’ingresso … ma adesso che centra?» rispose Davide.

La nonna di Giacomo si limitava a guardarci, inorridita, dall’altro lato della stanza.

«Lei non dice niente?» esclamò ad un tratto mio fratello.

«Io … sì, ragazzi … la questione è un po’ delicata …» cominciò. «Il fatto è che Giacomo è malato».

«L’abbiamo notato, in effetti» dissi.

«No, non potete capire … lui … ha un disturbo dissociativo d’identità» concluse.

«… Un che?» proruppe Davide.

«Mettetevi comodi. La storia è un po’ lunga …» proseguì, prendendo due sedie.

   
 
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