CAPITOLO SEI
La prima
giornata con
la ragazza sirena fu abbastanza deludente. Io ero davvero contento. Me
ne stavo
andando, scappavo dalle difficoltà verso qualcosa di
più facile, lasciando
indietro la mia famiglia, la mia vita. Ma questi pensieri da senso di
colpa non
mi passavano per la mente quel pomeriggio di inizio estate,
fantasticavo sulle
peripezie che avrei vissuto, come quelle descritte nei libri di mio
fratello.
Cinque per l’esattezza. Due di Salgari e tre di Verne. Erano
gli unici libri
che avevo mai letto e li sapevo quasi a memoria. Pensavo di andare
verso una di
quelle magnifiche avventure mentre camminavo sul marciapiede sconnesso
con
passo saltellante, ma ben presto mi accorsi che non sarebbe stato
così. Come
non esistevano gli eroi non esistevano neanche le loro gesta.
Dopo la prima
soddisfazione il sorriso di Zabluda era scemato e camminava in posa
terribilmente seria, a testa alta e in silenzio.
“Posso
chiederti dove
stiamo andando adesso?”
“Puoi
chiedermelo.”
Aspettai un
istante
ma era evidente che dovevo proprio chiederglielo per esplicito.
Chissà se lo
faceva apposta o semplicemente non capiva le sottigliezze della mia
lingua.
“Dove
stiamo
andando?”
“Di
là.”
“Grazie!
Ma abbiamo
una meta?”
Mi
guardò un po’
storto.
“Ti
ho già detto che
qui non c’è magia, dobbiamo trovare un posto dove
ce ne sia, e per farlo
bisogna uscire da questa città. Andando sempre dritti prima
o poi dovremmo
farcela.”
Mi dava sui
nervi se
faceva così. E non era un buon inizio. Così
provai a cambiare argomento. Aveva
detto che poteva procurare da mangiare per tutti e due, le chiesi come.
“Hai
fame?”
Ovvio avevo
sempre
fame, ma non mi pareva una cosa da dire.
“Un
po’”
“Ok,
ora ti mostro.
Vedi quella panetteria? Slijedi me, seguimi.”
E
così feci.
Cominciavo a sospettare che il suo metodo non fosse proprio ortodosso.
Non
volevo rubare ancora. Ma la seguivo. Nella mia stupidità
pensavo che volesse
semplicemente comprare. Si chiama non voler vedere ciò che
sta sotto i nostri
occhi.
Entrammo nella
panetteria, lasciando Wyvern fuori, lei piccola sicura e coperta di
stracci
davanti, io alto e a disagio dietro. Tentavo di farmi piccino piccino.
Dietro
il bancone c’era un uomo sulla cinquantina con dei grandi
baffi che ci
squadrava dall’alto della sapienza del suo mestiere
millenario.
“Chevvolete?
Ahò, ma
te sei vista come sei conciata? Me spaventi la…”
La voce gli si
abbassò e io alzai lo sguardo per vedere cosa stava
succedendo. Vidi che era
come attonito a fissare Zabluda, ma non capì cosa stesse
accadendo fino a quando
lei non mi sussurrò: “Prendi un bel po’
di pagnotte e mettile in un sacchetto,
non so per quanto riesco a tenerlo così!”
“Ma
cosa…”
“Adelante!”
Ubbidii, mi
resi
conto che stava facendo vedere al panettiere il suo mondo, come aveva
fatto con
me. Mi sentii in qualche modo tradito, su tutti i fronti, ma presi in
fretta il
pane finché non mi sentì tirare la manica.
Zabluda stava sfoggiando il suo
miglior sorriso e si dirigeva verso la porta, tirandomi con lei.
“Grazie
a lei e
arrivederci!”
Quando ci
trovammo
fuori continuò a tirarmi per farmi andare più in
fretta. Wyvern ci seguiva, i
muscoli tesi, come se stesse aspettando qualcosa.
“Ora
se ne accorge,
ora se ne accorge…”
Un
gridò provenne da
dietro le nostre spalle.
“Se
n’è accorto,
corri!”
E io corsi,
corsi più
forte che potevo, e presto la superai. Accelerai tra una via e
l’altra,
scartando i pochi passanti, mentre sentivo le voci dietro di me farsi
sempre
più lontane, fino a che non sparirono del tutto. Alla fine
mi fermai in un
vicolo che non conoscevo, ansimante. Mi veniva da ridere e non sapevo
perché,
ero felice, avevo voglia di urlare. Come ci si sente dopo una bella
corsa
insomma, non tanto lunga da sfiancarti ma abbastanza da darti un
po’ di brio,
ero gasato. Nonostante ciò comunque mi preoccupavo per
Zabluda, avevo paura di
averla persa. Ma dopo poco risbucò ansante, col mastino al
seguito e sputò
“Nuotare è molto più comodo! Qui avete
una gamba di troppo!”
A me venne in mente qualche battutaccia degna di mio fratello del tipo “Io ne ho due di troppo.” E così mi misi a ridere come uno scemo, mentre lei non capiva la mia follia e mi guardava incuriosita, sbocconcellando un pezzo di pane. Decidemmo di continuare a camminare poiché era più prudente allontanarsi ancora un po’. Per farvela breve camminammo fino a sera e parlammo delle nostre vite precedenti. Al tramonto intorno a noi cominciarono ad esserci degli spazi aperti, con qualche albero rachitico; le case si facevano più rade e non incontravamo quasi nessuno, così decidemmo di aver camminato a sufficienza e cominciammo a cercare un posto per la notte.
Eravamo distrutti per esser stati tutto il giorno sotto il sole, soprattutto lei che aveva delle inquietanti occhiaie che si allargavano sempre più. Beveva in continuazione e si bagnava il viso, maledicendo la secchezza della terra. Il sole era già sotto la linea dell’orizzonte quando trovammo ciò che faceva al caso nostro: era un vecchio rudere per metà invaso dai rovi e per metà coperto da un tetto pericolante. Pregammo che non decidesse che quella era la notte buona per staccarsi e ammassammo in un angolo delle erbacce secche, a mo di giaciglio.
Stava cominciando a fare freddo senza sole e non capivo come avesse fatto senza la mia coperta ma lei sosteneva che il suo cane bastava e avanzava. Oltretutto nel suo mondo non le conoscevano. Vivendo loro in fondo al mare e non in superficie la temperatura dell’acqua era costante, così erano entrati in simbiosi con alcune alghe che li proteggevano sempre, crescendo sulle loro squame.
Da come lei
descriveva le sirene non
dovevano essere proprio delle bellezze, intese nel senso umano del
termine.
Erano squamose, grassocce e avevano delle membrane tra le braccia e il
corpo.
Io pensavo di aver visto ragazze bellissime ma sembrava che il suo
sguardo non
trasmettesse immagini reali, ma idee. I suoi occhi mi avevano detto
“sirene” e
io le avevo immaginate come volevo. O questa era per lo meno la
conclusione a
cui eravamo giunti. Il che significava che anche se vi fossero stati
stendardi
sulla nave avrebbero potuto essere frutto della mia immaginazione e
così via.
Insomma per vedere quello che succedeva davvero, con tutti i suoi
dettagli,
bisognava conoscere Moore almeno un minimo. Era una sorta di sigillo di
sicurezza. Il che significava che sapendo l’aspetto delle
sirene non avrei mai
più potuto vedere in lei delle ragazze nude e prosperose,
nonché molto
disponibili.
Feci un minuto
di
silenzio, come un lutto per le mie bellezze perdute, poi mi tolsi le
scarpe e
mi distesi nella paglia, tirandomi addosso la coperta. Zabluda si
accoccolò
abbracciata alla sua macchina da guerra poco distante. Potevo sentire
il suo
respiro sottile comparato a quello pesante di Wyvern.
“ Ti
manca tanto
Moore eh?”
“
Si… qui è troppo…
secco. Non so come farò quando troverò il Capo,
vorrà dire che dovrò restare
qui per sempre, non rivedrò più casa
mia…”
Non emise suoni
tangibili, ma avevo la brutta sensazione che stesse piangendo. Allungai
una
mano verso di lei alla cieca, dato il buio che ormai ci circondava.
Sussultò ma
non disse niente. Avevo la mano su un tessuto che assomigliava a lana
molto
grossa. Sorrisi, non l’avevo mai visto quel lembo. Cominciai
ad accarezzarla
piano, come fosse un gatto, istintivamente.
“Che
fai?”
Ritirai subito
la
mano.
“Non
lo so, ti
consolavo… ‘notte”
E mi girai
dall’altra
parte, come per chiudere lì quello spiacevole inconveniente.
Che cosa
imbranata. Mi si chiudevano gli occhi.
“Liron?
Thank you di
avermi accompagnata. Non avevo bisogno di una guida.”
Mi sorpresi
lievemente, ma non ci pensai perché ero a pezzi e mi
addormentai subito.
Beh? Chi dice
qualcosina
alla povera nafasa che brama commenti? =D
Per la mia fida
recensionista
anil13:
le mie storie
sono
sempre un po’ scure e malinconiche, mi affascina di
più immaginare le cose cupe
che non quelle allegre. Liron non è depresso. È
il suo stato d’animo medio. Semplicemente
tra le facce da indossare la mattina sceglie quella meno faticosa. Si
crogiola
nella sua apatia e ci gode.
Comunque io non
lo so
bene il croato, mia madre lo sa, io prendo solo qualche parola dal
dizionario
sulla mensola del salotto. ^_^’