Anime & Manga > Detective Conan
Segui la storia  |       
Autore: Flami Destrangis    23/12/2014    5 recensioni
Durante la presentazione dell'ultimo libro di Yusaku Kudo a Tokyo, a seguito di un errore Conan torna a rivestire i panni di Shinichi, risolvendo il macabro caso di omicidio in cui si trovano implicati. Nonostante cerchi come al solito di nascondere la sua comparsa, il giorno successivo sul giornale compare una foto della serata in cui sono ritratti lui e Ran. La nuova apparizione del detective liceale più famoso del Giappone sembra destare molto interesse: ma, allo stesso tempo, smuoverà le acque di una storia che non tutti vogliono riportare a galla.
“Mi piacerebbe correre fuori, lavarmi tutto di dosso. Lasciare scorrere sulla pelle ogni problema, ogni preoccupazione, ogni maschera e ruolo ed essere soltanto l'uomo che c'è oltre questo paio di occhiali e quella cravatta che mi piace tanto portare. Che cosa resterebbe secondo te?”
Il padre sembrò lanciargli uno sguardo disperato, come a chiedere aiuto. Come se avesse davvero paura che potesse non rimanere più nulla oltre tutto quello che ogni giorno lo ricopriva. Conan sorrise appena e gli porse la copia di "In bianco e nero" che teneva in mano.
“Ma che domande sono, papà. Lo sai anche tu: resterebbero i tuoi libri"
Genere: Drammatico, Generale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Gin, Ran Mori, Shinichi Kudo/Conan Edogawa, Un po' tutti | Coppie: Ran Mori/Shinichi Kudo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

In bianco e nero

 

 

 

“We are who we are

On our darkest day

When we're miles away

So we'll come

We will find our way home”

(Fun. , “Carry on”)

 

 

 

10. Cerchi sulla pelle

 

 

 

Tra i due uomini non volò una sola parola finché non furono in ascensore. Gin, palesemente seccato dalla piega che stava prendendo la situazione, camminava spedito, imponendo ai suoi passi pesanti di risuonare da soli nel silenzio del corridoio, coprendo addirittura quelli di un Vodka che, poco dietro, lo seguiva indeciso sul da farsi. Quando infine la porta scorrevole dell'ascensore si aprì, Vodka ruppe la tensione.

“Che piano?” chiese, facendo scorrere l'indice sui pulsanti.

“Settimo.” rispose l'altro, cercando di mascherare con un tono calmo la sua evidente impazienza.

Vodka premette il tasto su cui risplendeva opaco il numero richiesto. Il settimo piano era l'ultimo, quello in cui erano localizzati dei piccoli appartamenti riservati ai membri più importanti operanti nella zona. Vodka, proprio per il fatto di dover spesso rimanere a contatto con sorvegliati speciali tenuti nelle celle del seminterrato, era riuscito ad ottenerne uno in fondo al corridoio, dall'altra parte rispetto al vano dell'ascensore. Non era grande, appena una stanza e un bagno, come una sistemazione d'albergo, ma era accogliente quanto bastava e lontano da occhi indiscreti. Prima avrebbe volentieri schiacciato un pisolino nel suo letto se non avesse dimenticato le chiavi dell'appartamento nel cruscotto della macchina: troppo stanco per tornare fino al garage, si era accomodato in una poltroncina degli studi del primo piano. Su cui, si accorse solo allora, doveva aver lasciato la sua cravatta.

Vodka non aveva mai visto l'appartamento riservato a Gin. Sospettava che fosse più grande del suo, ma non poteva esserne davvero sicuro. Il suo capo aveva tenuto quelle stanze sempre e solo per sé. Di tanto in tanto, quando aveva voglia di rimanere lontano da tutti, vi si rifugiava per uscirne solo quando era sicuro di essersi disintossicato dal mondo abbastanza da poterne assumere una nuova dose. Quando avevano bisogno di scambiare due parole con calma, di solito usavano l'appartamentino di Vodka. L'uomo sperò che Gin volesse semplicemente sparire nella sua camera, senza dire altro: se gli avesse chiesto di discutere riguardo al caso Kudo, avrebbe voluto usare la camera di Vodka e sarebbe stato costretto a dirgli che le chiavi erano otto piani più in basso, nel parcheggio sotterraneo. Per Gin quello sarebbe stato un imprevisto piccolo che, sommato a quelli che già dovevano essersi verificati, avrebbe potuto far esplodere il suo malumore.

“Andiamo nella tua stanza, lì potremo parlare in tranquillità.” sentì dire Vodka, quando l'ascensore si fermò. Bingo. L'uomo con gli occhiali si schiarì la voce tossicchiando e, come sicurò di sé, sprofondò le mani nelle tasche della giacca alla ricerca delle chiavi. Tastò e controllò, fingendo di esser sicuro di trovarle.

“Accidenti, Gin, devo averle lasciate in macchina” disse alla fine, come se la cosa lo stupisse e lo irritasse allo stesso tempo. Guardava con la coda dell'occhio il suo capo, per verificarne la reazione. Quello restò sorprendentemente tranquillo, immerso nei suoi pensieri. Disse con noncuranza: “Allora faremo da me.”

Estrasse un mazzo di chiavi dalla tasca della giacca e scelse quella giusta, una lunga e sottile, solo tastandola con i polpastrelli. La separò dalle altre e la tenne in mano, dirigendosi verso la seconda porta sulla destra del corridoio. Vodka stava sempre dietro di lui, fiatando appena.

Non appena entrarono, l’omone provò una leggera soddisfazione nel constatare che la stanza, seppur più spaziosa, non fosse tanto diversa dalla sua. Vi era semplicemente la camera da letto, un bagno, e sulla sinistra un'altra porta, chiusa, che probabilmente doveva dare su un piccolo studio. Gin si sedette sulla sedia davanti alla scrivania, rimettendo a posto qualche foglio in disordine e storcendo appena il naso alla vista del posacenere pieno di mozziconi. Non si ricordava mai di svuotarlo. Vodka, una volta certo che il capo avesse scelto la sedia, si accomodò sulla ben più comoda poltroncina accanto alla finestra. Quest'ultima era stata lasciata socchiusa, e nella camera la temperatura era più che gradevole. L'uomo con gli occhiali tossicchiò per richiamare l'attenzione. Gin smise di sistemare i fogli e si girò a guardarlo. Si era lasciato andare sullo schienale della sedia, come a stiracchiarsi.

“Vuoi chiedermi che cosa mi ha detto quell'imbecille?”

A Vodka non servì annuire. Era chiaro che fosse più che interessato a conoscere i dettagli dell'interrogatorio.

“Un bel niente.” ringhiò Gin. Si vedeva nettamente come la cosa non gli facesse granché piacere. Vodka si chiese che cosa davvero il suo capo sperasse di ottenere. Quel ragazzo non sembrava essere a conoscenza di nulla, o comunque non vedeva come avrebbe potuto portarli da Shinichi Kudo. Certo, ne aveva conosciuto il padre e forse poteva averne sentito parlare, ma qualcosa nell'espressione spaesata di Newman gli aveva suggerito che su Shinichi non ne sapesse poi più di tanto. E di sicuro anche il capo doveva aver avuto quell'impressione, altrimenti non sarebbe stato tanto nervoso.

“Se domani non ci dirà niente di nuovo, dovremo cercare un'altra strada.”

“Cos'ha detto?” chiese Vodka. Voleva conoscere qualche particolare in più su quell'interrogatorio. Gin morse appena il labbro e accese un'altra sigaretta.

“Te l'ho detto, nulla.”

“Ad un certo punto ha parlato.”

“Sostiene di non aver mai visto Shinichi Kudo. E non ha detto niente riguardo al padre. L'ho informato del fatto che se domani non avrà niente da dirci, non subirà un trattamento esattamente simpatico.”

Vodka si prese qualche attimo prima di rispondere. La situazione stava peggiorando. Era chiaro come il sole che quell'attore non li avrebbe portati da nessuna parte, almeno non in quel modo. Ed era altrettanto chiaro che il capo si ostinava su di lui solo perché non sapeva che pesci prendere in quel momento: il fatto di essere stato probabilmente anticipato da Shinichi Kudo doveva corrodergli l'anima e non poco.

“Capo”

“Che c'è?” chiese quello annoiato.

“Credi davvero che se ne caverà fuori qualcosa da questo buco?”

“Parli di Newman?”

Vodka annuì. Gin guardò oltre la finestra e, con finta noncuranza, disse solo: “Non lo so.”

La bugia era lampante agli occhi del suo compagno, ma finse di non accorgersene. Entrambi sapevano di aver intrapreso un vicolo cieco.

“Vodka”

“Sì?”

“Fai un giro ad Haido o Beika domani. Non si sa mai che possa succedere qualcosa di nuovo. Dell'attore mi occupo io. Mi raccomando, silenzio assoluto. Prendi ordini solo da me.”

Pronunciò l'ultima frase con una voce tanto glaciale e perentoria che Vodka ebbe l'impressione che, se non avesse seguito per filo e per segno le sue istruzioni, non sarebbe arrivato all'inizio del mese successivo.

“Certo, Gin. Sempre e comunque.”

Si mise scherzosamente sull'attenti, imitando il gesto con la mano e irrigidendosi sulla poltrona. Voleva spezzare la tensione, ma tutto quello che guadagnò fu un'occhiata sarcastica.

“Puoi andare. Tienimi informato su qualsiasi cosa.”

Senza dire altro Vodka uscì, salutando con un gesto il suo compagno. In quel momento Gin aveva bisogno di restare solo con i suoi pensieri, senza inutili parole nell'aria. Spense la sigaretta, che andò ad aggiungersi alle innumerevoli ammassate sul posacenere.

Doveva esserci una via, doveva esserci per forza. Ripensò a quanto era accaduto, a quanto aveva visto e sentito tra le vie di Beika. Il cartello che annunciava la chiusura dell'agenzia, la sensazione di essere seguito, l'uomo incappucciato che aveva intravisto sbirciando con la coda dell'occhio. Che lo stesse seguendo? Chi poteva essere? Forse lo stesso Shinichi Kudo? Comunque fosse, lui non aveva paura. Di niente e di nessuno. E poi c'era stato quell'attimo flebile ma indelebile in cui aveva sentito il profumo di lei. Sherry. Su quello non aveva alcun dubbio, lo avrebbe riconosciuto anche in mezzo a milioni di persone. Dov'era? Forse lì, a pochi passi da lui? No, Sherry lo temeva. Lo sapeva, l'aveva letto infinite volte nei suoi occhi. Non era lei la figura incappucciata che aveva visto. Non poteva averne la prova, ma ne era certo di una certezza incorruttibile. Ma allora dov'era? Dove si nascondeva, qual era il suo rifugio tra quella massa informe di persone insignificanti? Sherry era sempre stata qualcosa di più per lui. Un qualcosa che lo divertiva, che gli eccitava la mente e il corpo, che gli inebriava i polmoni e annebbiava la limpida lucidità calcolatrice del suo cervello. Non avrebbe saputo definire l'attrazione che aveva da sempre provato per lei, la soddisfazione di poterla tenere in pugno, tra le sue mani, e quel pensiero fisso che si impadroniva di lui ogni volta che la fissava; la voglia di averla con sé, sotto di sé, sapere di poterla spezzare solo stringendola più forte, il suo sguardo spaventato, un gemito strozzato e il sudore freddo e caldo che scorre lungo la pelle fino a fondersi con gli occhi umidi di paura.

Gin si alzò, camminando a passi lenti fino alla finestra socchiusa. Il vetro chiaro rispecchiava la smorfia che si era dipinta sul volto di lui, e la leggera ruga disegnata al lato degli occhi e che li rendeva più sottili e taglienti del solito. Alle volte bastava solo un pensiero, un attimo, una scarica di adrenalina e via, tutto tornava al suo posto, il malumore si riassorbiva in se stesso e la convinzione di farcela, o per lo meno di potercela fare, tornava a regnare sovrana.

Spalancò la finestra e osservò il cielo che si imbruniva. Lontano, una ciminiera sputava fuori a sbuffi continui un denso fumo nero. Respirò a pieni polmoni l'aria inquinata che lo circondava. Cosa importava? Ormai non c'era più nulla che potesse redimere la sua anima macchiata. Ma forse meglio così: la paura di essere colpevoli era cosa da stolti. Sentire il male e il peccato scorrere dentro di sé e provarne indicibile piacere, quello era l'animo del vincitore.

 

 

 

 

 

“Sei sicura che si trattasse proprio di lui?”

Dopo aver sentito il racconto di Ai, Conan aveva in un primo momento sgranato gli occhi, per poi lasciarsi andare sulla prima sedia che gli era capitata vicino. Si era seduto, aveva appena socchiuso le palpebre e massaggiato leggermente il mento, come alla ricerca di una barba che la sua vera età avrebbe cominciato a regalargli. E, infine, aveva posto quella domanda.

Ai se ne stava seduta sul divano, non molto distante, e dondolava le gambe, facendo oscillare i suoi piedini che non riuscivano a toccare terra. Fissava le ciabatte lasciate sul pavimento e solo di tanto in tanto sollevava lo sguardo, come per scrutare di sottecchi l'espressione del suo amico. Reputò quella domanda indicibilmente inutile. Shinichi sapeva perfettamente che certe cose, o meglio certe persone, lei non le avrebbe mai confuse con niente e nessun altro.

“Certo che sì. Era lì, e l'ho visto esattamente come ora vedo te. Era a pochi passi dall'agenzia investigativa del padre di Ran.”

Conan non sembrò stupito da quella conferma. Ma stava lì, immobile, ora torturandosi le ciocche dei capelli. Non aveva pensato che sarebbero stati così veloci: non poteva essere una coincidenza la presenza di Gin a Beika, nei pressi della casa di Ran. Che cosa voleva? Perché mostrarsi, perché andare direttamente in prima linea? Poi, come se si fosse improvvisamente ricordato di un punto cardine della questione, si girò improvvisamente verso Ai, lanciandole uno sguardo apprensivo e ansioso.

“Ti ha vista?”

Ai alzò appena lo sguardo, e lo fissò per un attimo, come a decidere quale fosse la risposta giusta da dare. Aveva omesso, nel racconto, la fondamentale parte di aver praticamente travolto l'uomo da cui avrebbe dovuto tenersi a miglia di distanza. Ma in fondo che cos'era un'omissione? Nemmeno una bugia. E anche se lo fosse stata, avrebbe potuto essere catalogata tra le non ben definite e amorfe bugie a fin di bene. Sapeva che Shinichi, da bravo detective, non la pensava allo stesso modo, e per questo si sforzò di essere il più possibile convincente.

“No, non credo. Ero distante. Volevo seguirlo, ma l'ho perso di vista.” disse, nel tono più calmo che riuscì a racimolare.

Conan stette un attimo in silenzio, fissandola non molto convinto. Aveva capito che c'era qualcosa che non quadrava nell'animo della sua amica. Ma infine, perché mentirgli? Perché non dirgli la verità? Shinichi era lì soltanto per aiutarla. Se era finito in quel travolgente problema era solo per lei. Se Ran ora si trovava chissà dove, lontano chilometri da lui, persa in un futuro dai contorni incerti, era colpa sua. E forse era proprio per quello che, alla fine, c'era cascata di nuovo. Aveva forse inconsapevolmente ricominciato a fare di testa sua, quel maledetto viziaccio che nemmeno l'essersi rimpicciolita le aveva fatto perdere. Nella sua mente aveva già cominciato a formarsi l'idea di quello che avrebbe potuto fare, di quello che avrebbe fatto, di quella sorta di arrembaggio ai limiti del masochismo che le si era profilato nella testa. L'idea stava prendendo forma e non c'era più modo alcuno di arrestarla, perché si era già impadronita della sua volontà. Non vedeva altro rimedio, non vedeva altra soluzione. Voleva solo mettere il punto finale a quella storia ed era sempre così, voleva sempre fare tutto da sola. Era l'unico modo che conosceva per proteggere gli altri, l'unico modo che aveva imparato da sé in quegli anni passati tra un laboratorio e l'altro, tra cuori di pietra e burette di vetro.

“Non ero lucida, Shinichi. Lo sai come sono fatta.”

Pensava di aver risolto tutto con quelle parole, ma il bambino davanti a lei non sembrava convinto. Continuava a guardarla come se stesse capendo, come se stesse comprendendo fin troppe cose. Alla fine disse solo, in un sussurro appena percettibile: “Non lo so. Alle volte non lo so.”

Ai sgambettò giù dal divano.

“Cosa intendi dire?”

“Ai, lo sai che voglio solo aiutarti.”

“Certo che lo so.”

“E allora promettimelo.”

“Cosa?”

“Che non farai di testa tua. L'avevamo detto, te lo ricordi? Insieme. Come quando siamo scappati correndo dalla scuola, quando abbiamo deciso di imbarcarci in tutta questa faccenda.”

“Non so davvero quanto l'abbiamo deciso.”

“Ai.”

“In fondo, che cosa decidiamo sul serio da noi?”

“Ai, sei una scienziata. Non provare a fare la filosofa.”

“Le due cose sono più vicine di quanto sembrino all'occhio di un profano.”

“Mi stai definendo un profano in fatto di scienza o filosofia?”
Ai sorrise. Shinichi aveva l'incredibile capacità di farla rilassare.

“Mah, in fondo sai un po' di tutto, e questo non vuol dire forse non sapere nulla?”

L'aveva colpito nell'orgoglio, e credeva che Shinichi avrebbe reagito in maniera stizzita, protestando contro quell'attacco privo di ogni argomentazione fondata. Ma lui era rimasto con i piedi ancorati alla realtà, e non abboccò al tentativo forse involontario di sviare il discorso da parte della bambina.

“Ai, me lo devi promettere. Non fare niente di testa tua. Non ce la faresti, così come non ce la farei io.”

La bambina rimase turbata. Davanti a lei, gli occhi come due pozze di acqua chiara, Shinichi si era appena messo in discussione. Sapeva bene quanto quello doveva essergli costato, quanto quel ragazzo così sicuro di sé, così sbruffone e certo del suo successo in ogni caso che la vita gli presentava potesse far fatica ad ammettere una debolezza. Un'insicurezza su quello che le sue indubbiamente strabilianti facoltà mentali gli avrebbero permesso di raggiungere. Come poteva mentirgli se la guardava in quel modo, se le parlava così? Come poteva dire l'ennesima bugia al migliore amico che avesse mai avuto in vita sua? Degli amici ci si deve fidare, e nient'altro. Rimase in silenzio.

“Ai, promettimelo!” incalzò di nuovo lui, non perdendo il contatto visivo con gli occhi di lei nemmeno per un istante. Si era instaurata una strana tensione, come un sottile filo che legava i lori sguardi e sembrava potesse essere tagliato solo dalla risposta della ragazzina.

“Io..” iniziò lei, articolando il suono con voce secca.

Ma c'era qualcosa più forte di ogni impressione psicologica, ed era la realtà. Essa si presentò come la porta dell'appartamento che si aprì, poi sbatté con noncuranza richiudendosi; un rumore di scarpe lasciate indietro alla rinfusa, e poi dei passi felpati nell'appartamento; infine un uomo distrutto che fece capolino nella stanza.

La tensione si ruppe in quell'istante, crollando in mille pezzi e salvando la loro amicizia dalla bugia che l'avrebbe compromessa. Yusaku Kudo sembrava portare addosso il fardello di una giornata troppo pesante, e nemmeno il trucco che Yukiko aveva perfettamente ricreato bastava a nascondere le occhiaie scure e le pupille tremanti, come sul punto di lasciarsi andare del tutto. Si strappò di dosso la barba che lo infastidiva e sotto la quale cominciava a crescere la sua, e poi lanciò un'occhiata distratta e assente alla stanza. I due bambini lo fissavano sconvolti.

“Papà, cosa è successo?”

“Dov'è Yukiko?” chiese quello, di rimando. “Avrei bisogno di lei.”

Yukiko era l'unica in quel momento che avrebbe potuto aiutarlo. L'unica che era in grado davvero di prenderlo per mano, di risollevarlo dalle sue crisi per la mancata ispirazione, dai suoi momenti di buio assoluto, da tutte quelle volte in cui era sul punto di dire semplicemente basta. Yukiko era la sua seconda madre, la sua unica sorella, l'unica donna che avrebbe davvero potuto immaginare al suo fianco: era semplicemente quello che la mentalità comune definiva l'amore della propria vita, anche se di comune il loro amore non aveva davvero nulla.

Sentì qualcosa aggrapparsi alla sua gamba, e abbassando lo sguardo vide Shinichi che gli chiedeva con occhi preoccupati che cosa mai fosse accaduto. Si inginocchiò e poggiò le mani sulle spalle del figlio, come a fargli sentire il peso di quanto portava dentro, quel qualcosa che nemmeno lui sapeva definire davvero.

“Yukiko non è ancora tornata?”

“Papà, ma..”

Shinichi lo guardava allibito. Aveva appena chiesto tutt'altro al padre, ma era come se lui non lo sentisse. Che cos'era successo? Cosa aveva provocato quegli occhi spenti e quello che a tutti gli effetti appariva come un cuore indolenzito?

“Per favore, dille di venire in camera quando torna. Ho bisogno di parlarle.”

Detto questo si alzò, e si diresse a passi lenti verso la porta della sua nuova stanza. Ai lo seguiva con lo sguardo, muovendo appena il capo.

“Papà, che cosa è successo?”

Yusaku fermò le dita sulla maniglia, e aggiunse, senza voltarsi per guardarlo: “Scusami, Shinichi. Ho voglia di stare un po' da solo.”

Il figlio non rispose, si limitò a sforzarsi di capire. Sapeva di non avere altra scelta. Ma proprio quando credeva che non ci fosse altro da dire, Yusaku girò appena il capo, e gli disse con voce leggera e roca: “Sai, alle volte ti invidio. Per quanto mi sforzi, ci sarà sempre una parte di me che non funzionerà seguendo quello che le dice il cervello.”

Non aggiunse altro e richiuse la porta dietro di sé. Shinichi era rimasto imbambolato. Ma che cosa stava succedendo, che cosa era preso a tutti? E perché lui doveva essere additato come quello i cui sentimenti non avevano mai la meglio? Solo perché non si lasciava andare, questo non significava automaticamente che non avesse un cuore che gli martellava nel petto.

“Shinichi io..”

Ai era rimasta lì, in piedi, e lo fissava con un'espressione in parte dispiaciuta, in parte compassionevole e in parte semplicemente abbattuta. Era una strana espressione sul volto di Ai, ma in quel momento Shinichi non se ne accorse.

“Non dirmelo” sbottò, “Non dirmi che sai che anche io soffro. Non dirmelo.”

Preso dalla stizza, scalciò la gamba del tavolo, facendolo tremare. La sua forza di bambino non era sufficiente nemmeno a far muovere un dannato pezzo di legno ed era una sensazione di orribile impotenza quella che alle volte si impossessava di lui, e che non lasciava mai trapelare. Che cosa ci faceva lui lì, lontano più di quanto avrebbe mai voluto dalla ragazza che avrebbe dovuto proteggere? Perché proteggere un persona doveva significare starle lontano, perché doveva significare non poterle parlare, non poterla salutare, non poterla sfiorare, non potere nemmeno consolarsi nel suono della sua voce dall'altro capo di un telefono?

“Dannazione” disse alla fine, prima di rintanarsi su quella sedia nell'angolo, con i suoi pensieri e il tramonto che si stagliava all'orizzonte oltre i vetri graffiati della finestra che dava sul mondo.

 

 

 

 

Quando Yukiko bussò dolcemente alla porta non ottenne risposta. Abbassò appena la maniglia e, constatando che la serratura non era bloccata, spinse piano, sbirciando nella camera buia. La donna si era attardata in un bar di Haido, sorseggiando in solitudine un drink e guardando al di là delle ampie vetrate tra le vie e le macchine incolonnate nel traffico della città. Non era passato nessuno che le ricordasse nemmeno vagamente uno degli uomini dell'Organizzazione, e aveva finito per perdersi tra i suoi pensieri mentre il vin brûlé scendeva caldo a regalare tepore al suo spirito.

“Yusaku?” lo chiamò, in un bisbiglio. Su Tokyo era ormai scesa la sera, e nella stanza regnava la penombra più assoluta. Solo il leggero riflesso biancastro della luna nascente filtrava appena dalle tende leggermente scostate.

Sentì un mormorio di risposta, di cui però non afferrò le parole. Non appena i suoi occhi si furono abituati al buio, iniziò a distinguere la sagoma del marito, sdraiato supino sul grande letto matrimoniale, il volto teso nella contemplazione dei propri sentimenti oltre il nero del soffitto. Le labbra della donna si incresparono in un melanconico sorriso, mentre sentiva una morsa stringerle il cuore. Sapeva bene che Yusaku si stava logorando nel ricordo di qualcuno che non sarebbe più tornato, sgretolandosi in un'incertezza che non faceva altro che martoriarlo da dentro. Si sdraiò accanto a lui, accovacciandosi e appoggiando alla spalla dell'uomo i suoi capelli soffici. Intrecciò le dita alle sue, e Yusaku sentì chiaro il profumo di lei invadergli le membra.

“Ti stavo aspettando” le disse. Il suo non era un tono di rimprovero, o niente di simile. Aveva solo bisogno di sentire la voce di lei.

“Lo so.”

Parlavano in un sussurro.

“Shinichi te l'ha detto?”

“Lo sapevo già da prima. So sempre quando hai bisogno di me.”

Alzò il volto e gli sfiorò la guancia con un bacio. Yusaku sfilò la sua mano dalla presa, e avvolse il braccio attorno alla vita di lei, massaggiandole appena il fianco con le dita. Lei sorrise, sensibile al solletico per ogni minimo tocco.

“Perché ci hai messo tanto?”

“Il vin brûlé mi aveva dato alla testa, e me ne stavo lì, persa tra i miei pensieri. Ma poi ho capito che dovevo tornare da te, ed eccomi qui.”

“A cosa pensavi?”

“Oh, a niente di importante.”

“Non dire così.”

“Dico così perché è vero.”

Un attimo di silenzio. Immersi nel buio di quella stanza, i loro corpi a contatto e le loro anime che parlavano. Non c'era nient'altro che loro, e di loro era pieno ogni più piccolo atomo dell'aria che li circondava.

“Sei la donna migliore che conosca. Sei intelligente, sei bella, sei forte, sei solare e in fondo sai ogni cosa prima che io possa ancora capirla: non puoi non pensare a qualcosa di importante.”

“Beh, l'importanza è data dalla priorità. E ora la mia priorità sei tu. Quello che pensavo io non è importante: se non per quel che riguarda i momenti in cui ho pensato a te e solo a te. E adesso dimmi, cosa c'è?”

Gli accarezzava piano il petto scoperto dalla camicia sbottonata. Conosceva ogni millimetro di quel corpo, ogni angolo segreto di quel viso. Anche al buio era come averlo lì, chiaro davanti al lei.

“Oggi ero lì, guardavo l'acqua di quel fiume e pensavo ad Arthur, a cosa è capitato in così pochi giorni.”

“E? Cos'è successo poi?” continuava lei, incalzandolo dolcemente e disegnando dei piccoli cerchi sulla pelle di lui, sfiorandolo appena con le unghie colorate. Quei cerchi appena tratteggiati, che tentavano di cicatrizzare le ferite che lottavano per emergere.

“Ad un certo punto ho visto qualcosa, qualcosa che si muoveva nell'acqua, come una macchia scura. E' rimasta incagliata per qualche secondo sulla riva, e lì ho capito di cosa si trattava: era una scarpa. La sua scarpa.”

Lei non disse nulla. Sapeva che il marito voleva ancora parlare, e il suo compito era lasciarlo fare.

“E' morto, Yukiko, lo so. E' lì, da qualche parte e io.. io mi sento così in colpa a lasciarlo lì, senza poter far niente. E lo so che è assurdo, ma alle volte ho paura che senta freddo, che si senta solo, che abbia paura: anche se so che ormai non può provare niente di tutto questo.”

La voce incrinata ruppe la frase e Yukiko mormorò: “Ssshh, va tutto bene. Ci sono qui io.”

Nascose il viso nell'incavo del collo di lui, lasciando le sue labbra lo cullassero di baci, come se fosse stato il suo bambino, il suo piccolo amore.

“Non c'è niente di cui preoccuparsi, niente.”

“Perché non sono stato in grado di capirlo? Perché? Io credevo di comprendere, di delineare le persone fin dalla prima occhiata, di saper scrivere di loro.. e invece non so niente, Yukiko. Non so niente.”

Si alzò improvvisamente a sedere, prendendosi il volto tra le mani. La donna seguì i suoi movimenti e lo abbracciò, continuando a sussurrargli: “Ehi, va tutto bene. Ci sono qui io. L'importante è questo, che nessuno possa dividerci. Siamo noi due, abbiamo Shinichi e ora anche Ai, che sto ormai incominciando a considerare un po' come una seconda figlia. Ci siamo noi, ci sono i tuoi amici, le persone che ti amano: non potrà accaderti nulla.”

“E' proprio per questo, proprio per questo che non riesco a chiudere occhio. Non ho capito che Arthur aveva bisogno di tutto quello che io ho e che ho sempre dato per scontato, non ho capito che lui non desiderava altro che un po' d'affetto, una spalla su cui piangere, un amico con cui parlare. Io non mi sono accorto di nulla: avrei potuto salvare due vite.”

Yukiko gli scostò dalla fronte i capelli che gli cadevano disordinati sulla fronte. I loro occhi, ormai totalmente abituati alla penombra, potevano fissare in tranquillità i loro sguardi.

“Non tutto si può fare, Yusaku. Non tutto è possibile, non tutte le vite si possono salvare e non tutta la sofferenza è cancellabile dal cuore altrui.”

“E nemmeno dal proprio.”

“Forse no, ma si può fare qualcosa per lenirla. Non intrappolarti in quello che è stato, vivi in quello che c'è adesso. Tuo figlio ha bisogno di te, ora più che mai. Devi esserci, e io sarò con te in ogni momento.”

Il voltò di Yusaku crollò sulla fronte di lei.

“Arthur ha posto fine ad ogni tormenti. Non puoi addossarti ora i suoi.”

Yukiko avvicinò le labbra, facendogli sentire il calore di chi lo amava più di ogni altro. Quando si staccarono, l'uomo disse in un sussurro: “..Che cosa avrà provato? Che cosa c'è oltre la morte?”

“Niente di cui tu debba preoccuparti adesso, Yusaku. Perché io ti amo, e questo conta più di ogni altra cosa. Compreso il fatto che prima o poi torneremo polvere di stelle: non mi spaventa, perché so che anche lì, anche quando sarò un granello ancora più piccolo nell'Universo, io sarò con te.”

L'uomo la strinse ancora di più a sé.

“Anche io ti amo. E se sono con te non voglio e non posso avere paura.”

Erano una cosa sola, indissolubilmente uniti per sempre. Lei gli accarezzò la barba che stava crescendo e le raschiava appena la pelle: “E ora andiamo. A quanto pare Ai ci ha preparato qualcosa di buono, e tu hai bisogno di mangiare. E poi,” aggiunse, dandogli un altro bacio, “stanotte penso io a te.”

 

 

 

 

 

---------------------------------

 

 

E a più di un anno di distanza dal primo capitolo, ecco finalmente il decimo. Mi scuso davvero per i miei ritmi estremamente lenti, purtroppo faccio una gran fatica a trovare del tempo libero per scrivere e spesso l’ispirazione decide di prendersi delle vacanze, oppure di lanciarmi idee per altre storie invece di farmi concentrare solo su questa. Comunque già dal prossimo capitolo il racconto prenderà la piega che lo porterà poi alla fine, che ho già ben in mente e che spero non vi deluderà! :) Ringrazio tutti coloro che hanno la storia tra le preferite, ricordate, o seguite (grazie davvero <3), e ovviamente anche chi si è fermato a recensire. Un bacione grandissimo e, nella speranza che il capitolo vi sia piaciuto, vi auguro buon Natale, buone vacanze, e felice anno nuovo! :)

Un bacione,

Flami

 

 

  
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Detective Conan / Vai alla pagina dell'autore: Flami Destrangis