Lui voleva solo vedere le luci. Le luminarie. Gli
alberi addobbati. Anche se sapeva che non era una grande idea.
Innanzitutto, perché sarebbe dovuto stare vicino
agli umani. Tanti umani. Anche se ormai di giorno lavorava in mezzo a loro, ben
mascherato, la paura di essere visto e scoperto era sempre costante. Ragazzi, come
gli era battuto forte il cuore, mentre aveva fissato estasiato la danza
policroma delle lucciole di quell’albero enorme, nella piazza, e un gruppo di
umani gli si era avvicinato. Così vicino da averlo sfiorato. Aveva abbassato il
viso, cercando di scomparire nel cappuccio. Aveva sperato che tra sciarpa ed
occhiali da sci non si intravedesse niente. E che il giubbotto sformato non lo facesse
sembrare troppo… strano, né i larghi pantaloni lunghi fino ai piedi.
Aveva rischiato, imprudentemente e sconsideratamente, di infrangere il loro
primo e più importante precetto; inoltre, aveva sfidato le sfuriate di Donnie,
e di Raph. E si era esposto ad un raffreddore spaziale, con quelle temperature.
Ma lui voleva solo vedere le luci. Perché improvvisamente, quella sera, nel
vuoto della tana, con Donnie al lavoro, con Sensei che dormiva, con Raph ancora
fuori, con Leo… Leo lontano, aveva sentito quel bisogno, irrazionale ed
infantile, di vedere le luci, per compensare il buio della casa che,
quest’anno, di luci non ne aveva.
Per riempire l’assenza.
Ed era sgattaiolato fuori come un ladro, senza dirlo
a Donnie, poiché tanto sarebbe tornato in un paio d’ore, e nessuno si sarebbe
accorto di niente. Che poi, in fondo, diamine, non era un bambino, ed aveva
anche lui il diritto di andarsene in giro come e quando voleva, come Raph? No?
E poi lui tanto sarebbe tornato, e sarebbe stato a
casa per Natale. Lui sì, ci sarebbe stato.
Un brivido di freddo più intenso degli altri gli
attraversò il corpo, e guaì per il dolore.
Sì, non era stata una grande idea. E poi, ancora
non aveva capito perché per rientrare non era sceso subito giù a quel tombino
ma aveva deciso di passare per questa zona, allungando parecchio la strada.
Beh, buon per le ragazze. Aveva sentito le loro urla da fuori il vecchio cantiere.
Almeno erano salve, era scappate. Non li capiva proprio, gli uomini. A volte,
lo facevano inorridire.
E poi, non era stata una grande idea neanche
affrontarli in quel modo. Ah, Mikey,
perdi colpi, vecchio mio. Non erano neanche una ventina. Adesso, tra i
brividi, sembrava però che l’idea più idiota di tutte fosse stata quella di
essersi tolto i vestiti. Certo, lo avrebbero impacciato un po’, un bel po’, ma tanto…
Tanto quel colpo da dietro non l’avrebbe visto lo stesso.
Che idiota, farsi sorprendere così.
Intontito. La corsa tra i piani. Salire le scale,
inseguire. Inseguito? La lotta, tra lo scheletro scuro del palazzo. Scivolare
sul ripiano in costruzione, sul cemento lastricato di ghiaccio. Sirene in
lontananza. Quello con il coltello e quello con la catena in fondo non
combattevano neanche tanto male. Troppi, e la testa girava per la botta. Sirene
più vicine. La schivata. La seconda schivata. Il calcio. Ghiaccio.
La caduta.
Afferrare e scivolare, sbattere il fianco sul ferro
dell’impalcatura, poi ancora giù, poi sbattere ancora, poi il suolo, là sotto.
Ed il dolore.
…
“Non risponde e non è rintracciabile.”
Gli occhi nocciola incontrarono i verdi e confermarono
l’ovvio. Ogni più piccolo sentimento di rancore dissolto, ogni altro pensiero
allontanato.
“Che facciamo?”
Donatello fu quasi stupito della semplicità con cui
il fratello gli rivolse la domanda. Occhi smeraldo in intensa attesa.
Giusto, lui era il leader. Appena il gioco si fa
serio, ogni piccola ripicca è rimandata.
Iniziò a dare indicazioni mentre si risiedeva al
computer, eseguendo velocemente le procedure.
“Controllo l’ultima posizione ed usciamo a
cercarlo.”
Raffaello annuì. Donatello era abbastanza sicuro
che, leadership o no, ogni altra risposta non sarebbe stata accettata.
“Dove credi che possa essere andato?”
“Non ne ho la più pallida idea.” Il senso di colpa
iniziava a farsi strada nello stomaco, mentre le dita correvano rapide sulla
tastiera. Avrebbe dovuto prestare più attenzione. Certo, non poteva pretendere
che suo fratello a diciannove anni gli desse conto di ogni sua mossa, ma
avrebbe dovuto accorgersi che non era a casa. Lui aveva la responsabilità sui
fratelli, adesso.
“Spero solo che abbia preso i vestiti” aggiunse
indicando uno dei monitor mentre Raph si avvicinava. In una finestra del
desktop un’applicazione segnalava la temperatura esterna: dieci gradi
centigradi sotto lo zero.
“Ecco, era qui.” Il viola tracciò con il dito sul
monitor una serie di punti rossi che si soprapponevano alla cartina della
città.
“Cosa diavolo faceva quel deficiente nel centro di Manhattan
la notte di Natale, con la gente in giro?” sibilò il rosso.
Donatello si fermò con il dito su un puntino. “È
stato un po’ fermo qui.” Si bloccò, come a riflettere. Si voltò a guardare un
attimo l’angolo scuro, e poi suo fratello negli occhi, infine tornò al monitor.
“L’albero del Rockefeller Center” mormorò piano.
Anche Raffaello si girò a guardare l’angolo dove ci
sarebbe dovuto essere l’albero di Natale. Non ci aveva neppure fatto caso, che
quest’anno Mikey non l’aveva fatto. Sentì una stana sensazione amara, tra
rimpianto, rabbia, malinconia e senso di colpa.
“Dannazione, è proprio un bambino.” Sbatté un pugno
sul tavolo. Non sapendo quale emozione privilegiare, preferì puntare su quella
più nota.
“L’ultima posizione è questa” sentenziò Donatello alzandosi
di fretta dal monitor, mentre caricava i dati sul suo T-phone. Raffaello si
avvicinò a guardare, intanto che il fratello già correva verso le stanze.
“Avverto Sensei ed andiamo.”
Bussò piano alla porta, e poi senza attendere
risposta l’apri. Il mutante malato giaceva sul suo futon, voltandogli le
spalle. Donatello s’inginocchio al suo fianco, chiamandolo piano.
“Sensei?”
Splinter si mosse, iniziando a svegliarsi, ed il
giovane mutante gli mise una mano sulla spalla.
“Padre?”
Hamato Yoshi si voltò verso di lui, sbattendo le
palpebre. “D… Donatello?”
Si alzò sui gomiti, completamente sveglio.
“Che
succede, figlio mio?”
“Io e Raph stiamo andando in superficie.” Cercò di
formulare la frase in modo da non allarmarlo.
“Mikey ha… problemi con il T-Phone e stiamo andando a vedere che
succede.”
Splinter si mise a sedere. Il suo respiro era
ancora pesante, i movimenti lenti.
“Che problemi?”
Donatello deglutì. Che idiota a pensare che suo
padre non avrebbe chiesto.
“Lui… non riusciamo a rintracciarlo.”
Il maturo mutante allargò appena percettibilmente
gli occhi, ma l’espressione rimase impassibile.
“Sarà solo un problema di telefono, papà, non ti
preoccupare. Andiamo e torniamo. Tu resta a letto.”
Il tono della frase e l’imperativo bonario
sarebbero stati impensabili, fino a poco tempo prima. Ma settimane di malattia,
che avevano visto Donatello quasi costantemente al fianco del padre, per
vegliarlo ed accudirlo, avevano profondamente cambiato il loro rapporto. I
ruoli si erano invertiti, il protetto era diventato il protettore; la
debolezza, la paura, le lunghe notti insieme avevano aperto gli animi a
confronti e confessioni, ed il rapporto che si era creato tra l’uomo ratto ed
il suo figlio più intelligente era diventato qualcosa di ancora più profondo e
maturo. Il duro maestro si era in un certo senso ammorbidito, il giovane
allievo era diventato un adulto: a volte, i discorsi si erano dipanati come una
relazione tra pari, e mentre Donatello aveva imparato a conoscere aspetti del
padre di cui non immaginava l’esistenza, anche Yoshi aveva appreso che nella
vita gli insegnanti possono divenire a loro volta allievi.
“No, fammi alzare.”
Si aggrappò al braccio del figlio, per sorreggersi,
e si alzò in piedi, a fatica. Adesso che era di fronte a Donatello, era
evidente come fossero della stessa altezza. Hamato Yoshi era stato alto anche
da umano, molto di più della media dei giapponesi, e Donatello, il più
longilineo dei suoi ragazzi, lo aveva ormai raggiunto da qualche tempo. Il
giovane mutante inarcò il gomito, permettendo a suo padre di sostenersi, e lo
condusse verso la zona centrale. Lo aiutò a sedersi in poltrona, e poi con un
semplice cenno degli occhi lo salutò, afferrò la sua borsa a tracolla e
raggiunse Raffaello che lo attendeva già davanti alla porta che si apriva sul
garage.
…
Il freddo
intorpidisce i sensi. La mente si perde.
Come lo sapeva? Allora forse lo ascoltava un po’, Donnie, quando teneva le sue
noiosissime lezioni di pronto soccorso. Sì, forse un po’. La mente si perde. Non deve. Tienila occupata. Pensa. Faticoso. Ricorda. Doloroso. Conta.
Cosa? Le lucine laggiù? Troppo lontane. Le sottili
barre di ferro, appena visibili nella penombra, che fuoriuscivano dal cemento
armato intorno a lui e si innalzavano di qualche piede verso il cielo grigio
che vomitava neve, lassù?
Uno, due, tre… Conta,
resta concentrato. Conta. Sedici, diciassette… Il dolore è nella mente, ma il freddo? Venticinque, ventisei… Come può bruciare il ghiaccio sulla pelle? È
il fuoco, che brucia. Trentasei, trentasette.
Era esattamente la trentasettesima barra di ferro a
partire dal muro. La trentasettesima, sì.
Che, vermiglia, trapassava da parte a parte la sua
coscia destra.
Il sangue continuava a gocciolare, ma più
lentamente, tiepido e vischioso; si espandeva sulla neve candida come macchie
di colore sulla tela di un pittore.
Un altro involontario lamento sfuggì impertinente
dalla bocca dai contorni ormai cianotici. Il giovane mutante, alzando il
ginocchio, strisciò lentamente il piede sinistro verso il suo corpo. Forse, se
fosse stato un po’ più vicino al suo guscio, avrebbe potuto riscaldarlo. Non
sentiva più le dita dei piedi. Quelle delle mani andavano appena un po’ meglio,
strette sotto le ascelle. I brividi stranamente stavano diminuendo d’intensità.
Così il dolore all’arto infilzato, che stava passando da insopportabile a molto
forte.
Non era un bene, non poteva essere un bene. Strinse
gli occhi. Si sentiva sul punto di piangere.
Poi, invece, iniziò a ridere. Piano, in dolci
sussulti, quasi singhiozzi. Apri nuovamente gli occhi azzurri, e rise più forte.
Gli avevano sempre detto che riusciva a trovare il
lato buffo in tutte le cose. A volte gli avevano presentato questo come una
dote, a volte no. Il lato buffo. Ridicolo.
Hamato Michelangelo, tartaruga mutante. Uno dei
migliori ninja al mondo. Che aveva sconfitto innumerevoli nemici, vinto
innumerevoli battaglie. E che sarebbe morto la notte di Natale, da solo, trafitto
come una farfalla in un espositore, congelando e dissanguando piano piano.
Ridicolo, no?
I singhiozzi stavano salendo troppo in gola, e si
asciugò il moccio col dorso della mano.
Calmo,
amico, tu non ti disperi. Tu sei il ragazzo bicchiere mezzo pieno, giusto?
Non si era disperato quando intontito per la caduta
aveva alzato la testa e scoperto di avere la coscia inchiodata a terra da una
barra alta almeno quattro piedi. Non quando con una mano tremante aveva toccato
il ferro imbrattandola di rosso. Non lo aveva fatto quando aveva tirato a
fatica fuori dalla cintura il suo T-phone solo per trovarlo fracassato dalla
botta che aveva preso al fianco, e che per inciso probabilmente gli aveva
fracassato anche qualcosa come una costola ed un po’ di piastrone. Né si era
disperato quando iniziando a tremare dal freddo aveva iniziato anche a gemere
per quel pezzo di ferro zigrinato che gli straziava le carni.
Perché appena i suoi fratelli avessero scoperto che
mancava, sarebbero venuti a cercarlo, e l’avrebbero trovato.
Ma a mano a mano che i minuti passavano, era diventato
sempre più difficile allontanare il pensiero che, forse, i suoi fratelli non si
erano neanche accorti che lui mancasse.
E mentre la neve scendeva in piccoli fiocchi
malvagi, avvolgendo il suo corpo in un doloroso abbraccio di morte, il tempo
scorreva lentissimo e nero, ed i rumori e le luci e New York e la festa erano
lontani oltre le recinzioni del vecchio cantiere, l’ansia ed il dolore
cambiavano nome, diventando angoscia, e la speranza si andava affievolendo come
una candela sotto un bicchiere di vetro.
La morte appariva reale, vicina. Spaventosa.
La mente si
perde.
Tutto si
perde.
Non vi era nessuno. Non vi erano i suoi fratelli.
Leo era lontano. Leo?
Nessuno stavolta a salvarlo. Dov’erano tutti? La
solitudine era fredda e bruciava come il ghiaccio. Dov’era la sua fortuna? Dove
i suoi eroi? Forse il famoso Nightwatcher stasera era a casa. E forse neanche
lui si curava di un mutante, che si perdeva piano.
…
Qualche macchina era in giro. Ma nessuno stava più
a casa, la notte di Natale? Per giunta con questo freddo?
Raffaello strombazzò e sorpassò quel cretino che
viaggiava lento come una lumaca. L’automobilista gli rispose con un lungo e
nervoso colpo di clacson.
Lo Shellraiser prese la curva in derapata, e
Donatello si aggrappò allo schermo.
“Quanto manca?”chiese concitato il mutante
mascherato in rosso alla guida.
“Ci siamo quasi. Alla prossima gira a sinistra.”
Donatello lavorò sulla tastiera del computer per verificare a cosa corrispondesse l’ultima posizione
rilevata, e sullo schermo si visualizzò una planimetria.
“È un vecchio cantiere sotto sequestro. Non è detto
che troveremo Mikey, ma inizieremo le ricerche da qui.”
“Guarda, se nel frattempo lui sta tornando a casa,
giuro che questa è la volta che gli do tanti calci in culo da non potersi
sedere una settimana. Non può comportarsi così. Idiota.”
Donatello sbuffò in un sorriso ironico.
“Così come, Raph? Dici che non può uscire nella
notte senza dirci niente? Non può farci stare in ansia perché non sappiamo dove
diavolo sia? Non può mettersi in pericolo da irresponsabile senza pensare ai
suoi fratelli? È questo, che non può fare?”
“Non iniziare…”
ringhiò agli occhi nocciola riflessi dallo specchietto a lato del
volante.
“Non può fare come…”
“Basta!” gridò staccando una mano dalla guida e
sbattendola sulla caotica strumentazione della plancia dello Shellraiser. “Non
devo dare conto a te di dove vado e di quello che faccio!”
La voce del viola rimase calma. “E perché dovrebbe
farlo Mikey? Alla prossima gira a destra.”
Dopo qualche secondo di silenzio, Raffaello
rispose, burbero.
“È diverso.”
“Perché?”
Il rosso restò in silenzio. Donatello continuò, con
un sospiro.
“Raph, questa storia del vigilante solitario deve
finire.” Vide il fratello alla guida irrigidirsi. “Adesso che Splinter sta
meglio, se non la smetti gliene parlerò.”
Gli occhi verdi si staccarono ancora dal visore
sulla strada e guardarono nello specchietto verso l’abitacolo.
“Tu… Da quanto lo sai?”
“Solo un paio di settimane. Ho iniziato a
sospettarlo un mese fa quando ti ho sentito rientrare all’alba, ma all’inizio
non ne ero sicuro. Gira a sinistra e fermati.”
Arrestato il veicolo, Raffaello si voltò verso il
fratello, con un’espressione nervosa e sorpresa sul volto.
“Come…”
“Beh.” Il viola alzò leggermente le spalle. “Almeno
avevi il T-phone sempre con te.”
Il rosso si alzò in piedi, e si avvicinò al
portellone. Certo. Donatello sapeva rintracciare un segnale, accedere alla
linea interna della polizia e fare due più due. Era anche strano che non se ne
fosse accorto prima. Il senso di colpa dentro bruciava un po’; oltre alla
malattia di Sensei, aveva dato a Donnie anche questo pensiero.
Imprecò, aprendo il portellone. L’aria all’esterno
era freddissima. Pensò che probabilmente fosse inutile cercare in quel grande cantiere
che si stagliava davanti a loro, dietro alte recinzioni di lamiera. Suo
fratello non poteva certo essere lì fermo all’aria aperta.
…
“Non sei qui, giusto?”
“No Mikey,
lo sai benissimo che non sono qui.”
“Perché ci hai lasciati, Leo?”
“Non vi ho
lasciati, Mikey. Sensei mi ha inviato in una missione di addestramento.”
“E perché non sei tornato? Perché non sei tornato
mesi fa?”
“Non potevo
tornare.”
“Ma tornerai, vero, Leo?”
“Tu che
pensi, Mikey?”
“Penso… che… tornerai.”
“Sei
sicuro?”
“Io… lo sono… Lo ero… Sei… morto, Leo?” Gli occhi
si chiusero.
“Non ti
addormentare, Mikey. Resta sveglio.”
“Non sei… morto, vero?”
“Non
dormire. Apri gli occhi.”
“Sono stanco…”
“Mikey, se
ti addormenti non ti svegli più.”
“Non… m’importa…”
“Non
t’importa?”
“No… non più… sono troppo stanco…”
“È
l’ipotermia, Mikey. Resisti. Apri gli occhi.”
“’Resisti’? Eh eh, Leo… parli… come nei film…”
Increspò la bocca in un sorriso, e lottò con tutte
le sue forze per restare sveglio. Ma aveva tanto sonno, e le palpebre secche
dal ghiaccio erano pesanti come montagne… Le luci della luminaria lontana
diventavano grossi cerchi sfumati, confusi e galleggianti, tra gli occhi
socchiusi. La luce all’interno del cantiere era scarsissima, e la notte scura
era adesso fluttuante di ombre.
Un’ombra appena più concreta delle altre sembrò
materializzarsi tra i piani della costruzione.
Michelangelo apri un po’ più gli occhi, chiedendosi
se potesse effettivamente trattarsi di qualcuno o se non stesse già sognando. I
pensieri confusi già gli suggerivano la seconda ipotesi, quando l’ombra si
stagliò più nettamente sul bordo di uno dei piani dello scheletro
dell’edificio.
La tartaruga mutante aprì la bocca secca, per
urlare. Se l’ombra era reale, voleva richiamarla. A questo punto, poteva essere
anche un umano. A questo punto, prima bisognava cercare di restare in vita, poi
eventualmente pensare al da farsi.
Ma la gola emise solo un gemito roco, incapace di
articolare suono. Si schiarì la voce e ritentò.
“A…iu…to…” mormorò alla notte.
L’ombra scomparve.
E lui chiuse gli occhi.
Le voci adesso erano sogni, nel nero che l’avvolse.
…
“Eccolo!”
Donatello gridò indicandolo. Raffaello si avvicinò
e vide la forma distesa che aveva scorto dall’alto. Balzò all’interno del
basamento di una piccola costruzione mai innalzata, una larga fossa quadrata,
alta circa sei piedi e puntellata da sottili travi di ferro che spuntavano dal calcestruzzo
delle fondamenta. Scartando veloce gli spuntoni ferrei, raggiunse il fratello e
si inginocchiò al suo fianco, col cuore in gola; Donatello fu subito accanto a
lui.
“Dio…” esclamò il rosso tendendo la mano verso il fratello
immobile, per sfiorarlo. Il corpo pallido era gelido. Anche alla luce tenue,
spiccava in contrasto contro un soffice strato di neve sporca di sangue.
“Mikey! Mikey, mi senti?” chiese scuotendolo delicatamente per una spalla.
Donatello restò impietrito un secondo appena, non
riuscendo ad ispirare, poi si inginocchiò anche lui e mise una mano sul collo
del fratello minore. Sussultò al contatto freddo, ma riuscì finalmente a far
entrare di nuovo l’aria ghiacciata nei propri polmoni appena sentì un debole
battito.
A Raffaello bastò scorgere lo sguardo del viola.
Era vivo.
“È in ipotermia.” Il mutante più alto e magro guardò
allarmato la gamba ferita, e si alzò per esaminare la situazione, aiutandosi
con una piccola torcia. Toccò il metallo che fuoriusciva dalla coscia, patinato
di un granato strato di sangue ghiacciato, e rabbrividì.
“Dobbiamo portarlo subito via da qua.”Anche
Raffaello si rialzò, e prese un braccio del fratello svenuto, facendo per
tirarlo su.
“No!” Donatello lo bloccò con un colpo. “Rimettigli
la mano giù!” gridò.
Raffaello eseguì rapido e poi lo fissò allarmato e
stupito.
“Non toccargli gli arti, Raph. Se il sangue freddo
affluisce al cuore rischia un attacco cardiaco. E non possiamo spostarlo in
queste condizioni. Occorre tagliare la sbarra, e rimuoverla poi in laboratorio.”
Tornò ad esaminare il ferro, abbassandosi a
controllare sotto il corpo del fratello. “Devo tornare allo Shellraiser, a
prendere il seghetto. Tu nel frattempo cerca di riscaldarlo, ma senza smuoverlo
né strofinarlo, capito?”
Raffaello rimase quasi turbato da quanto la voce
del viola suonasse atona e professionale, priva di ogni sentimento. Annuì ed
iniziò ad abbassarsi, mentre Donatello già correva via.
Il terreno era gelido, ma a Raffaello non
importava. Avesse dovuto pure sdraiarsi sul fuoco, non sarebbe stato un
problema. Il suo corpo però iniziava a protestare, e mentre saliva
delicatamente sul fratello minore, quasi con la paura di romperlo, iniziò a
tremare.
“Mikey?” chiese ancora, sfiorandogli il viso.
“Maledizione, testa di legno, svegliati!”
Cercò di coprire il più possibile il corpo del
fratello con il proprio. La neve aveva smesso di scendere, ma un sottile
tappeto bianco rivestiva ogni cosa. Si strinse forte contro il piastrone
freddo, ansimando piccole nuvole.
Nella sua vita, aveva desiderato molte cose. Da
bambino aveva fortemente desiderato quella moto elettrica vista in tv. Da
adolescente, aveva desiderato stringere tra le braccia una donna. Aveva
desiderato a volte di essere un umano.
Ma non aveva mai desiderato qualcosa così
intensamente come adesso. Adesso voleva solo essere a casa, con suo fratello
sano e salvo accanto a lui.
…
I suoni erano ovattati. Come se venissero da
lontano, da molto lontano, e come se lui fosse completamente avvolto in un
enorme batuffolo di cotone. Eppure, erano abbastanza pungenti, sulla sua anima,
ma dar fastidio alla parte di sé che voleva tornare a dormire, rituffarsi nel
mondo caldo, sicuro e senza dolore.
Erano suoni conosciuti, e piacevoli. Suoni
invitanti che gli suggerivano di destarsi solo per capire che cosa fossero.
Improvvisamente comprese. Erano voci. Allora, forse
sarebbe stato meglio svegliarsi. A mano a mano che la coscienza tornava, altre
sensazioni sbocciavano nel suo cervello. Caldo e freddo insieme. Buio, perché
aveva gli occhi chiusi. Morbido, sotto di lui. Caldo e vivo, nella sua mano.
Dolore, un po’ dappertutto. Strinse le palpebre, e
vibrò un lamento in gola.
“… sta svegliando.”
“Mikey? Sei sveglio?”
La mano dentro la sua si strinse più forte; aprì un
po’ le palpebre. La luce arrivò a soffiare sul dolore alla testa come sulle
braci per alimentare il fuoco. Richiuse gli occhi.
“Mikey?”Due voci pronunciarono quasi all’unisono.
Ok, luce o non luce, doveva riaprirli.
Due volti verdi si misero a fuoco. Le espressioni
preoccupate ampliavano due paia di occhi, in una maschera rossa e in una maschera
viola. Le pupille erano dilatate nelle iridi verdi e nocciola: in fondo, nella
stanza non c’era poi molta luce.
Un sorriso si aprì sotto le lentiggini.
“Hey…” sussurrò. La gola non ne fu contenta.
Ma il petto s’inondò di calore. Era a casa, era al
sicuro. Era con i suoi fratelli.
Li vide rilassarsi al suo sorriso in modo fin
troppo teatrale. Gli venne da ridere.
“Come ti senti?”
Eh,
difficile rispondere, Donnie. Dovrei innanzitutto aprire nuovamente la bocca.
Proviamo.
Fece per parlare, ma strinse gli occhi quando una
fitta più forte sopraggiunse.
“Hai molto dolore? Hai bisogno della morfina?”
Si prese qualche secondo. Guardò a turno i suoi
fratelli, poi fissò, nella sua mano, la mano di Raph: si aspettava che adesso
che fosse sveglio il fratello la ritraesse, invece non lo fece. Era ancora
preoccupato. Ricordò tutto l’accaduto ed iniziò a fare l’appello al suo corpo. Feroce
mal di testa, acuto male ad un fianco, dolore decisamente intenso alla coscia
destra. Sì, un po’ di morfina sarebbe
fantastico, grazie.
Annuì piano.
Donatello si alzò e iniziò a preparare il
medicinale; Michelangelo si guardò intorno, scorgendo la coperta ben avvolta
sul suo corpo, il tubicino della flebo al suo braccio, alcune vecchie stufette
elettriche accatastate accanto al lettino; a poca distanza, al centro
dell’infermeria, spiccava qualcosa di insolito.
Un piccolo albero di Natale.
Oddio, definirlo albero sarebbe forse stato
eccessivo. Era più che altro una specie di arbusto, dalla specie sconosciuta e
solo vagamente somigliante ad un abete, storto e contorto, con i rametti che si
accatastavano in un lato solo. Ma era carico e luccicante di addobbi e brillava
di luci colorate.
Michelangelo sentì l’effetto della morfina prima
ancora che il fratello finisse di iniettargli tutta la fiala. Alzò gli occhi al
viola.
“Chi…”accennò indicando l’albero con gli occhi. Il
dolore si stava dissolvendo in un piacevole intontimento.
Donatello fece un cenno del capo verso il fratello
in rosso, che era ancora seduto al fianco di Michelangelo e continuava a
tenergli una mano: non aveva detto una parola, ma si era limitato a fissare il
fratello minore con un’espressione intensa ma indecifrabile.
L'arancione ricambiò il suo sguardo regalandogli
un altro sorriso, ed il fratello imbarazzato mise su la sua solita faccia
scorbutica e mollando la mano si alzò dalla sedia.
“Vado ad avvisare Sensei” annunciò uscendo dal
laboratorio, mentre richiudeva la porta dietro di sé.
Donatello sorrise di rimando alla scena.
“L’albero più bello che abbiamo mai fatto?”
scherzò, sfiorando la spalla del fratello con una carezza.
“A dire… il vero, fa… schifo” rispose ridacchiando
il mutante in arancio.
“Eh eh, effettivamente… Non ho idea neanche dove
l’abbia trovato, è uscito qualche ora fa mentre dormivi ed è tornato con quel
coso.”
Michelangelo continuò a guardare affascinato le
luci.
“Che ore… sono?”
“Quasi le due del pomeriggio. Ti sei fatto una
bella dormita.”
“Come… come sto?”
Donatello si sedette nuovamente sulla sedia a
fianco al lettino. Sospirò.
“Un principio di congelamento alle dita dei piedi.
Per fortuna non abbiamo le dita piccole degli umani, altrimenti a quest’ora le
avresti perse. Geloni e lievi ustioni da freddo sulla pelle. Sei stato
tachicardico fino a qualche ora fa. Hai inoltre due costole ed il piastrone
incrinati ed il muscolo della coscia lesionato. Per finire, un lieve trauma
cranico. Letto per almeno una settimana e non vedrai il dojo prima di una
quarantina di giorni.” Il viola distolse lo sguardo, e la voce s’incrinò un
po’. “Ho dovuto darti due sacche di sangue; non sei morto dissanguato solo
perché il freddo ha frenato l’emorragia. Ma quando ti abbiamo trovato eri in
grave ipotermia. Sei stato fortunato: ancora pochi minuti ed avremmo perso
anche te.”
Anche te. Michelangelo sentì come un pugno nello stomaco.
Donatello fece un profondo respiro e si alzò ancora.
Girò le spalle, si allontanò di qualche passo ed iniziò a sistemare qualcosa su
una scrivania.
“Raph ha ragione. Ormai siamo grandi, ognuno pensa
per sé. Non devi darci conto di quello che fai…” Si voltò nuovamente verso il
fratello, appoggiandosi con il guscio alla scrivania, con il fuoco nello
sguardo. “Quindi non starò qui a chiederti perché invece di essere a letto,
come io credevo, stavi morendo lontano da casa!” quasi gli urlò, alzando le mani
a stringersi la testa. Era furioso.
Michelangelo deglutì. Aveva messo in conto la
sfuriata, magari non subito. E pensava che sarebbe venuta da Raph. Anzi, quasi
quasi lo sperava. Perché le sfuriate di Raph sono territorio noto, sono eventi
gestibili. Ma quelle di Donnie, beh quelle sono molto peggio.
Il viola lesse l’espressione sofferente e
mortificata del fratello sul letto, e si pentì della sua uscita.
“Va bene, scusa scusa, ne parleremo dopo, adesso
pensa solo a riposare e…” S’interruppe alle voci che provenivano dalla tana, da
fuori l’infermeria. Dilatò gli occhi stupito e s’illuminò quando riconobbe una
voce femminile, la voce di April.
Anche Michelangelo sentì l’amica, che parlava con
qualcuno, sicuramente Raph e Sensei. Guardò Donatello, adesso eccitato e teso
verso la porta, palesemente combattuto tra la necessità di restare accanto al
fratello appena svegliato e la voglia di correre ad abbracciare la ragazza.
April era via da qualche settimana, ed ultimamente non aveva fatto avere sue
notizie poiché si trovava in una zona lontana dai servizi delle compagnie
telefoniche: l’ultimo dei suoi infruttuosi viaggi in America latina, per
cercare Leonardo, si era protratto più di quanto avevano pensato, e nessuno si
aspettava che riuscisse a tornare a casa per Natale.
Il giovane mutante ferito piegò il collo per vedere
bene la ragazza che adesso stava entrando in infermeria: andò incontro a
Donatello, lo abbracciò e lo baciò sulla bocca. Il viola abbassò la testa,
ricambiò il bacio della fidanzata stringendola forte a sé, ma si staccò troppo
presto, restando impietrito, quando notò un’altra figura che adesso varcava la
soglia della stanza.
Michelangelo sentì il cuore perdere un battito.
La vita a volte era strana. Poche ore prima, era
solo, dolorante e disperato. Era immerso nella notte, agognava luce e calore.
Adesso, era a casa al sicuro, con la sua famiglia, ed aveva anche l’albero più
bello che si fosse mai visto sulla faccia della terra. Questo era il più bel
Natale della sua vita.
Leonardo era avvolto in una specie di mantella
marrone, che ne nascondeva tutta la figura. Si strinse a Donatello, in un
abbraccio forte e impetuoso, accucciò un attimo il suo viso nel collo del
fratello più giovane e più alto; insieme a lui, erano entrati in infermeria
April e Raffaello che sorreggeva Splinter.
Tutti si avvicinarono a Michelangelo. Gli occhi
blu, nel viso magro e coperto di cicatrici, brillarono di gioia nell’incontrare
quelli azzurri.
New York era glaciale, candida di neve e variopinta
di luci. Le finestre illuminate erano schermi arancioni di ombre cinesi; un
babbo natale tornava a dormire, ubriaco, nella sua sporca dimora. Suo figlio
tredicenne abbracciava sul divano il fratello di undici anni, con lo sguardo
perso al muro, ma l’espressione adulta e decisa: avrebbe finalmente chiamato
quell’assistente sociale.
Sotto, in strada, un taxi giallo schizzò neve
sporca passando sul tombino; più giù, nella rete di tubature del sottosuolo,
arrivarono solo poche vibrazioni, e scendendo ancora, nell’intricato sistema
fognario, non si sentiva più niente. Solo all’interno di un rifugio ben
nascosto, si sarebbero potuti trovare nuovamente suoni, luce e calore.
Una famiglia stretta intorno ad un lettino.
Le luci dell’alberello risplendettero più intense.
N/A Musica (beh… ^_^ ): Cake, I Will Survive (il Nightwatcher e i ragazzi); Meghan Trainor, I’ll Be Home (Donnie
al tavolo); Gavin Degraw, Have Yourself a
Merry Little Christmas (Mikey e l’albero al Rockefeller Center); The Calling, Carol of the Bells(Mikey
e la neve); Coldplay,Christmas Lights
(il ritorno di Leo).
Grazie di essere qui. Buon Natale ed
un fantastico 2015!
Un abbraccio tra rami d’abete e bastoncini di zucchero, con tutto il cuore, da
LaraPink :*