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Autore: Princess Of Marshmallows    26/12/2014    12 recensioni
{ • TASSATIVAMENTE VIETATA AGLI STOMACI DEBOLI | psycho!Ticci-Toby | abusi sessuali | torture fisiche e psicologiche | prigionia | bipolarismo | C.I.P.A. | allucinazioni }
“Doveva essersi assopita, perché non si era resa conto dei passi che si avvicinavano sempre di più alla sua stanza, ma quando sentì la porta aprirsi di scatto si svegliò immediatamente, e la luce l’abbagliò per qualche secondo.
Sapeva che sarebbe venuto. La figura si avvicinò a lei lentamente, mentre la ragazza voltò lo sguardo dalla parte opposta mentre si sentiva mancare il fiato dalla paura. Nella sua mente ritornarono nuovamente a galla le immagini di quella mattina. Cominciò a tremare e a battere i denti per il terrore quando sentì i suoi guanti di pelle neri poggiarsi sulla sua gamba.
«Hai paura? È così brutto stare con me?», domandò all’improvviso, facendola sussultare.”

Per il mondo Anastasia Hamilton è morta il sei ottobre duemilatredici nel genocidio di Denver.
Nessuno sa che è ancora viva e si è ritrovata costretta a subire giornalmente torture di ogni tipo.
• Storia precedentemente intitolata "Hopeless Children of the Lonely Night".
Genere: Angst, Dark, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jeff the Killer, Lyra Rogers, Nuovo personaggio, Slenderman, Ticci Toby
Note: Lemon, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Tematiche delicate
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Chapter I

A te, che sei ancora in grado di amare,

proprio come lo sono anch’io.


 





Part I

Part I

Chapter I

Se questa è vita


 

“Il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell’ignoto

“Il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell’ignoto.”

H. P. Lovecraft

 

 

Era bloccata con cinghie di cuoio ad una branda con il telaio in acciaio. Le cinghie sopra il torace premevano brutalmente, facendola talvolta respirare a fatica. Era stesa sulla schiena e le mani erano bloccate all’altezza dei fianchi.

Ormai aveva compreso che ribellarsi avrebbe solo peggiorato la sua situazione, e sarebbe di nuovo finita lì.

Teneva gli occhi chiusi, sapeva già che se li avesse aperti, si sarebbe ritrovata nel buio totale. L’unica fonte di luce era una debole striscia che filtrava attraverso una porta.

Insieme al nauseabondo odore della sua pipì, sentiva anche una debole esalazione di melma. Non ne aveva la certezza, però era sicura che quel posto si trovasse sottoterra. Ogni volta che tentava la fuga, finiva lì, legata ed affamata. Puzzava, e non vedeva l’ora di potersi fare una doccia.

Era sempre sull’attenti, infatti tendeva un orecchio per cogliere il rumore di passi che avrebbe indicato che lui stava arrivando. In altre condizioni l’avrebbe lasciata lì per qualche altro giorno, a rimuginare sui suoi errori, ma quella volta era diverso. Non aveva la minima idea di che giorno o di che mese fosse, o di quanto tempo fosse passato da quando era stata costretta a vivere così disumanamente. Un urlo improvviso e straziante la indusse ad aprire gli occhi. Sembravano le grida di un bambino le quali erano rimbombate all’interno di quel posto ancora sconosciuto per lei, nonostante ci fosse stata così tante volte. Ma dopo un paio di secondi non sapeva se si fosse trattato di un’illusione oppure se l’urlo fosse stato reale.

Sentì un nodo alla gola e chiuse gli occhi, lasciando che le lacrime le rigassero il volto sporco e cominciò a singhiozzare silenziosamente.

Voltò appena il capo, sfregandosi il naso sporco di muco sulla spalla. Sudava: quella stanza era calda e soffocante. Indossava una semplice canottiera bianca da uomo che le si era arrotolata sotto il corpo. Spostando l’anca riuscì ad afferrare l’indumento fra l’indice ed il medio e a tirarlo giù da una parte poco alla volta. Ripeté il procedimento con l’altra mano. Ma la camicia aveva ancora una fastidiosa piega sotto l’osso sacro e aderiva alle ferite non ancora del tutto cicatrizzate che portava sulla schiena e sul sedere. Ogni volta che compiva un minimo movimento, le sembrava di essere accoltellata numerose volte.

Quella mattina aveva tentato di fuggire, ed era stata punita per questo. Le rimbombarono nella mente le sue suppliche, i suoi pianti di dolore e le sue urla, mentre quel mostro rideva sadicamente, divertito dalla scena, mentre agitava quella frusta, colpendola spietatamente sulla schiena. Era riuscita a contare venti frustate, ma sapeva che le ferite che le erano state inflitte erano di più. Farle del male e sentirla soffrire lo eccitava sessualmente, risvegliando il suo lato sadico.

Come se non fosse bastato, l’aveva tirata per i lunghi capelli rossi, aveva inserito l’erezione tra le calde natiche della ragazza, per poi penetrarla con una tale bestialità da farle lanciare un urlo fortissimo, disumano. Così potente che non si capacitò neanche che fosse uscito dal proprio corpo.

Odiava il sesso anale e lui lo sapeva, per questo lo usava come un modo per punirla.

La giovane, nell’essere violentata in tal modo e nell’essere stata costretta a stare a gattoni, si era sentita un animale, un lurido animale.

All’improvviso non era più spaventata, al contrario sentiva accumularsi dentro di sé una rabbia violenta. Strinse i pugni, mentre i muscoli delle braccia si tesero, anche se ogni loro movimento era bloccato dalle cinghie.

Lui era l’animale, lui era la bestia.

Ma non poteva negare di essere anche tormentata dai suoi stessi pensieri che si trasformavano costantemente in sgradevoli fantasie su ciò che le sarebbe successo. Odiava la sua impotenza coatta. Per quanto cercasse di concentrarsi su qualcos’altro per far passare il tempo e reprimere il pensiero della sua attuale situazione, l’angoscia riusciva comunque a filtrare.

In quei tempi aveva scoperto che il migliore metodo per allontanare le paure e i problemi consisteva nel fantasticare o nel ricordare qualcosa che le desse una sensazione di coraggio o di forza, che la incitasse ad andare avanti.

Immaginò il volto di suo padre mentre urlava agli elicotteri e ai poliziotti vicino a lui di cercarla, perché sentiva che i giornali e la televisione si stessero sbagliando, e che la sua amata figlia fosse ancora viva. I poliziotti si sparpagliarono e gli elicotteri sparirono, mentre sul viso dell’uomo apparve un’espressione serena e sicura, perché sapeva che l’avrebbe riabbracciata e nessuno le avrebbe più fatto del male.

Doveva essersi assopita, perché non si era resa conto dei passi che si avvicinavano sempre di più alla sua stanza, ma quando sentì la porta aprirsi di scatto si svegliò immediatamente, e la luce l’abbagliò per qualche secondo.

Sapeva che sarebbe venuto. La figura si avvicinò a lei lentamente, mentre la ragazza voltò lo sguardo dalla parte opposta mentre si sentiva mancare il fiato dalla paura. Nella sua mente ritornarono nuovamente a galla le immagini di quella mattina. Cominciò a tremare e a battere i denti per il terrore quando sentì i suoi guanti di pelle neri poggiarsi sulla sua gamba.

«Hai paura? È così brutto stare con me?», domandò all’improvviso, facendola sussultare.

, la risposta era certamente sì ad entrambe le domande, ma ormai conosceva fin troppo bene i vari disturbi psicologici di quel ragazzo, tra i quali la bipolarità e la schizofrenia, e dirgli ciò che veramente pensava di lui probabilmente gli avrebbe causato un improvviso sbalzo d’umore e lo avrebbe fatto impazzire dall’ira, e questo avrebbe solamente portato ad un’altra punizione. Rabbrividì al pensiero, mentre lo sentì sospirare e slegarla da quelle fastidiose cinghie.

Appena poté si mise a sedere sulla branda, massaggiandosi i polsi doloranti. Anche la schiena e l’ano le dolevano, ma preferì ignorare il loro bruciore davanti a lui. Non voleva dargli l’ennesima soddisfazione.

In un attimo fu circondata dalle sue braccia. Odorava di sangue; quale povero innocente aveva ammazzato, questa volta? «Oh, amore. Sei tu che mi costringi a trattarti così», detestava essere chiamata così, specialmente da un mostro simile. Lei non era l’amore di nessuno.

Le passò una mano tra i lunghi capelli rossi, come per confortarla, per poi sciogliersi da quell’abbraccio.

«Potrei farmi un bagno, per favore?», chiese semplicemente, con lo sguardo rivolto verso il basso e la voce tremolante. Quasi non si riconobbe nelle sue parole, nel suo tono e nei suoi gesti. La sua personalità ed i suoi modi di fare erano radicalmente cambiati da quando aveva iniziato a vivere in quella maniera. Aveva imparato che rispondere agli insulti, lamentarsi, provocare, usare linguaggi forti, disobbedire o esprimere una propria opinione l’avrebbe solo portata ad un mucchio di guai.

Giorno dopo giorno, dopo incessanti torture fisiche o psicologiche, questo concetto si era ben istaurato nel suo cervello.

Lui la squadrò, passandosi le dita sulla maschera da cannibale, come per riflettere.

«Va bene, ma solo se usi il bagnoschiuma alla vaniglia», acconsentì, aiutandola ad alzarsi dalla branda, avvicinandola a sé. Chiuse l’occhio sinistro a causa dei suoi tic. «Lo sai quanto mi fai impazzire quando hai quell’odore».

La giovane si umettò le labbra a quelle parole, ingoiando tutto il veleno che gli avrebbe sputato addosso in quel momento.

Ti odio con tutta me stessa, Toby Erin Rogers.

Si lasciò trasportare fuori da quella stanza e sperò di non metterci mai più piede al suo interno. Avanzò, cercando di stare al suo passo e zoppicando appena. Il capo era rivolto verso il basso e sembrò evitare qualsiasi cosa che avesse un riflesso. Attraversarono un lungo e stretto corridoio, pieno di porte chiuse e di specchi e senza finestre. Salirono delle scale a chioccola, e la ragazza si ritrovò direttamente di fronte alla porta del bagno.

«Vuoi che entri con te?», le domandò, carezzandole la guancia, mentre il suo sguardo cadde sui seni prosperosi della ragazza, la quale sbarrò gli occhi, terrorizzata.

«Non spetta a me una scelta del genere», rispose vaga, cercando di risultare tranquilla e nascondendo le mani tremanti dietro la schiena.

Voleva ancora abusare di lei? Non gli era bastata la punizione che le aveva afflitto quella mattina? Magari le avrebbe chiesto qualcosa di leggero, come fargli un fellatio ed ingoiare il suo sperma. Non poteva esagerare, lui lo sapeva. Non sarebbe stata nelle condizioni di fare qualcosa di brutale fino a quando non avrebbe…

Si morse il labbro inferiore, odiava ricordarselo.

«Vai da sola», la scelta di Toby le fece tirare un sospiro di sollievo. «Ma dopo ti voglio nella mia camera».

Annuì, anche se un po’ titubante. Cercò di farsi coraggio, e lo baciò esitante sulla guancia, sperando che potesse apprezzare quel gesto. Poi si rifugiò nel bagno, chiudendo la porta alle sue spalle.

Fu allora che fu costretta a rivederla a causa dell’enorme specchio che si estendeva dall’altra parte della stanza. Era almeno una settimana che evitava di guardare il proprio riflesso.

Lei era sempre lì, ed era diventata ancora più grossa.

Fin da quando era bambina era ossessionata dal suo aspetto esteriore ed era sempre stata attenta a non esagerare con il cibo e a mangiare sempre sano. La sola idea di ingrassare e perdere il suo bel fisico la pietrificava.

Ma in quell’istante giurò che avrebbe pagato purché quello fosse grasso.

Purtroppo però non si trattava di ciccia.

Bensì di gravidanza.

Si portò una mano alla bocca, cercando di trattenere i singhiozzi dell’ennesimo pianto isterico. Non riusciva ancora ad accettare quell’orribile situazione.

Non riusciva ad ammettere che stava aspettando un figlio da quel mostro.

Cosa avrebbe detto suo padre se l’avesse vista in quello stato?

E sua madre, che ormai non vedeva da anni?

Barcollò come un’ubriaca, aggrappandosi ai bordi della vasca. La mano tremante aprì il rubinetto della vasca, iniziando a far scorrere l’acqua.

Era sola. La verità è che nessuno sarebbe venuto in suo soccorso perché la credevano morta.

Per il mondo Anastasia Hamilton era stata assassinata nel genocidio compiuto a Denver il sei ottobre duemilatredici.

Nessuno sapeva che era ancora viva, e che passava i giorni a pregare, sperando che la sua vita e quella del suo bambino fossero risparmiate da quell’orrore.

 

 

 

Note dell’autrice: Okay, premetto che la mia intenzione iniziale non era di scrivere qualcosa di così crudo e angst, però le parole si sono scritte da sole ed ecco qua!

Tra l’altro guardando sul FanDom delle CreepyPasta, su YouTube e cose varie (?) ho notato (ormai da anni) che la gente tende ad “ammorbidirle”, rendendoli meno folli e lasciandoli vivere più come persone “normali”.

Invece io sono qui per buttare quest’idea e tirar fuori tutta la loro anormalità, la loro follia, la loro mancanza di empatia, il loro lato peggiore che nessuno può aggiustare.

Da come penso abbiate notato, i protagonisti di questa storia sono Ticci Toby ed Anastasia Hamilton, la mia OC. Ci saranno altre CreepyPasta che spunteranno nel corso della storia, e fidatevi, se state già pensando che Toby sia crudele, non avete visto ancora niente!

Tra l’altro questa Fan Fiction sarà un’alternanza tra “passato” e “presente”. Ovvero spiegherò anche come ha fatto la nostra povera protagonista a cacciarsi in questa situazione.

Riguardo all’altra FF ad OC che sto scrivendo, per tutti coloro che partecipano: state tranquilli! Le continuerò simultaneamente.

Il sei ottobre duemilatredici NON è stato commesso nessun genocidio a Denver, è opera della mia fantasia.

I prestavolto dell’immagine sono Karin Gallen e VultureImagination (on DeaviantArt).

Eeee basta, penso. Spero vi sia piaciuta, se vi va lasciate una recensione, mi farebbe molto piacere sapere cosa ne pensate!

Semplicemente,

Coffee Pie.

 

   
 
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