‘Till death do us
part
Notte profonda, seppellita sotto un piumone, senso
di completezza col mondo.
Nuda.
Nuda?
Perché ero nuda, sotto un piumone e sentivo un senso
di completezza col mondo?
Venni improvvisamente colpita dall’idea di aver
fatto la più grande, enorme cazzata della mia intera vita, e di essermi anche
divertita nel mentre. Cercai di diradare le nebbie del sonno per arrivare a
capire cosa diamine avevo combinato nelle ultime 12 ore.
Ma prima che potessi farlo sentii un respiro
costante dietro il mio, un corpo che premeva contro la mia schiena e un braccio
tatuato che penzolava sul mio fianco. Istintivamente mi strinsi di più contro
quel corpo, mentre la mia mente lottava con la memoria, il mio corpo sembrava
attratto da un’invisibile calamita. Traditore.
Poi un bacio, un dolcissimo bacio sulla base del
collo.
E mi ricordai tutto.
“Siamo a Las
Vegas, facciamo cosa si fa a Vegas” mi disse Ville mentre ridendo come un matto
mi trascinava verso lo shop dell’hotel.
“Andiamo a
vedere il Cirque Du Soleil?”
proposi, non capendo assolutamente dove voleva arrivare.
“Tenta di nuovo”
rispose mentre rovistava tra i vestiti esposti.
“Tributo a
Sinatra?”
“Magari dopo”
“Poker?”
“No”.
Non capivo,
assolutamente non capivo. Cosa si fa a Vegas, mi chiesi.
E improvvisamente
l’illuminazione. Quell’uomo era decisamente un pazzo, un folle da rinchiudere.
Bello, ma pazzo.
“Alt. Fermo lì.
Dimmi che non vuoi fare quello che sto pensando, ti prego DIMMELO” lo intimai
senza essere troppo gentile.
Se la sua risata
avesse potuto parlare sarebbe stata una sorta di ghghgh.
Prima di
urlargli contro vari insulti lo guardai bene.
Pantaloni neri
aderenti, ma non troppo, quello che bastava per farmi desiderare ardentemente
di toglierli. Camicia nera aperta, glabro, non cerettato.
Glabro naturale, come dire scotch a doppio malto ad un alcolista, per me.
Enormi occhi verdi luminosi come due fari, capelli boccolosi
che incorniciavano la faccia. Alto. Gli arrivavo all’altezza del collo. E
dannatamente, maledettamente secco.
Tutto questo
però non bastava di certo a convincermi a sposarlo. Io, cinicamente sposata col
mio lavoro, che non avevo relazioni durature, non potevo gettare la spugna
così.
“Ma non ci
conosciamo, te ne rendi conto?”
“E’ questo il
bello” disse, poi mi porse la mano destra “piacere, Ville Hermanni
Valo, nato a Helsinki, Finlandia, il 22 novembre del
78, ex-alcolista, annoiato, troppo romantico, musicista, bugiardo”.
Lo fissai mentre
mi raccontava chi era, sempre sorridendo, sempre convinto di procedere con
questa follia. A Vegas, si sa, nessuno prende niente sul serio.
Decisi che per
una volta, potevo farlo anche io.
“Piacere, Andrea
Donovan, giornalista, cinica, pragmatica, frustata, annoiata”.
E poi.
Poi.
Mi lasciai
prendere la mano, mi lasciai trovare un vestito nero che mi andasse bene, mi
lasciai portare dentro una di quelle cappelle dove ti sposa un sosia di Elvis.
E poi lo dissi:
“Lo voglio” al ritmo di Can’t help falling in love with you, la sua voce roca che si
mischiava a quella del Re. Pensavo che in quel momento il peso della
grandissima idiozia che stavo facendo mi sarebbe caduto addosso, e invece
ridevo, ridevo come una matta. Non mi divertivo così da anni. E davanti a me,
c’era uno sconosciuto, ma ormai era andata. Le spese del divorzio mi sarebbero
costate i pochi risparmi che avevo, ma me la sarei goduta finchè
durava.
Isn’t that what life is about?
Per il poco
tempo che la nostra pazzia sarebbe durata, lui sarebbe stato mio e tanto valeva
approfittarne. Avevo un bel principe ai miei piedi e non sfruttarlo sarebbe
stato peccato mortale.
“Baciami,
idiota” gli dissi mentre continuava a guardarmi, incredulo anche lui di essere
andato a fondo in questo delirio. Lo presi per i morbidi capelli e lo avvicinai
al mio volto.
“Ai suoi ordini,
Mrs. Valo”.
“Ugh” suonava davvero strano, ma non ebbi il tempo di
pensare al suono del mio nuovo cognome che mi ritrovai stretta tra le sue
braccia magre, con le labbra, tutt’altro che scheletriche posate sulle mie e la
lingua, avida e veloce, in cerca della mia.
Non so come ma
arrivammo alla sua stanza d’albergo, il mio cellulare squillava, il suo
squillava. Potevamo continuare a farlo, avevamo di meglio da fare.
Dimenticando
cos’era la grazia e la dolcezza lo spogliai dai vari strati di vestiti che
aveva indosso. Un fisico da angelo, ecco cosa mi ritrovai davanti quando tutta
la stoffa in eccesso si trovava sul pavimento. Bianco come la neve, lineare,
sottile, fragile. E i tatuaggi, rimasi incantata almeno dieci minuti a
studiarli, toccarli e sfiorarli.
Mi piaceva
sempre di più essere sposata.
“Ne ho uno anche
io, sai?” annunciai fiera.
“Ah sì?” chiese
sorpreso “una rosellina sulla spalla?”.
“Tenta di nuovo”
risi mentre mi sfilavo la maglietta, e girandomi per mostrargli il mio
capolavoro, un pezzo d’arte che risiedeva sulla mia schiena.
“Wow” non
mormorò altro. Si limito ad avvicinarsi con mani ghiacciate, intento a seguire
le linee del labirinto disegnato sulla mie pelle, un intreccio di rovi,
morbidissimi e bellissimi rovi a protezione del mio angelo personale. Un tatuaggio
nero che copriva tutta la mia schiena, per intero. Uno solo che valeva per
dieci.
“E’
semplicemente stupendo” disse in un sol respiro.
“E assomiglia
maledettamente al tuo” aggiunsi, voltandomi quel che bastava per osservare il
suo braccio sinistro.
“Casi del
destino” osservò.
Eravamo nudi,
uno di fronte all’altro. Le mani avide toccavano e scoprivano. Ma le parole
continuavano a scorrere, parlare e poi raccontarsi e parlare di nuovo. Ci
stavamo narrando le nostre vite mentre i corpi facevano conoscenza, ma le mani
si stancarono, le voci no. Seduti a gambe incrociate sul letto, stranamente
privi di pudore l’uno con l’altro, chiacchierammo tutta la notte.
Scoprii che era
decisamente troppo lunatico per i miei gusti. Che non si contraddiceva, sparava
cazzate. Ci provò anche con me, fu messo a tacere da un pizzicotto che avrebbe
fatto illividire un Cullen. Che era tremendamente romantico, e credeva
nell’amore eterno. Non è che me lo disse, ma diciamo che mentre io lo guardavo
con interesse e lussuria, lui mi guardava come un pesce lesso che aveva appena
visto la madonna dei pesci crudi, e la cosa mi piaceva parecchio, se devo
ammetterlo. Che aveva una mente contorta e strana, era talmente sulle nuvole
che forse potevamo quasi quasi andare d’accordo. Io,
con i piedi nel cemento, e lui in cielo, tra angioletti col kajal.
Quasi.
E poi mentre gli
raccontavo di come avevo lasciato l’ultimo uomo che aveva confessato di amarmi,
stretta tra le braccia di quell’uomo sconosciuto eppure stranamente noto al mio
cuore, mi addormentai. Non pensai che mi
ero sposata, che il giorno dopo mi sarei data della pazza, che era un sogno.
Pensai che ,forse, la vita a volte ti fa strani regali. Quel pensiero mi
accompagnò finché mi addormentai, feci in tempo a dirgli addio, perché non
l’avrei rivisto per molto tempo.
Tirai su la mano, vidi un enorme anello d’argento
sul mio anulare sinistro, una fascia che arrivava quasi fino al primo
metacarpo, avvolgendolo. Mr. Valo non aveva voluto
usare una delle fascette simil-oro che forniva la cappella, si era
semplicemente sfilato uno dei suoi anelli e l’aveva messo al mio dito.
Un uomo d’oro.
Ma prima che finissi di apprezzarlo, un’altra idea
attraversò la mia mente.
Cazzo.
Sono sposata.
Con uno sconosciuto.
“Svegliati, maledetto” gli dissi scuotendolo per
farlo svegliare.
Grugnì girandosi dall’altra parte, istintivamente
trascinandomi con lui.
“Lasciami, bastardo!” continuai.
“Che succedde, honey?” borbottò ancora addormentato.
“Mi hai sposato, lurido imbecille”.
La sua risata roca riempì la stanza, si ributtò sul
letto facendomi distendere lungo il suo corpo e iniziò a ronfare.
“E per di più non abbiamo nemmeno consumato”.
Aiuto.
Un ringraziamento infinito a S e Mossi che si sono anche la briga di commentare il mio delirio!
I owe you
big time, angelzz
Ps:
HELLLLLLLDOOOOOOOOONE *_____* -46