Libri > Twilight
Segui la storia  |       
Autore: Nyktifaes    28/12/2014    6 recensioni
Dal primo capitolo:
[...]
“Saresti potuto restare in auto”, pensò Alice.
«No, voglio stare qui», mormorai.
Il piccolo casolare non era cambiato, in quegli anni. Le finestre del pian terreno lasciavano ancora intravedere la cucina malamente ridipinta di giallo e il bianco dei muri esterni era ancora candido, nonostante le intemperie. Un solo particolare fuori posto: i portelloni di una delle finestre del piano superiore erano sbarrati.
Strinsi i denti: Alice aveva appena suonato. Charlie, all’interno della casa, non era particolarmente contento di dover abbandonare la poltrona. [...]
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: New Moon, Successivo alla saga
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo betato da Joan Douglas. 

 

Pazzia

«Edward, calmati».
Gli ultimi raggi trapassarono per pochi istanti le coltri di nubi, prima di morire oltre l’orizzonte. Eccolo: uno dei pochi momenti della giornata in cui era possibile intravedere il sole, a Forks. Avevo osservato gli attimi di crepuscolo luminoso per anni, ma mai li avevo sentiti così familiari. O così dolorosi.
Tutto, in quel luogo, sapeva di una quotidianità lontana ma mai dimenticata, tanto vicina da poterla sfiorare quanto lontana da non poterla abbracciare.
L’immobilità si era impadronita nuovamente delle mie membra. Avvertivo il corpo rigido e, se avessi saputo che non era possibile, dolorante sul sedile.
Da quando avevamo superato i confini della città e le solite strade, e le solite case ci avevano accolto.
Tutto ciò che avevo tenuto incatenato per anni aveva minacciato di travolgermi.
Da quando avevamo raggiunto una delle strade più periferiche, le cui case sorgevano a ridosso del bosco, avevo avvertito l’aria bloccarsi nei polmoni. Ed era ancora lì, anche dopo l’ora buona passata in auto, abbastanza lontani da non essere visti, ma abbastanza vicini da permettermi di sentire con chiarezza Charlie Swan che rientrava a casa.
Aveva varcato la porta di casa, sfilato l’impermeabile e la fondina per poi appenderli all’attaccapanni che – ricordavo – stava accanto alla porta d’ingresso. Aveva acceso il televisore, scelto uno dei tanti canali sportivi e ora, dalla poltrona, guardava la replica della partita di football del giorno prima.
Nessuna traccia di lei.
«Sono calmo». Le mie labbra, a differenza del resto del corpo, ripresero vita.
«No, se lo fossi non cambieresti decisione continuamente. Mi fai venire il mal di testa».
Sciolsi l’irrigidimento e la fulminai con lo sguardo. Non rispose, ma sbuffò sonoramente.
Mossi appena le spalle, poi le braccia e le mani, le gambe, e feci sfregare le scarpe sulla moquette dell’auto, inspirai ed espirai profondamente.
Tutti gesti teoricamente rilassanti.
Lei non c’era.
Alice l’aveva detto: Forks era il posto in cui cercarla. E, anche se era pressoché scontato che non sarebbe stata più lì, non avevo potuto fare a meno di sentire qualcosa incrinarsi nel petto.
È andata avanti, l’hai persa.
Combattere contro la mia stessa coscienza si stava rivelando più difficile di quanto fosse mai stato. Avevo passato gli ultimi sei anni con l’unica compagnia di quella voce, senza che smettesse mai di ripetermi quanto fossi stato scellerato e masochista a volermi privare dalla mia unica fonte di vita. Quanto lei fosse andata avanti, senza di me. Forse aveva dei nuovi amici, una nuova casa, un altro uomo che poteva tenerla tra le braccia e che aveva il diritto di baciarla.
Faceva male, aveva sempre fatto male.
Ma ora, essere ad un passo da quello che era stato il suo – il nostro – nido, e saperlo vuoto, era insopportabile.
Non potevo andare avanti così. Dovevo fare ciò che la mia natura egoista mi imponeva di fare da ormai troppo tempo. Avrei provato, avrei tentato con tutte le mie forze e le mie capacità. La rivolevo per me.
«Va bene, andiamo».
Mossi la mano verso lo sportello e nel giro di un battito di ciglia mi trovai accanto ad Alice, fuori dall’auto.
“Ce l’hai fatta, coniglio”.
Soffocai un ringhio, fin troppo consapevole della veridicità delle sue parole. Alice non mi avrebbe perdonato tanto presto.
Prima che potessimo entrare nel campo visivo della casa, saltai sull’albero più vicino e mi nascosi tra le fronde. Balzai di ramo in ramo, fino ad arrivare a uno degli alberi che si affacciavano al giardino sul retro.
L’avevo vista lì, una delle prime volte che ero stato da lei, una delle prime volte che l’avevo osservata mentre dormiva. Ed era così bella. Il sole le accarezzava il volto e la pelle chiara delle braccia mentre lei, stesa su una coperta, si era abbandonata a Morfeo. Ah, quanto era stato forte il desiderio di sostituire le mie dita ai raggi del sole! Ricordavo con che intensità mi ero dovuto stringere all’albero per evitare che la carne scegliesse di non ascoltare più la ragione.
Mi resi conto tardi della forza che stavo mettendo nello stritolare il tronco dell’albero. Per un attimo lo sentii sbriciolarsi sotto le dita.
“Saresti potuto restare in auto”, pensò Alice.
«No, voglio stare qui», mormorai.
Il piccolo casolare non era cambiato, in quegli anni. Le finestre del pian terreno lasciavano ancora intravedere la cucina malamente ridipinta di giallo e il bianco dei muri esterni era ancora candido, nonostante le intemperie. Solo un particolare era fuori posto: i portelloni di una delle finestre del piano superiore erano sbarrati.
Strinsi i denti: Alice aveva appena suonato. Charlie, all’interno della casa, non era particolarmente contento di dover abbandonare la poltrona.
Percepii tutta la sua meraviglia nell’aprire la porta e trovarsi davanti Alice Cullen.
«Salve, Charlie!», Alice aveva tirato fuori tutto il buonumore di cui era in possesso. E anche un falsissimo sorriso a trentadue denti, ma Charlie non se ne accorse.
«Alice… Salve», borbottò.
Era sorpreso di vederla, ma anche… contento? Un po’. Nel breve tempo che avevano trascorso insieme, le si era affezionato più di quanto avessi compreso in precedenza. Mi sforzai di scavare più in profondità, ma trovai solo nebbia e immagini sfocate. Qualcos’altro aleggiava tra i suoi pensieri, ma era un’idea sfuggevole, a cui Charlie stesso cercava di non prestare attenzione.
In quel momento ricordai davvero la fastidiosa sensazione di non riuscire a leggere i pensieri e mi sorprese non essermi accorto prima di quanto la mente di Charlie fosse simile alla sua.
Una gioia feroce mi percosse il corpo.
Lei era lì, era vicina.
Non materialmente, ma c’era suo padre. E i suoi oggetti. E la sua stanza.
Qualcosa di suo, qualcosa che aveva conservato il suo odore, la sua essenza, la sua mente particolare.
C’erano dei pezzi di lei a pochi passi da me. Perché ero ancora fermo lì? Perché non li afferravo? Miei, dovevano essere miei.
Mi ritrovai la terra sotto i piedi e il ramo, a cui ero appoggiato sino a pochi secondi prima, sbriciolato tra le mani e sul terreno gelato. Ancora un passo e sarei stato perfettamente visibile.
Distrussi in fretta ciò che restava del ramo e mi protesi verso l’alto.
Forse sarei riuscito, con un solo balzo, a superare il giardino e a entrare dalla finestra. Dalla sua finestra e nella sua stanza, tra le sue cose.
Gongolai: sarebbe stato come se non me ne fossi mai andato.
E forse non avrei nemmeno fatto tanto rumore quando avrei sradicato la finestra dai cardini e frantumato il vetro.
Sarebbe stato tutto perfetto.
«No, sono qui da sola, Charlie. Tu come stai?».
M’immobilizzai.
Erano in cucina. Quando erano entrati? Perché non me ne ero accorto?
Ringhiai, inferocito.
Non potevano stare lì, io dovevo salire nella sua camera, io dovevo sentire il suo odore tra i suoi oggetti. Dovevo riaverla!
Con che diritto lui si frapponeva tra me e la mia meta? L’avrei spazzato via.
«Non bene, Alice».
Un senso di solitudine impalpabile mi avvolse la testa e le membra, penetrando a fondo dentro di me. In un primo momento pensai fosse scaturito dal mio stesso corpo, poi capii.
Charlie soffriva.
Ero immobile, congelato dalla repentinità di quel sentimento. Come una pugnalata che perfora la pelle e lacera la carne e i tessuti, affonda nel petto ma non arriva al cuore, non può toccarlo. Eppure logora le arterie, il sangue si riversa all’esterno e il cuore cessa di battere.
Tutto è però nascosto dalla pelle, niente è visibile dall’esterno finché i rivoli di sangue non imbrattano il costato. Il corpo è congelato, immobile nell’ultimo istante, inconsapevole della morte che lo abbraccia.
Il mio volto e le mie membra, che non attendevano alcun cambiamento, erano bloccate nell’ultimo istante di delirio.
 Passarono diversi istanti prima che riprendessi consapevolezza di me stesso. Avvertivo i muscoli del volto contratti in una posa non naturale. Con le dita sfiorai le guance tirate, poi le labbra e i denti scoperti.
Anche senza vedermi potevo immaginare il mio volto deformato dalla smorfia grottesca.
Cosa stavo facendo? Cosa mi prendeva?
Mossi un passo e poi un altro, finché non avvertii nuovamente la corteccia dell’albero contro la schiena. Rapidamente lo scalai e mi rannicchiai su un ramo alto.
Se c’erano i suoi oggetti, i suoi libri e i suoi vestiti, c’era lei. E li volevo, volevo tutto ciò che lei aveva toccato o anche solo guardato. Erano miei, miei di diritto. Per dei folli istanti avevo creduto addirittura che lei fosse lì, forse seduta sul letto, oppure a una delle sedie della cucina. O forse Charlie l’aveva tenuta da qualche parte, nascosta ai miei occhi e alle mie mani, in modo che non potessi toccarla. Ma ero stato certo che lei fosse lì e quando l’avrei trovata sarei stato di nuovo libero. Mi sarei dissetato guardandole il volto e ascoltando la sua voce melodiosa, e poi avrei affondato il volto nel suo collo e accarezzato il suo corpo, gustato il suo sapore.
Non m’importava chi avrei dovuto combattere, chiunque avessi avuto il sospetto che mi stesse allontanando da lei, sarebbe morto.
Infilai la testa tra le gambe, lasciandomi andare a un ringhio liberatorio, incurante del mondo.
Mi disgustava la morbosità dei miei pensieri e delle mie intenzioni. Avevo iniziato a vederla dove non c’era, a volerla anche quando sapevo di non poterla avere. Tutto ciò che avrei voluto in quei momenti era perdermi fra le sue cose, avrei aperto tutti suoi cassetti, frugato nella sua vita e rubato il suo profumo. Avrei allungato la mano verso qualcosa che non mi spettava e me ne sarei appropriato, di nuovo.
Mi resi conto solo in quel momento del respiro affannoso.
Conoscevo quelle sensazioni, le avevo già sentite corrompere le menti fino al punto di non ritorno. Morbosità e possessività, inacidite dalla rabbia e dal dolore. Avevo visto i loro risultati negli occhi e nelle azioni di quelle che, un tempo, erano state le mie prede.
Avevo voglia di correre, ma non sarei mai stato abbastanza veloce da sfuggire me stesso.
Sfregai le ginocchia, terrorizzato. Cosa mi stava succedendo? Era questo l’effetto della sua assenza? Dopo sei anni la mente aveva finalmente iniziato a manifestare sul corpo le ferite infette, ormai a uno stadio troppo avanzato per essere curate? No. Non mi sarei permesso di rovinare tutto, non ora che avevo sentito la speranza rimontarmi dentro. Non avrei tollerato che qualcosa corrompesse quel sentimento, benché meno la mia pazzia.
Dovevo solo respirare a fondo e calmarmi. Sì, calmarmi, si trattava di agitazione e ansia, dettate dalla vicinanza con la sua casa e suo padre. Nulla di più.
Abbandonai il capo contro il tronco e mi riempii i polmoni di aria pulita.
Vento freddo, pioggia, muschio e corteccia umida. Odore di casa.
Mi sorpresi a ghignare di quel pensiero. Per la prima volta, dopo un intero secolo, definivo un luogo come “casa”. Che stupido, avevo sprecato anni prima di tornare e pochi istanti per capire.
Lentamente, lasciai che anche gli altri sensi riprendessero a funzionare normalmente. Strofinai i palmi sui jeans ruvidi e mi misi in ascolto, lasciai che i suoni e i pensieri m’inondassero la mente.
“Edward, Edward!”, Alice mi chiamava mentalmente da diversi minuti. Vidi prendere forma tra i suoi pensieri la mia figura in ascolto e decisamente più presente, rispetto a prima. Si era spaventata, e più tardi le avrei chiesto scusa.
“Finalmente, almeno questo…”. Interruppe la litania del mio nome, anche la sua voce mentale sembrava incredibilmente provata. Cosa mi ero perso? Dannazione.
«E non hai più notizie da sei anni?», mormorò Alice.
L’eco delle parole di Charlie rimbombò ancora nella mente di mia sorella, fino ad arrivare a me. “Quando se n’è andato, era sconvolta. Ha passato diversi giorni chiusa in camera sua, non mangiava e non parlava. Pensavo che le servisse un po’ di tempo per metabolizzare la rottura, ma le cose sono degenerate prima che me ne rendessi conto. Nel giro di una settimana ha preso ad avere attacchi di vomito continui e a perdere peso. Non so cosa sia successo, ho tentato di aiutarla, le ho detto che l’avrei portata da un medico, ma lei niente, si rifiutava. Più passavano i giorni, più lei peggiorava, anche psicologicamente. Era in un continuo stato d’ansia e di allerta, non mi permetteva nemmeno di toccarla. E poi… è sparita. Un giorno sono andato a lavoro e al mio rientro lei non c’era più”.
«L’ho cercata, gli investigatori li hanno cercati per mesi, ma niente».
Avevo sentito il gelo pervadermi fino alle ossa e aprirsi un varco fino al mio cuore morto. Che situazione assurda. Ero l’essere dotato di movimento più freddo mai esistito, eppure non avevo mai pensato che il gelo potesse essere così doloroso.
Non riuscivo ad articolare alcun pensiero coerente.
Delle immagini lontane e sbiadite m’invasero la mente, catturandomi e pugnalandomi allo stesso tempo.
Un volto magro e di un pallore malato, ornato da fili simili a grano annerito e morto, gli zigomi che tentavano di trapassare la pelle sottile e gli occhi, contornati da pesanti macchie violacee, sembravano in procinto di essere risucchiati nelle orbite.
Ero stordito. Chi era? Com’era arrivata nella mia mente? Faticai a riconoscerla in mezzo alla foschia della confusione e dello shock.
No… No!
Non poteva essere lei, no!
«Bella è sparita e non è più tornata».
E tutto ciò che avevo tenuto incatenato esplose.
Miliardi di schegge gelide mi trafissero il cuore e i polmoni, la mente e gli arti fino a farmi credere di stare morendo. Ma la morte sarebbe stata una troppo dolce liberatrice per un essere immondo come me.
 
“È meglio se non diventiamo amici”.
“Peccato che tu non te ne sia reso conto prima”.
L’aggressiva comicità della sua testardaggine mi fece innamorare di lei per la prima volta.
 
“La mia mente non funziona come dovrebbe? Sono una specie di mostro?”.
“Io sento voci nella mia testa, e tu temi di essere il mostro?”.
Avevo sempre trovato buffe le sue conclusioni, ed estremamente affascinanti i suoi ragionamenti. La sua mente, per me impenetrabile, mi fece innamorare di lei per la seconda volta.
 
“Cioè, vorresti dirmi che sono la tua qualità preferita di eroina?”
“Ecco, tu sei esattamente la mia qualità preferita di eroina”.
Con lei avevo imparato quanto potessi essere forte, quanto l’amore potesse togliere e restituire la vita. Avevo imparato ad amarla lì, in quella radura, per la terza e la quarta volta. Avevo compreso che la rosa più bella, quella più profumata e seducente, è contornata dalle spine più appuntite, che ne preservano il candore.
 
Non riuscivo nemmeno a elaborare la rassegnazione di Charlie, la certezza che, ormai, lei fosse perduta. Non era possibile.
Se lei aveva cessato di esistere, per quale ragione il sole era sorto ogni mattina e tramontato ogni crepuscolo in quei mesi eterni? Perché le stelle, inutili fari nella notte, non si erano rassegnate al gelo? E perché la luna, mia unica e maledetta compagna, non era precipitata nel vuoto, trascinando con sé la volta celeste?
Se lei non esisteva, non v’era ragione perché quel patetico mondo continuasse a essere. Come avevano potuto, le creature tutte, continuare a esalare i loro penosi respiri?
Un suono tremendo squarciò l’aria e fui certo che provenisse da me. Per un momento ne fui orgoglioso, nessuno avrebbe più potuto ignorare la sua assenza.
Sentivo il capo compresso tra due tenaglie e gli arti e il busto come incandescenti. Nemmeno i tre giorni del rogo della trasformazione erano stati terrificanti come quei pochi attimi. La mia esistenza, se quella che avevo vissuto poteva fregiarsi di tale nome, aveva perso la sua unica ragione.
Non c’era più nulla a cui potessi aggrapparmi, nessun appiglio da usare per restare a galla.
Nella disperazione, odiai la mia natura. Desideravo lasciarmi andare, permettere alle tenebre di risucchiarmi perché, senza lei, non avevo bisogno di esistere.
Eppure, non potei fare a meno di cogliere in lontananza la paura di Charlie nell’udire il mio verso disperato, né l’apprensione di Alice. Né, tanto meno, i suoi ragionamenti.
“Li?”.
Li?
«Li hanno cercati?», chiese, atona.
«Sì», balbettò lui. «Bella e Jacob, un suo amico. Dopo una settimana dal… Insomma, da quel giorno, Jacob aveva preso a frequentarla sempre più spesso, era qui a tutte le ore del giorno e della notte. E poi sono spariti, tutti e due».
Una pausa.
«Non so cosa sia successo, ma so che la mia Bells non se ne sarebbe mai andata in questo modo se qualcuno non l’avesse costretta. E Jacob era diventato estremamente pressante…».
Smisi di ascoltare, non ne avevo bisogno.
Jacob, Jacob Black. Il ragazzino che le aveva raccontato di noi, quello che aveva interrotto il nostro ballo. Quello che le sbavava dietro come un cane in calore.
Il nipote di Ephraim Black.
Allora la fine di tutto aveva avuto un artefice.
E trovai il mio trampolino di lancio, la base a cui aggrapparmi per risalire. Vendetta.
L’avrei usata per saltare, finalmente. Me ne sarei dissetato a sufficienza e, solo quando fossi stato soddisfatto, avrei lasciato che la forza di gravità mi lasciasse cadere. E mi sarei ricongiunto a lei.
Scesi dall’albero e corsi, smanioso di gettarmi sulla mia prossima preda.
Non avrei potuto attendere un momento di più, il mondo doveva pagare per aver posticipato la sua apocalisse.
 
 
 

 
 
Ehi, voi ^^
Sono davvero felice dell’accoglienza che avete riservato alla storia! Grazie mille a tutte per i complimenti, siete sempre dolcissime *^*
Allora, che ne pensate di questo Edward? Personalmente mi sono divertita un mondo a scrivere questo capitolo – e sì, se ve lo state chiedendo, sono sadica.
Come avete intuito dal prologo, la storia sarà una post abbandono particolare, non la classica fic di pucci pucci cucci cucci tra Edward e Bella che si ritrovano. Ma potete stare tranquille: amo il lieto fine e ‘sti due deficienti uwu
E, infine, un po’ di burocrazia: aggiornerò una volta alla settimana, tra il sabato e la domenica. Questo capitolo è arrivato prima perché non volevo farvi aspettare troppo dopo il prologo, e anche perché devo partire.
Penso sia tutto. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che vogliate continuare a dirmi la vostra!
Buone Feste e Buon 2015 a tutte! **
Vero

Ps. Le risposte alle recensioni arriveranno tra stasera e domani.
   
 
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Twilight / Vai alla pagina dell'autore: Nyktifaes