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Autore: Aries K    02/01/2015    2 recensioni
Quando la giovane Emily Collins mette piede nel collegio più cupo e spaventoso di Londra non sa che la sua vita sta per cadere in un mondo oscuro fatto di sangue e creature che credeva vivere solo nei suoi incubi. Quando pensa che la sua esistenza non possa cadere più in basso di così incontra William Delacour, figlio della temibile preside Jennifer Delacour. William -così enigmatico e onnipresente in quel convitto esclusivamente femminile- nasconde un segreto che sembra coinvolgere anche la giovane. I due non potranno che avvicinarvi anche se, non molto lontano da loro, qualcuno cova una centenaria vendetta che sembra non volersi compiere...
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Quattordicesimo Capitolo








Ho l’impressione che quando il tempo decide di rallentare è perché, in qualche modo, qualcuno ti stia dicendo di agire. Di calcolare la tua prossima mossa, di evitare un pericolo, una conseguenza.
Di correre dietro alla signorina Williams e afferrarla per il lembo del cappotto e tirarla indietro, urlarle, a tre centimetri dalla faccia, che cosa aveva intenzione di fare pur avendolo compreso.
E bisogna essere bravi a capire quando è giusto agire, a captare quel rallentamento che potrebbe rivelarsi fondamentale.
Ma quella volta non feci in tempo nonostante il campanello d’allarme che era risuonato nell’aria.
Nessuno ha potuto fare in tempo.
Lasciai che le grida mi saturassero le orecchie, poi, stringendo il pacco contro il petto indietreggiai di qualche passo – giusto per assicurarmi di aver equilibrio- ed infine corsi via da quella tragedia. Mi riversai in strada, nel panico, non sapendo in che luogo sarei capitata perché i miei piedi seguivano una bussola che non avevo deciso, che ignoravo.
Mi ritrovai ad aprire una porta dai bordi rossi di un bar in centro. C’erano poche persone all’interno e nessuna pareva aver fatto caso al mio trafelato ingresso.
Ero davvero spaventata. Non mi era mai capitato di respirare così pesantemente, di avere la vista a chiazze… o, almeno, non prima di uno svenimento. Questa volta, però, avevo la consapevolezza di non essere prossima a perdere i sensi; una cameriera mi si avvicinò di colpo mostrandomi sotto il naso un sacchetto di plastica che conteneva una serie di cioccolatini a forma di babbo natale.
-“Un presente per i nostri affezionati clienti!”, le sentii dire con una voce fin troppo trillante.
Non so per quanto rimasi a fissare quel sacchetto che ciondolava dalle sue mani, avrei voluto parlare eppure, tutto ciò che uscì dalla mia bocca, era lo sbattere dei denti.
La cameriera poggiò i dolci sul tavolo, proprio accanto al pacco e quando si allontanò mi parve di averla vista rigirarsi due, tre, forse quattro volte. Non ricordo.
Un istante dopo mi ritrovai a correre lungo le scalinate che portavano al mio dormitorio. Aprii la stanza, appoggiai il pacco sul letto, mi tolsi il cappotto, ripresi il pacco e, una voce che non riconobbi, mi fece sobbalzare costringendomi a mollare la presa da esso.
-“Emily!”
-“William!”, balbettai presa alla sprovvista. Calciai la scatola sotto il letto e pregai che Will non avesse sentito il rumore sospetto di quel movimento.
-“Sei appena rientrata. Ma dove sei stata?”
-“Volevo andare a fare un giro e lo so che non ho il permesso perché sono minorenne. Non c’è bisogno che me lo ricordi.” Mi sorpresi del mio tono calmo e deciso.
Quando lui mi venne accanto notai di quando spaventose fossero le sue occhiaie. Prima di reagire a quella visione, William mi abbracciò.
-“Buon compleanno.”
-“Grazie”, mormorai contro il suo caldo maglione azzurro.
Davvero una bella giornata, viste le premesse, non potetti non pensare quelle parole senza avvertire una morsa allo stomaco e un magone di pianto represso pulsarmi nella gola.
-“Vorrei poterti dire che va tutto bene”, bisbigliò come se stesse parlando contro la sua volontà, -“ma ho delle cose da dirti. E non sono piacevoli.”
Mi scostai, sorpresa e in apprensione, stavolta credendo sul serio di non potercela fare.
-“Lo avevo capito dalla tua brutta cera, Will…”, mi ritrovai a dire appoggiandomi al muro accanto alla finestra. Lui si sedette sul letto e si passò una mano tra i capelli ancora impregnati dal gel della sera precedente.
-“Jamie sta male. L’hanno portata in infermeria.”
-“Cosa?”, strillai, staccandomi di scatto dalla parete. Ora il magone divenne insopportabile, come se una mano mi stesse afferrando per la gola con l’intenzione di trascinarmi a terra e annientarmi.
M’inginocchiai di fronte a William, quasi supplicandolo di potermi dire che tutto ciò che era stata quella giornata fino adesso fosse un incubo da cui dovevo solo svegliarmi.
Magari dicendomi che tutta la mia vita fosse stata un lungo incubo.
-“Ma stai tranquilla: ho chiamato mia madre che sta tornando in collegio, ho sentito dire che è svenuta.”
-“Oh no. Ieri sera le doleva lo stomaco, questa mattina era letteralmente sostenuta al lavandino, non si reggeva in piedi ed io…” Ed io ero troppo presa da quello che stava per succedere per prestare attenzione a quella che mi pareva solo il frutto di una notte insonne.
-“Emily, non devi agitarti prima del previsto. Anche perché non hai ancora sentito cos’altro ho da dirti. E ti riguarda, in prima persona.”
Il viso di William parve stravolgersi: i suoi occhi si rabbuiarono conferendogli un aspetto cupo che non poteva non preannunciare un’altra disgrazia.
Mi sfregai il volto e poi tornai a guardare il suo, ora divenuto stremato.
-“Era da prima che ci conoscessimo che non accadeva...”, la sua voce tradì un fremito e, per quanto mi riguardava, avrebbe anche potuto non continuare a parlare perché il mio cervello era già arrivato alla conclusione di quel discorso,-“ questa notte io ti ho sognata ancora e mi sto chiedendo come questo possa essere possibile.”
-“Che sta per succedermi, William?”, domandai senza troppi giri di parole.
Lui mi fissò in silenzio per qualche istante, sembrava stesse imprimendo nella sua mente ogni singola caratteristica del mio viso, come se quella fosse l’ultima occasione in cui poteva farlo.
-“Non lo so, Em. Ma sei in pericolo.”




La pioggia batteva forte sul vetro della finestra dell’infermeria, sembrava che le goccioline sparpagliate sul vetro fossero il mondo che si stava sgretolando sotto i miei occhi impassibili. Ero attonita e Jamie era alle mie spalle che dormiva, febbricitante.
L’infermiera, che era giunta in collegio da poco, aveva dato a me e a William il permesso di rimanere in stanza. Ma solo perché la preside non era ancora arrivata.
Dal riflesso della superficie vidi la sagoma di Will avvicinarsi senza far rumore; quando mi venne accanto appoggiò una mano sulla mia spalla.
-“Perché non si sveglia?”, mormorai senza sapere da dove veniva quella domanda assurda.
-“Sento il suo battito e il suo sangue che scorre con regolarità. E’ viva, se lo vuoi sapere”, mi rispose con dolcezza e, per un breve istante, vidi spuntargli sulla bocca un sorriso divertito che, però, scomparve immediatamente.
Di certo si stava sforzando con tutte le sue energie di apparire tranquillo per me, visto che quando eravamo in stanza poco prima ci mancava che entrasse nel panico trascinandomi con sé. Lui non mi aveva voluto raccontare cosa aveva sognato – cosa il futuro, a quanto pare, aveva deciso di rivelargli su di me, ancora una volta- e ricordo con confusione di averlo persuaso per interi minuti. Sono persino arrivata al punto di aggredirlo, mi ricordo, mentre lo scuotevo per le braccia e lo colpivo al petto per farlo parlare mentre il mio respiro si faceva sempre più corto la vista sempre più appannata; William aveva saputo calmarmi stringendomi forte forte tra le braccia, ma rimanendo comunque con la bocca cucita. Avevo capito che quando ero io, quella in agitazione, allora lui trovava la forza per donarla a me. Proprio come stava facendo adesso, lì, di fronte alla finestra.
-“Non è il compleanno che ti avrei fatto vivere”, disse serio, avvicinando il suo viso al mio. Le nostre guance si toccarono, una contrapposizione di caldo e freddo.
-“Figurati”, soffiai, -“non m’importa festeggiare da un po’.”
-“Avrei voluto portarti dai tuoi genitori. Ci tenevo a dirtelo.”
Mi baciò la guancia rimanendo per un po’ con le labbra incollate sulla mia pelle mentre il mio cuore si gonfiava di tenerezza, di amore, di commozione.
-“Ti voglio bene, Will”, fu tutto ciò che dissi.
-“Sapessi io…”, quasi non lo sentii e le sue labbra scesero piano piano, senza mai staccarsi, lungo il mio collo.
Fu un colpo di tosse repentino che ci fece staccare di colpo e voltare verso Jamie.
-“Jamie!”
Mi precipitai accanto a lei che aveva gli occhi gonfi e un colorito verdastro.
-“Mi viene da vomitare”, mugugnò stropicciandosi gli occhi come una bambina al primo risveglio.
Le passai una mano sulla testa, spostandole i capelli ribelli dalla fronte che scottava tanto da far paura.
-“Insomma, ma come stai?”
-“Ho visto giorni migliori, amica mia”, ribatté per poi lasciarsi andare ad un lungo lamento.
-“Mi fanno male i polmoni per quanto ho tossito.”
-“Allora non sforzarti, rimani in silenzio.”
-“La tua amica ha ragione.”
La voce della Delacour saettò nelle mie orecchie come corrente e per questo mi si rizzarono istantaneamente tutti i peli del corpo. Voltai il capo nella sua direzione e la trovai a braccia incrociate accanto al piccolo tavolino dell’infermiera, nella stessa posizione di William. Indossava un lungo cardigan nero, pantaloni del medesimo colore, con i capelli leggermente fuori posto nel loro solito chignon. Quel piccolo dettaglio la faceva apparire ancora più giovane di quanto non lo era.
-“Miss Delacour”, sussurrai a mo’ di saluto, notando che suo figlio aveva gli occhi fissi a terra. Dunque compresi che avrei dovuto fare la stessa cosa: sforzarmi di non guardarlo per non far trasparire il sentimento che ci legava.
-“Ora puoi uscire. Sta per arrivare un medico, visiterà la signorina Sandford e prenderemo tutte le precauzioni possibili per salvaguardare la sua salute. Ora esci.”
Dalla bocca di Jamie morì un singulto di protesta ed io –come oramai potete immaginare- puntai i piedi.
-“Non posso rimanere? Mi metto qui, in questo punto”, parlottai accostandomi ad un angolo della stanza, -“e non proferirò parola, lo prometto.”
Jennifer Delacour sciolse le braccia e le lasciò cadere sui fianchi.
-“Tu non sai quando saper stare zitta.”, era un’affermazione, -“ti ho detto che non è possibile. Ed ora esci, non è di certo un ricevimento e la signorina Sandford non è di certo in fin di vita.”
Cercai un sostegno o una sorta di complicità in William, un gesto del tutto istintivo che, a quanto pareva, irritò sua madre.
-“Avanti!”, ringhiò, prendendomi per le spalle. Prima di venir rigirata colsi William trasalire, puntando lo sguardo verso di noi, sconcertato.
-“Esci di qui, fai come ti si dice per una buona volta. Faresti perdere la pazienza anche ai santi!”, continuò con la sua voce da iena spintonandomi fino a farmi attraversare la soglia. Ogni parte della schiena dove aveva messo le mani mi pulsava, mi domandai se avesse risvegliato in qualche modo il dolore della ferita delle frustate ricevute.
-“Ma non mi sembra che lei lo sia”, mormorai mentre stava chiudendo la porta, senza voler farmi sentire sul serio. Eppure, la Delacour mi sentì e bloccò quell’azione per trafiggermi con i suoi terribili occhi di ghiaccio.
-“Non mi sembra che neanche tu lo sia.”
E chiuse la porta.


Con le spalle mogie e il passo strascicato tornai al mio dormitorio, trovando una pessima sorpresa all’interno.
Seduta a gambe incrociate nel letto, Camille blaterava con le sue scagnozze, e mostrava quelli che a primo sguardo mi parvero dei regali. Alzai gli occhi al cielo.
-“Oh, Collins!”, disse non appena mi chiusi la porta alle spalle, appoggiandomici contro, psicologicamente esausta.
-“Ciao. Bentornata. Come mi sei mancata”, le risposi atona, lasciandole intendere che non avevo voglia di altre grane.
-“Anche tu!”
-“Potresti smetterla di parlare così? La tua voce è già di natura squillante ed irritante, senza che tu lo faccia apposta.”
Non ricevetti risposta –avevo appena chiuso gli occhi, giusto per rendere la mia richiesta supplichevole e farle intendere il mio stato d’animo- così li riaprii sorprendendola come se avesse ricevuto uno schiaffo. Si alzò lentamente dal letto - poggiando con cura i regali che aveva tra le gambe sul materasso- e mi venne di fronte.
Non c’è bisogno anche di te per farmi passare il peggior compleanno della mia vita. Sono già al completo.
-“Cosa succede? Ti si è sciolta la lingua?”, sputò alzando le chiare sopracciglia, in un’espressione di sorpresa e spavalderia.
-“Può darsi.”
-“Può darsi? Oh, deve essere l’adrenalina generata dalla paura per la tua amichetta Jamie. Alice mi ha detto che sta poco bene. Sai, sono appena arrivata e non sapevo nulla; ero con la mia famiglia a festeggiare.”
Il mio sguardo si affilò non appena dalla sua bocca uscì la parola famiglia. Non ero stupida e conoscevo Camille abbastanza da capire che quel rimarcare la parola era un atto fortemente voluto per ferirmi. Ancora.
-“Con la tua famiglia, eh?”, allora risposi staccandomi dalla porta per fronteggiarla più da vicino, -“ma come? Tuo padre non era a marcire in galera?”
Nella stanza si sentì un “oh!” di puro sgomento risuonare in ogni angolo. Non solo Alice e Misha sobbalzarono dinanzi il mio affronto ma anche le ragazze che avevano appena fatto capolino dal bagno per assistere alla disputa.
Le sopracciglia di Camille si abbassarono di colpo, l’angolo destro del suo labbro roseo scattava verso destra conferendo alla sua faccia un che di macabro, come un sorriso che non riusciva a nascere e che non aveva intenzione di nascere eppure si palesava in un’espressione difforme.
La bionda fece un passo indietro senza smettere di fissarmi, forse si stava chiedendo chi aveva davanti e che fine avesse fatto la vera Emily Collins, quella che reagiva ma che non osava oltrepassare il limite.
Mi diede le spalle e poi, ad un velocità inaudita, si rigirò per sferrarmi un destro. Quindi mi abbassai appena in tempo per schivarlo e il rumore che si sentì fu un sonoro crack.
Non seppi dire se quel rumore provenisse dalle sue nocche o dal legno della porta che si era incrinato e spezzato.
-“Emily, esci di qui.”, mi disse Kate (la vicina di letto di Nicole) e mi raggiunse per aprimi la porta. Oh, certo che sarei uscita!
Si era creato quel clima insostenibile che non avrei potuto sorreggere e, seguendo il saggio consiglio di Kate, me ne andai lasciando una muta Camille al centro della stanza.
L’unico spazio dell’istituto in cui la mia presenza sembrava non dar fastidio a nessuno era la mensa. Vuota.
Non sapevo se per regolamento ci era vietato entrarci fuori dall’orario dei pasti ma, davvero, non sapevo dove andare. All’esterno era scoppiato un vero e proprio diluvio, persino dall’enorme finestra della sala si intravedeva l’inclinarsi degli alberi. Mi rigiravo i pollici tra le mani lasciandomi ipnotizzare da quel movimento prima lento poi veloce, per non lasciar la mia mente vuota. Perché proprio quando è vuota il cervello un motivo per agitarsi lo trova. Succedeva sempre così quando vivevo con mia nonna. Se un giorno mi alzavo con il piede giusto dal letto e magari avevo un momento di relax ecco che il mio cervello mi palesa davanti agli occhi un motivo per inquietarmi, per terrorizzarmi. E molto spesso il motivo era generato dal panico della fine. E allora il mio umore calava giù a picco e mi rinchiudevo in camera a piangere perché volevo vivere, perché pensavo di meritare di essere felice e perché mia nonna non poteva vedermi in quello stato. Sì, anche lei non se la passava bene. Trascorreva giorni interi nel vecchio studio di papà, non sapevo a fare cosa, ma io non ci entravo mai.
E’ una cosa intima, io devo rimanere al mio posto, mi dicevo un po’ amareggiata.
In quel momento, seduta composta in quella sala che amplificava addirittura il mio respiro, non potette non tornarmi in mente il suicidio di Rebecca Williams. Mi domandai con estrema angoscia quanto ancora avrei rivisto quella scena, se la notte avrei potuto addormentarmi auspicando ad una tregua. Spianando le mani sul freddo del tavolo mi tornarono in mente Ben, Kendrick e l’altro vampiro di cui non sapevo il nome. I miei inseguitori. No, decisamente non potevo ambire a nessun momento di pace. William sapeva che la mattina ero uscita ma, talmente preso dagli aggiornamenti che doveva riferirmi, che nemmeno ebbe la forza di rimproverarmi per essermene andata senza di lui, completamente esposta al pericolo. Come una perfetta stupida.
Feci per alzarmi, intuendo che non era una buona idea rimaner ad indugiare riguardo a quel caos che era diventata la mia vita, quando un gridolino mi spaventò cogliendomi di sorpresa.
Lontano da me, accanto all’entrata della cucina che si stava chiudendo lentamente alle sue spalle, c’era Daisy.
-“Che ci fai qui, Emily Collins?”
-“Potrei farti la stessa domanda, no?”, le dissi senza cattiveria nella voce. Sarebbe stato come inveire contro Bambi.
Mi avvicinai a lei che mi guardava con due occhioni dolci e terrorizzati al tempo stesso; aveva le braccia dietro la schiena e, quando si mosse per sorpassarmi, un fazzolettino le cadde a terra riversando il suo contenuto sul pavimento immacolato. Accanto ai miei piedi rotolò un pezzo di pane.
-“Daisy, ma che cos…”
-“Non dire niente!”, strillò accasciandosi a terra per sistemare il danno. Notai che nell’altra mano stringeva un altro sacchetto ancora più tornito di quello sfatto sul pavimento.
-“Rubi il cibo di nascosto?”
Alzò di scatto la testa verso di me con la bocca spalancata e tremante.
-“Non devi avere paura di me, Daisy. Sono solo io.”
-“N-n-non farai la spia?”
-“No! Certo che no… ma perc…”
Lei scosse il capo azzittendomi mentre le sue dita sottili si muovevano veloci per formare un nodo bello saldo. Poi si rimise in piedi a capo chino, come se stesse aspettando il mio permesso per andarsene.
-“Ehi”, la richiamai dolcemente, mettendole una mano sulla spalla. Quando tornò a guardarmi il suo sguardo era liquido, le sue guance bruciavano di vergogna.
-“Sono quelle dell’ultimo anno, Emily”, singhiozzò stringendo gli occhi, la sua voce limpida era divenuta una cantilena straziante, -“mi minacciano. Mi hanno sempre minacciata e in cambio….in cambio… in modo che io gli faccia dei favori.” E lasciò che la diga che aveva costruito si rompesse dando il via ad un pianto sommesso ma significativo. Questa ragazza era arrivata al limite.
-“Daisy, non fare così ti prego”, l’abbracciai con il cuore straziato.
-“Devi consegnare loro questo cibo? Ci vado io.”
-“No! No! Ti ricordi l’altra volta quando sei stata tu a riconsegnarle il libro da parte mia? In quel libro c’erano tutti i favori che avrei dovuto fare e io avevo scritto una serie di cose orrende su di loro per dirle di falla finita, che non ero la loro schiava, ma tutto mi si ritorse contro. Emily, non fare niente. Fallo per me.”
Alzai le braccia all’aria facendole ricadere con un tonfo lungo i fianchi.
-“E allora questa storia continuerà fino all’infinito!”
-“No”, tirò su col naso, -“solo per altri sei mesi e poi loro dovranno abbandonare l’istituto.” Credevo fosse una battuta e invece nel volto e nella voce di Daisy non c’era traccia di ironia. Nel constatare che la stavo guardando perplessa e contrariata, la piccola collegiale, prima di congedarsi mi depositò sulle mani uno dei due fazzolettini color avorio.
-“Uno era per me”, mi disse.
-“Stai scherzando?”
-“Per il tuo silenzio”, precisò lanciandosi, poi, in una corsa forsennata verso l’uscita.
-“Quando le lezioni ricominceranno e la Belfiore tornerà al collegio glielo dirò Daisy!”, le urlai contro.
Ma la porta si era già richiusa.





***


-“Parlami William”, lo imploravo in una parte sconosciuta del collegio, dove non ero solita frequentare, -“ti prego, devi dirmi cosa sta per accadere. Magari troveremo un senso ai tuoi sogni e del perché siano legati a me.”
I suoi capelli biondi davano l’idea di essere stati aggrovigliati e strappati dalle proprie mani, mosse dall’urgenza della disperazione. Il medesimo sentimento che scorsi sul suo volto quando il suo sguardo s’incateno al mio.
-“Te lo confesserò”, mormorò, ma quella non era la sua voce. Era…un ringhio, basso, raschiante. Tuttavia non mi mossi di pezzo quando, quasi a rallentatore, si mosse per venirmi incontro; di colpo, i passi divennero veloci, pesanti, urgenti e, quando finalmente ci trovammo faccia a faccia fece un gesto che non mi aspettai. Mi diede una spinta gridando qualcosa che però non capii e atterrai nelle braccia di qualcuno di talmente forte capace di sorreggermi solo incatenando un braccio nel mio, mentre con l’altro toccavo il pavimento. Le mie dita s’inzupparono in un liquido denso, abbassando lo sguardo mi accorsi che il pavimento era pieno di pozze di sangue; lo stesso le pareti, i quadri, il soffitto… con uno scatto reclinai il capo e vidi il volto della persona che mi aveva sorretta: la Delacour. Nei suoi occhi scorsi uno scintillio pazzo e malato, oltre che la pericolosità dei suoi lunghi canini che scintillavano nel buio.
Gridai e… mi risvegliai nella mia cella d’isolamento, con le urla inaspettate di qualcun altro.
-“Emily, ma sei impazzita?”, gridò, ancora, Nicole, che era a terra in un angolo. Ora si stava alzando, sorreggendosi alla parete. Mi poggiai una mano sul petto ascoltando i miei battiti impazziti e mi lasciai andare ad un lungo sospiro di sollievo. Era solo un incubo.
Che ironia.
Dopo aver cenato e dopo essermi rassicurata sulle condizioni di Jamie (aveva una banale influenza, per fortuna, aggravata solo dalla mancanza di energie) mi ero trascinata a letto con l’urgente e disperato bisogno di staccare la spina.
-“Da quanto sei qui?”, domandai alla mia amica, che si era appena seduta sul mio letto. Indossava un maglione nero, dei jeans e un paio di stivali lucidi quanto i suoi capelli corvini.
-“Da circa due minuti. Mi ero seduta in quell’angolo a decidere se svegliarti o meno, quando hai iniziato a parlare.”
-“Ho avuto un incubo”, ammisi, provando un lancinante dolore alla base del capo che mi fece rimpiangere di essermi svegliata e non aver continuato a dormire, nonostante tutto.
-“Lo avevo capito da quando il mio orecchio destro ha iniziato a fischiare per colpa della tua urla. Credi che mi sia partito il timpano?”
-“Nicole”, la interruppi e lei tornò a guardarmi, -“devo raccontarti delle cose.”
Non appena finii di pronunciare quelle parole fui investita da un’ondata di sollievo.
Tutto quello che dicono riguardo al sentirsi leggeri nel parlare dei propri problemi con qualcuno è vero; se io non avessi avuto Nicole Lamberg, mi dite voi, come avrei potuto sopravvivere a tutto questo?
Mi alzai a sedere e lei si fece più vicina. Ora potevo guardarla bene in viso e… mi parve distrutta.
-“Che hai, Nic?”, allora le domandai, accantonando i miei guai.
Lei scrollò le spalle, abbassando la testa per guardarsi le mani intrecciate sulle gambe.
-“Indovina? La cena con la mia famiglia è andata proprio come avevo previsto: ci trasferiamo, tra due mesi, ci trasferiamo.”
Un silenzio di stupore si contrappose tra noi ed io non sapevo proprio come romperlo. Nic si stava mordendo le labbra quando tentò di cercare i miei occhi, che miravano oltre la finestra, mentre s’immaginavano già il vuoto degli spazi del collegio in cui sarebbe mancata.
-“Dove? Dove andrai ad abitare?”
-“Italia.”
-“Non è lontana.” Non finii nemmeno di completare quella stupida frase di circostanza che le lacrime cominciarono ad affacciarsi dai suoi occhi.
Si sfregò il naso con la manica e represse un singhiozzo con un colpetto di tosse.
-“Ma nemmeno vicina.”
-“Meglio di Francoforte.”
Mi sorrise e venne silenziosamente ad abbracciarmi. Ricambiai il gesto affondando il viso nei suoi capelli che sapevano di shampoo e umidità.
-“Ricordi? Ovunque andrai la mia amicizia ti raggiungerà”, sussurrai. Lei annuì col capo e sembrava che la sua guancia sfregasse sulla mia per darmi un carezza.
-“Tu e Jamie siete le uniche amiche della mia vita. Non mi ero mai e dico mai avvicinata tanto a delle persone come a voi due. Se voi non siete l’amicizia e se quello che provo io non è amore, allora non so cosa pensare.”
Sì staccò da me, ritrovando un contegno. Era la prima volta che si lasciava andare ad un pianto simile e non vi nascondo che le sue parole mi destabilizzarono un po’. Insomma, mi sarei aspettata quella commozione da una Jamie, ed invece davanti avevo Nicole, straziata e scombussolata dalla piega che stava avendo la sua vita.
-“Ti voglio bene”, furono le uniche parole che seppi articolare.
-“Ed io ti lascerò insieme ai vampiri!”, esclamò, ridacchiando sommessamente. Mi strinsi nelle spalle, inclinando il capo.
-“Questa mattina sono uscita di nascosto dal collegio”, confessai senza smettere di fissarla. Nicole fece scattare in alto le sopracciglia, senza una chiara espressione che potesse farmi intuire i suoi pensieri. Poi, inaspettatamente, sorrise.
-“Immagino. Dove ti ha portata William, per il tuo compleanno? Oh, a proposito auguri.”
Scossi la testa.
-“Sono uscita da sola. William non c’entra niente in quello che sto per raccontarti.” La mia voce doveva averla messa in allarme perché alla mia amica sbiancarono le labbra, potevo vedere il colore defluire da lei in tutta quella oscurità. Improvvisamente mi sentii irrequieta, tant’è che nel corso del racconto dovetti aggrapparmi alle lenzuola come fossero spaghi essenziali per tenermi integra, per non farmi avvertire, del tutto, il peso dei miei segreti. Nicole sobbalzò in piedi quando le raccontai il momento in cui Rebecca Williams aveva scavalcato le persone per lanciarsi al passaggio del treno.
-“Non ci posso credere! Oh, ma perché l’ha fatto?” Aveva le mani tra i capelli e il viso spiritato. Mi alzai anche io e diedi il bentornato al panico.
-“Cosa ne so del perché ha fatto questo.”
-“Magari troverai le risposte nel pacco che ti ha dato.”, ipotizzò, aprendo la finestra. L’aria s’intromise tra noi, facendoci rabbrividire nello stesso istante.
-“Sì congela, per la miseria…”
-“Quel pacco viene da mia nonna. Che cosa c’entra la Williams con me e mia nonna?”
-“E allora perché si è uccisa dopo avertelo consegnato?”
Per poco non mi uscirono gli occhi fuori dalle orbite.
-“Stai dicendo che la morte della signorina è collegata con noi?”
Nicole allargò le braccia.
-“E allora perché disturbarsi tanto? Voglio dire, se io volessi togliermi la vita di certo non vado a consegnare pacchi di cartone dal contenuto anomalo a chiunque! Avrei altri pensieri per la testa. Mi segui?”
-“Ti seguo ma non capisco, Nicole. Forse ha voluto fare questa commissione prima di togliersi la vita per…”
-“Per cosa? Per avere un accesso diretto al paradiso? Sveglia, amica mia”, m’interruppe Nicole venendomi vicino, -“qui c’è qualcosa che non quadra.”
Se c’era una cosa che avevo imparato in quel breve scambio di battute era che, sì, parlare dei tuoi problemi con qualcuno era salutare ma anche tremendamente pericoloso: la mia amica aveva appena inseminato nuovi dubbi nella mia testa, come se già non avessi la mente perennemente occupata da tutto ciò che mi circondava, da tutto ciò da cui dovevo guardarmi le spalle. Arrivai alla porta, di corsa, facendo segno a Nicole di seguirmi.
-“Di grazia –come direbbe quel cerotto umano di Jamie- dove stiamo andando? A cacciarci in qualche madornale casino?”
Aprii la porta e mi voltai a guardarla, sorridendole complice.
-“Andiamo a recuperare il pacco. Vuoi o non vuoi ricordare gli ultimi giorni di permanenza al collegio?”
Alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa; chiaramente si sforzava di reprimere un sorriso.
-“Parto tra due mesi non tra due settimane.”
Feci per ribattere quando un rumore simile ad una porta che sbatteva e a dei passi mi sostituì. Subito raddrizzammo le spalle, attizzando le orecchie. Socchiusi la porta, in ascolto.
-“Sta venendo la Delacour? Santo cielo, era nella sala degli insegnati quando sono venuta. Sarei dovuta andare via prima”, cominciò a piagnucolare Nicole, maledicendosi.
-“Shh!”, le intimai io, accucciandomi per sporgermi oltre la soglia della porta. Il corridoio era vuoto, privo di suoni e privo di ombre. Confortante direte voi, terrificante, pensai io. Nicole si appoggiò sulla mia schiena, imitando la mia postura per verificare se tutto fosse tranquillo, in modo da sgattaiolare via. In un attimo una voce colpì le nostre orecchie e, prima ancora di sentire mormorare “è la preside” da Nicole, avevo capito a chi apparteneva.
Uscimmo in punta di piedi camminando con le spalle contro il muro per evitare di gettare ombre e di svelare la nostra presenza. Mancavano solo altri due passi prima di giungere alla fine del corridoio che ci avrebbe permesso di affacciarsi nei pressi dello studio Delacour quando riconobbi anche la voce di William.
Io e Nicole ci guardammo e tacitamente decidemmo di fare capolino.
-“Mamma!”, fece lui, allarmato, protendendo le braccia in avanti come per farsi scudo mentre le sue gambe procedevano all’indietro. Jennifer –che ci dava le spalle- avanzava verso suo figlio, lentamente, mentre borbottava qualcosa che udivo appena. Mi concentrai chiudendo gli occhi e captai, con stupore e orrore, parole di una lingua che non seppi classificare; la voce della Delacour aveva un ché di ipnotico e melodico. Fu Nicole a farmi riaprire di scatto gli occhi, dandomi un colpetto sul braccio sussurrandomi “guarda”.
Prima ancora di focalizzare il punto in cui Nicole mi aveva invitato ad osservare, sentii le sue unghie conficcarsi nella carne e dei risucchi colmi di angoscia. Solo in un secondo momento mi accorsi che il braccio che stava stendendo la preside era pregno di sangue e che due delle dita erano allungate verso la fronte del figlio, anch’esse insanguinate, intente a tracciare quello che mi parve un cerchio.
-“Co-cosa gli sta facendo?”, sussurrò Nicole ma subito si coprì la bocca con le mani.
Le parole sconosciute di Jennifer salirono d’intensità nello stesso istante in cui un altro segno veniva tracciato sulla fronte di un insolito e immobile William; un secondo più tardi egli ondeggiò fino a cadere tra le braccia della madre, un macabro casquet cui avrei preferito non assistere, anche perché gli occhi di William si fissarono su me e Nicole, senza vederci davvero.
Ci ritraemmo nel medesimo istante, agghiacciate.
-“Ha ucciso suo figlio”, affermò Nicole scivolando a sedere a terra. Io scossi il capo, più per tranquillizzare me stessa che per contraddirla. Lei non mi stava nemmeno guardando, aveva le mani sulla faccia.
-“Alzati”, le ordinai pregando che non mi facesse ripetere la parola perché cominciavo a sentire la bile serpeggiarmi nella gola. Nicole si issò aiutandosi con la parete e con la mia mano.
-“Vattene di qui.”
Lei sbuffò sull’orlo di piangere, di nuovo.
-“E ti lascio sola?”
-“Cosa pensi che ci farà la Delacour se ci trovasse insieme nella mia stanza d’isolamento? –oddio, come mi viene da vomitare- non voglio scoprirlo. Nasconditi perché è l’ora del coprifuoco.”
Nicole imprecò battendosi dei pugni sulla testa, dovetti afferrarle le braccia e mordermi il labbro inferiore per impedirmi di gridare o rompere il patto con me stessa e quindi piangere.
-“Non puoi perdere la testa adesso!”, le ringhiai nell’orecchio. Mi sentivo cadere eppure c’era una primordiale forza dentro di me –tanto potente quanto inaspettata- che mi concedeva di rimanere lucida e forte.
-“Ho paura! Dannazione, ha ucciso William! Suo figlio! E’ una strega oltre che una vampira ma hai visto?”
-“Non è morto! E’ solo svenuto, se fosse morto…l’avrei capito, l’avrei sentito”, farfugliai con un filo di voce verso le ultime parole.
-“Non mi piace questa situazione, non mi…”
A quel punto l’afferrai per le braccia e la inchiodai al muro, fissandola con gli occhi sgranati.
-“Pensi che a me piaccia? Non fai che ripetere questo! Ho visto quello che hai visto tu, non ho una spiegazione per questo, okay? Vattene in camera prima che sia troppo tardi. Domani, domani mattina non cercarmi: recati in biblioteca. E’ lì che cercheremo di ragionare e di… di salvare William. O qualsiasi altra cosa”, presi respiro, -“corri!”
Nicole annuì freneticamente e schizzò via dalla mia presa, non tornai nella mia stanza fin quando non la vidi sparire oltre le scale. Dunque imitai Nicole proprio nell’istante in cui avvertii la porta dell’ufficio Delacour riaprirsi.
   
 
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