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Autore: _unintended    02/01/2015    3 recensioni
Bandit prese tra le mani una foto rovinata e ingiallita che ritraeva la sua famiglia, tutti e tre insieme seduti al divano della loro vecchia villa, quella vicina al lago, dove aveva passato tutta l’infanzia. Vide se stessa sulle ginocchia di sua madre, che la stringeva protettivamente, e vide suo padre, in tenuta militare, con quello sguardo intenso che lo aveva sempre caratterizzato fino all’ultimo istante della sua vita. Quello sguardo intenso che soltanto un’altra persona, in tutto il mondo, aveva saputo sostenere e ricambiare altrettanto intensamente. Soltanto una.
Quella sbagliata. In tutti i sensi.
"Se vuoi che non butti questi scatoloni non c’è problema, sai?"la rassicurò sua nipote vedendola così turbata.
"Sarah"
"Sì?"
"Devo raccontarti una storia."
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Bandit Lee Way, Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ebbene sì, sto approfittando degli ultimi giorni di vacanza per pubblicare più che posso, perché so già che non appena ricomincerà la scuola non avrò tempo nemmeno per accendere il pc.
Questa ff è davvero troppo importante per me. Viene fuori da un’idea mia e soltanto mia, e se la pubblico è perché ci credo davvero. Sarebbe molto più semplice pubblicizzarla su facebook o twitter o invitare tutta la gente che mi conosce a leggerla, ma in un certo senso preferisco che rimanga tutto nell’anonimato, e che la leggiate soltanto perché l’avete notata in cima alla lista delle fanfictions sui mychem, e vi abbia attirato anche solo dal titolo.
Spero che vi piaccia, e vi prego commentate, ne ho bisogno per sapere come sto procedendo e se devo correggere qualcosa.
M.
Ps. Ehi tu, sì tu, che hai aggiunto la mia storia ai preferiti… c’è un girone in paradiso(?) soltanto per te<3
 
CAPITOLO 2 – THE PARTING GLASS
 
Quando io e Mikey torniamo a casa, troviamo mamma al suo solito posto, seduta al tavolo della cucina, col suo inseparabile vestito a fiori gialli e i bigodini in testa, intenta ad ascoltare la radio. In realtà, “intenta” non è la parola giusta. Probabilmente non sta nemmeno facendo caso a ciò che stanno trasmettendo. È soltanto un suo modo per passare il tempo, per distrarsi e non pensare a nulla.
Non pensare a nostro padre.
Mikey è mio fratello. Ha quattordici anni, ma sembra molto più adulto rispetto a tutti i suoi coetanei. Forse dipende dal fatto che siamo soltanto io e lui ad occuparci di questa casa, forse dipende dal fatto che ha assistito all’abbandono di papà quando era ancora troppo piccolo per capire, o chissà forse siamo uguali e anche lui preferisce la solitudine.
So soltanto che è il mio unico migliore amico, l’unico a cui permetto di avvicinarsi e l’unico che riesce a farmi parlare senza riserve. Ed è l’unica persona per cui darei la vita, sinceramente parlando. Proprio come in quei romanzi strappalacrime, sì. Solo che al posto della donzella in pericolo c’è mio fratello, e io ho il compito di proteggerlo da tutto e tutti.
“Mamma, noi andiamo di sopra a fare i compiti” mormora Mikey avvicinandosi a nostra madre e dandole un bacio sulla fronte. Lei annuisce distrattamente e gli fa un mezzo sorriso catatonico. Io la fisso per un istante o due, e il suo sguardo si posa su di me, guardandomi come se non mi conoscesse.
“Gerard…” bisbiglia con un’aria rassegnata, continuando a fissarmi intensamente.
Dice sempre e soltanto il mio nome, ogni dannato pomeriggio che rientriamo da scuola. Non sa dire altro. È il suo modo per ricordarci che si ricorda di noi. Che si ricorda di esistere, e di avere una famiglia a carico.
Non so nemmeno come non l’abbiano ancora licenziata nella fabbrica dove lavora. E sì che il suo compito è soltanto quello di inscatolare il cibo e metterlo sui nastri trasportatori, ma di certo tutti si saranno accorti che c’è qualcosa che non va nel suo cervello, da anni a questa parte.
Non che mi lamenti. La busta paga di mamma è l’unica cosa che ci salva dal morire di fame. Almeno fino a quando non avrò terminato il liceo e non potrò portare io stesso i soldi a casa.
Al pensiero del futuro vuoto e monotono che mi aspetta, ricaccio indietro un moto di disgusto.
“Ciao mamma” dico freddamente.
E seguo Mikey di sopra.
 
 
Il giorno dopo a scuola ci sono gli allenamenti di football. Io mi siedo in un angolo sugli spalti, come sempre, e tiro fuori il mio bloc notes.
Non so perché scrivo. È qualcosa che viene dal profondo di me, un bisogno quasi fisico che non ho mai capito fino in fondo, il desiderio di posare la penna sul foglio e anche solo scarabocchiarci sopra, o scrivere frasi senza senso, o le lettere dell’alfabeto. Qualsiasi cosa io scriva, mi fa sentire bene. Ma non bene nel senso che all’improvviso ho voglia di saltellare di gioia o baciare in bocca qualcuno. Bene nel senso che le parole mi prendono per mano, e dolcemente mi accompagnano da qualche altra parte che non sia qui, in un posto dove non devo pensare a nulla, un posto senza preoccupazioni o doveri, un posto sereno.
È come se ci fosse una lastra di vetro tra me e il resto del mondo, nessuno può vedermi ma io posso vedere loro. Una lastra di separazione*.
“Ehi”
Una voce non del tutto nuova ma non ancora familiare interrompe le mie stupide fantasticherie.
Frank Iero, penso tra me, e continuo a scrivere lasciando che mi si sieda accanto.
“Nemmeno tu fai palestra?” mi chiede, con l’evidente sforzo di intavolare una conversazione.
Sospiro. “No”
Evidentemente si aspettava un “Perché tu non la fai?” che non arriva, ma lui lo prende come un incoraggiamento a parlare.
“Io sono di salute cagionevole” mi dice, come se stesse confessando il suo più grande segreto “e il dottore ha detto ai miei che non posso fare certi sport.”
Ancora silenzio, ma lui si accorge che ho posato la penna e lo sto ascoltando. Maledizione.
“Cosa scrivi?”
Alzo finalmente la testa e lo guardo dritto negli occhi. Per poco non mi prende un colpo: ha l’occhio sinistro completamente cerchiato di un viola quasi nero, e un taglio sul labbro che scorre giù fino al mento.
“Cosa ti hanno fatto?” chiedo allarmato.
Frank mi guarda sbattendo le palpebre, poi pare capire a cosa mi riferisco e abbassa gli occhi imbarazzato. “Io…”
Per un millesimo di secondo mi coglie una rabbia improvvisa, innaturale, un sentimento così intenso che mi spaventa, e vorrei soltanto spaccare la faccia a chi gli ha fatto questo.
Anche se non lo conosco affatto, anche se è sbagliato.
“Chi è stato?” continuo a chiedergli. Ho definitivamente posato il bloc notes. E complimenti Iero, ci sei riuscito. Hai tutta la mia attenzione, ora.
Lui non mi risponde, ma inevitabilmente il suo sguardo si sposta verso il campo da football, posandosi su alcuni giocatori che si stanno passando quella dannata palla.
I giocatori di football. Bene. Probabilmente lo avranno visto che non si dirigeva agli spogliatoi come tutti gli altri e avranno iniziato a prenderlo in giro.
Perché non giochi Iero? Cosa c’è, mammina non vuole?”
“Hai paura di rovinarti quel bel faccino da angioletto, o la camicetta pulita, eh?”
“Vieni qui che te lo roviniamo noi, non c’è problema”
Li conosco così bene che già immagino cosa gli avranno detto.
Lui mi sta fissando, e finalmente io lo fisso di rimando. Se solo ripenso alla sua espressione innocente e ottimista di ieri, e a come lo hanno ridotto oggi, mi viene il voltastomaco.
“Vieni con me” gli dico, alzandomi e facendogli cenno di seguirmi.
Lo porto a casa. So che sia io che lui non saremmo riusciti a resistere un altro istante all’interno di quelle quattro mura, perciò mi sembra la soluzione migliore. Frank stranamente non fa domande, non apre bocca, mi segue soltanto in silenzio sul marciapiede, mentre la gente ci fissa come se fossimo due ragazzi che hanno marinato la scuola.
Beh, lo siamo.
Alla fine, quando raggiungiamo il vialetto di casa mia e infilo le chiavi nella toppa, Frank posa una mano sul mio braccio. “Sicuro che non disturbo?” chiede preoccupato.
Guardo la sua mano pallida posata sull’incavo del mio gomito.
“Sicuro” rispondo evitando di incrociare i suoi occhi.
Non so perché non gli ho intimato di levare subito la mano, dato che non permetto mai a nessuno di toccarmi, e non so nemmeno perché sto facendo entrare un estraneo in casa mia. So soltanto quello che la mia mente mi sta spingendo istintivamente a fare, e cioè dirigermi dritto in cucina e prendere un po’ di disinfettante dalla credenza.
Frank si guarda attorno. “Carina” mormora, non sapendo cos’altro dire. Io gli faccio cenno di sedersi al tavolo e subito dopo mi siedo accanto a lui.
Deglutisco e gli passo un disco di ovatta con il disinfettante. “Premi sul labbro. Brucerà ma è necessario” dico imbarazzato, e cerco di non fissarlo mentre lo fa.
“Perché ti sei lasciato picchiare?”
Che stupida stupida domanda, Gerard. Cosa avrebbe potuto fare contro una decina di giocatori di football alti come giganti?
Ma, sorprendentemente, Frank mi risponde in modo sincero. “Io non so difendermi.” sussurra sotto il batuffolo di ovatta.
“E perché sei venuto da me?”
“Perché invece tu mi fai sentire al sicuro.”
Ed è a queste parole che il vetro che mi separava dal mondo si crepa, e crolla in un milione di pezzi ai miei piedi.
 
*”vetro di separazione” è appunto la traduzione letterale di “the parting glass”, e concorderete con me che suona dieci volte meglio in inglese, ma vbb
   
 
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