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Autore: EsseTi    02/01/2015    10 recensioni
Dominik è un pianista ceco…e cieco.
Suona il pianoforte da quando ha sei anni, e a 13 ha lasciato Praga per raggiungere Milano e studiare al Conservatorio Giuseppe Verdi.
A 18 anni è una promessa della musica, con la passione per Mozart e Chopin.
Suona il piano perché è come vedere i colori.
Vive per la sua musica, ma si ritroverà a dividere il bilocale in cui vive con Federico, un barista estroverso e terribilmente disordinato. Federico, però, gli insegnerà che i colori non sono solo nella musica.
A lui piaceva l’arancione; la mamma diceva sempre che era un po’ come il calore delle coperte d’inverno, quando fuori faceva freddo e si mettevano a dormire insieme.[...]
Gli avevano insegnato le note, l’adagio, il notturno. Gli avevano insegnato Mozart, Chopin, Bach.
Nessuno, però, gli aveva insegnato di quanto fosse bello il calore di un bacio.
Quello, doveva essere il rosso.

Revisione in corso. Ci saranno modifiche importanti.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Oggi non è che un giorno qualunque di tutti i giorni che verranno,
ma ciò che farai in tutti i giorni che verranno dipende da quello che farai oggi.
Ernest Hemingway
 

Chapter 41st:  Šťastného Valentýna (1)  
 
Sotto la luce gialla e calda del lampadario i tasti bianchi brillavano in modo quasi doloroso.
Così lisci da sembrare appiccicosi, opponevano una insospettabile resistenza alla pressione del polpastrello. La nota che ne venne fuori era più acuta di quanto si aspettasse.
Federico ritirò la mano con uno scatto nervoso.
Si sentiva come se avesse violato qualcosa.
Seduto sulla panca troppo dura, dietro quel pianoforte nero e imponente, il cuore gli batteva nel petto rimbombando come in una stanza vuota.
Non ne aveva mai toccato uno così da vicino, non lo aveva mai suonato: aveva immaginato che sarebbe stato diverso, leggero come premere un cuscino, con una sensazione di onnipotenza e importanza. Invece, gli sembrava di essere un ragazzino di fronte ad una montagna: si sentiva piccolo, con le spalle deboli, e quei tasti che quasi si opponevano a lui, che rimbalzavano come delle molle sotto i suoi polpastrelli.
Fece scorrere le dita lungo le lettere dorate che ne indicavano il marchio: Steinway & Sons. Brillavano, contrastando elegantemente con il nero lucido che ne costituiva la base.
Dominik sarebbe tornato di lì a poco dalla sua lezione del pomeriggio.
Gli sarebbe piaciuto farsi trovare lì, dietro al pianoforte, assorbito nel suo mondo: eppure c’era una parte della sua anima che lo faceva sentire sbagliato, lì, come se stesse violando un luogo sacro e una serie di spilli lo stesse pungendo sulle cosce.
Era la sera di San Valentino: al tg non avevano fatto che parlarne tutto il giorno, in giro per le strade era tutto un tripudio di cuoricini e cioccolatini, e lui si era già rotto le palle. In realtà gli sarebbe piaciuto portare Dominik a cena fuori, sfiorare la sua mano poggiata sulla tovaglia colorata di un ristorante, godersi il sapore di un buon vino sulle labbra, e poi portarlo a casa e baciarlo contro la porta per non aspettare di essere dentro, di arrivare al salotto o alla camera da letto.
Premette un altro tasto, ne venne fuori una nota più grave.
Probabilmente non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo: l’idea di essere guardato in quel modo, quel misto di commiserazione e sdegno, dagli altri, gli provocava già un brivido lungo la spina dorsale che lo faceva sudare freddo. Si sarebbe sentito a disagio, incapace di avvicinare le dita a quelle di Dominik, anche solo di guardarlo: e allora si sarebbe innervosito, e la loro serata sarebbe finita da schifo. Piuttosto, sarebbe stato molto meglio attenersi al piano originario: preparargli la cena, tirare fuori il dolce al cioccolato che aveva comprato per lui e poi trascinarlo sul divano e farci l’amore per tutta la sera.
Federico fece scorrere tutte le dita sui tasti del pianoforte.
L’ultimo San Valentino lo aveva trascorso a cena con i suoi genitori, a guardare la televisione, fino a che non era uscito fingendo una serata tra amici come tante: si era appartato con Manfredi nei pressi di un parcheggio deserto, avevano mangiato un gelato del McDonald e avevano fatto l’amore. Gli era piaciuto, in fondo: anche se aveva infantilmente invidiato, con ogni fibra del proprio corpo, le coppie che si erano scambiate auguri sdolcinati al tavolo di un ristorante, non gli era importato di altro che non fosse stato il corpo di Manfredi contro il suo, nel buio della strada deserta. Adesso, a distanza di un anno, gli sembrava di guardare i propri ricordi come se appartenessero ad un altro: li sorvolava, svolazzava lontano, in alto, e li sentiva diversi. Avvertiva, con il senno di poi, come gli ultimi ricordi con Manfredi fossero differenti da quelli leggeri e delicati delle prime esperienze, come se il tempo, e il male che si erano fatti, avessero sfilacciato il sentimento che li legava, imbruttendolo.
Lo scatto della porta lo fece sobbalzare, portandolo ad alzarsi immediatamente in piedi: fece due passi lontano dalla panca prima ancora che la porta di casa si aprisse del tutto.
- Federico? –
Dominik comparve sulla soglia come il protagonista di un film, solo meno etereo e più disordinato: i capelli spettinati, il giubbotto abbottonato male e lo zaino caduto lungo un braccio, mentre tentava di tirare fuori le chiavi dalla toppa. Federico si sentiva finalmente un po’ più a casa, come se qualcosa fosse ritornato al proprio posto: ingenuamente, aveva ricercato la stessa sensazione sedendosi dietro al pianoforte durante la sua assenza, come se quello strumento avesse potuto assorbire l’essenza di Dominik mentre lui lo suonava, per poi restituirla pian piano attraverso la superficie lucida.
- Sei tornato – disse, non riuscendo a trattenere un sorriso.
Avrebbe voluto farsi avanti per aiutarlo, ma sapeva che Dominik avrebbe tirato fuori un’espressione stizzita e avrebbe arricciato le labbra, così lasciò perdere: lo vide riuscire a sfilare le chiavi dalla toppa, chiudersi la porta alle spalle e allo stesso tempo fare scivolare lo zaino sul pavimento, aprendo il giubbotto con un unico strappo. Si muoveva in modo confuso, come un bambino affrettato.
- Ho una fame tremenda – lo sentì borbottare, appendendo malamente il giubbotto all’ingresso e avvicinandosi alla cucina. Federico si mosse nella stessa direzione per intercettarlo, arrivando sulla soglia poco prima di lui: Dominik, quando avvertì la sua presenza proprio davanti a sè, gli diede un colpetto sul petto, divertito. Aveva la punta del naso rossa per il freddo, e le labbra screpolate. – Dai, ho fame – si lamentò, quasi sbattendo i piedi, eppure aveva teso il capo verso l’alto, le labbra dischiuse come a chiedere un bacio.
- Che c’è? – gli chiese lui, fingendosi interrogativo. Dominik non rispose, ma batté un piede sul pavimento aggrappandosi al suo maglione, spazientito. Quando vide che Federico tentennava, diede un altro strattone al maglione. – Ah, vuoi un bacio? Ma non avevi fame? – continuò, prendendolo un po’ in giro. Dominik sbuffò, e stava quasi per cedere e superarlo quando Federico lo afferrò per le spalle, avvicinando il viso al suo. – Baciami tu – lo provocò. – Ho pensato per tutto il pomeriggio a te che tornavi dalla tua lezione e mi venivi a baciare. – Non gli sfuggì il rossore che gli colorò la base del collo, ma non se ne curò quando, a sorpresa, le labbra di Dominik cercarono le sue, e le sue mani, ancora fredde per il contatto con l’esterno, gli si poggiarono sul collo.
Dischiuse le labbra, per averne ancora un po’ di più, e gli poggiò le mani sulla schiena, per averlo più vicino: aveva il corpo tiepido, avvolto da un maglione troppo ingombrante.
Avrebbe voluto spogliarlo subito, assaporarne non solo le labbra, ma tutta la pelle, e farci l’amore così tante volte da recuperare tutto il tempo perduto.
Un sospiro di Dominik gli giunse all’orecchio quando lo sfiorò su un fianco da sotto il maglione.
- Hai ancora fame? –
Federico si aspettava che gli avrebbe detto di no, che non volesse far altro che restare lì e baciarlo fino all’indomani. Invece, piccato e orgoglioso, il ragazzo lo lasciò andare subito.
- Mh mh – gli rispose a tono.
Insopportabile ragazzino, avrebbe dovuto afferrarlo e morderlo dovunque piuttosto che darla vinta a lui e alla sua espressione di soddisfatta vendetta.
Invece, Federico si fece da parte sorridendo, e lo vide scattare subito in avanti, avventandosi sul frigo: ci infilò dentro entrambe le mani, tirando fuori una confezione di prosciutto e un pezzo di formaggio.
- E’ quasi ora di cena – gli fece notare Federico, con un tono di rimprovero che gli ricordò terribilmente sua madre. Dominik ci pensò su soltanto pochi secondi, poi, con uno sbuffo, rimise tutto dentro il frigorifero, chiudendo l’anta con insofferenza. Dal ripiano della cucina afferrò una mela.
- Dobře (2) – borbottò. A Federico venne da sorridere di fronte a quell’espressione affranta eppure divertita, anche se sentirlo parlare nella sua lingua gli provocò una stretta allo stomaco, come tutte le volte. Avrebbe dovuto afferrarlo e baciarlo subito. Si sentiva stranamente malinconico, rallentato, con la sola voglia di essere assorbito da lui e smettere di pensare.
Quando addentò la mela, Dominik arricciò il naso per imprimere più forza, staccandone un grosso pezzo. Le dita si chiusero intorno al frutto con più forza, in un impercettibile movimento delle nocche: avevano delle linee sottili e morbide, e il colore pallido e roseo della gente dell’est.
Nella mente di Federico ritornò l’immagine dell’unica volta in cui si erano trovati veramente fuori insieme, al colore viola così chiaro del maglioncino di Dominik, alle sue dita che sporgevano da sotto le maniche e che si stringevano intorno alle posate.
Adesso avrebbe potuto prendergli la mano lì, sul tavolo coperto da una tovaglia colorata, tra i piatti e le posate, senza farsi troppe paranoie sui sentimenti, sul loro rapporto, su cosa diamine stesse succedendo, su cosa fossero o non fossero: avrebbe semplicemente potuto spingere le dita fino a incontrare quelle di Dominik. Stringerle e basta.
- Federico? –
- Mh? –
- Perché ti perdi? –

Quella sera, la mano di Dominik si era poggiata con naturalezza sulla sua, mentre parlava, mentre lui non aveva avuto il coraggio nemmeno di sfiorarlo, ed era stato come ricevere un colpo dritto sulla testa, che lo aveva confuso. Erano stati fuori, a fare una passeggiata, e lo aveva avuto vicino come mai da che lo conosceva: adesso, gli pareva quasi di risentire la sua pelle fredda contro il palmo della mano.
- Sabato parto, e voglio guardare la televisione con te prima di partire. –
- Fai il sentimentale, Dom? Cos’è, un modo cazzuto e orgoglioso per dire che sentirai la mia mancanza almeno un po’, tra tutta quella musica che hai nel cervello? –
- Se anche fosse? –
- Lo prendo come un sì. Nella tua lingua, se non è no, allora è sì, anche se non sembra. –
- Lo prendo anche io come un sì, allora. Perché nella tua lingua è sì quando non dici niente. –

Si era sentito bene come non gli capitava da anni, o forse da mai: non si era mai concesso tutta quella libertà, a Palermo. Cenare fuori, fare una passeggiata, stringersi la mano tra le vie quasi deserte della sera.
- Tu fai un sacco di cose per me, ma ho la sensazione che non lo sai nemmeno tu il perché lo fai. -
- Ti va di andare a cena fuori? –
Le parole gli uscirono prima che avesse il tempo di tapparsi la bocca e stare zitto: e lo fece così repentinamente che Dominik ci mise un po’ ad afferrare il senso della domanda e a collocarla nella conversazione. Federico ne studiò le espressioni, perché, nel suo caso, parlavano sempre più delle sue parole: nel viso di Dominik passarono, una dopo l’altra, la sorpresa, l’indecisione, la preoccupazione, fino a che non aggrottò la fronte.
- Perché? –
Federico rimase spiazzato per un attimo: si sarebbe aspettato una risposta, negativa o positiva che fosse, o magari una richiesta di chiarimento. Ma di sicuro non che gli chiedesse il perché.
Non lo sapeva neppure lui, esattamente, il perché: fino a mezz’ora prima era fermamente convinto che sarebbero rimasti a casa, a mangiare un dolce e guardare uno stupido film alla tv, ma improvvisamente era cambiato qualcosa. Perché vaffanculo a Palermo, a Manfredi, ai sette anni di relazione nascosta, alla gente di Milano e a tutto il resto: voleva sentirsi libero di cenare fuori, sedersi al tavolo di un ristorante con Dominik, anche se non avrebbe potuto baciarlo o accarezzarlo, ma almeno viverlo fuori dalle quattro mura di quella casa.
- Perché mi va – farfugliò così, spiazzato. – Però se non vuoi non fa niente…Non ci sono mai andato, a cena fuori per San Valentino, sopravvivrò ugualmente. Non è mica obbligatorio – continuò, stringendosi nelle spalle. Non riuscì a nascondere del tutto il tono deluso della voce, e non perché Dominik si fosse rifiutato di andare a cena fuori per San Valentino, ma semplicemente perché si era rifiutato di uscire con lui. Di nuovo, come se fossero tornati indietro a qualche mese prima. O forse, più semplicemente, era rimasto deluso perché aveva già iniziato a sentire sulla punta della lingua il sapore dolciastro della serata che avrebbero trascorso insieme.
- Non lo so – sentì Dominik soffiare, seriamente indeciso.
- Guarda che sul serio non importa – insistette.
Dominik non finì neppure di mangiare la mela, gettandola tra i rifiuti.
Si muoveva in modo nervoso, dando dei colpetti con il piede sul pavimento che trasmettevano una vibrazione a tutto il corpo. I capelli spettinati non erano altro che una matassa sulla testa e ai lati del viso: se ci avesse infilato una mano ci avrebbe trovato dei nodi, ma sarebbero stati terribilmente morbidi.
Federico tese le mani in avanti, per poggiarle ai lati del suo viso e spingerlo in alto a rubargli un bacio. Le labbra di Dominik erano un po’ ruvide e screpolate, restie a baciarlo, come se il nervosismo dal piede si fosse trasmesso a tutto il resto del corpo, oscurandogli anche la mente. Probabilmente pensava che si fosse arrabbiato per il rifiuto: in verità, davvero non gli importava granchè di una cena fuori in mezzo a tutto il caos di gente che si affollava nei ristoranti per San Valentino. Lo aveva proposto colto dall’entusiasmo del momento, ma stava già iniziando ad assaporare l’idea di trascorrere una serata a letto:  adesso che ci pensava, gli sarebbe piaciuto preparare qualcosa che avrebbero potuto mangiare anche a letto, per non perdersi nemmeno un attimo. Sarebbe stato un San Valentino idilliaco.
- Preparo la cena, dai – disse poi. - Prima vuoi fare la doccia? –
Dominik scosse il capo.
- La faccio dopo – mormorò. Gli sfuggì subito dalle mani, lasciando la cucina per dirigersi verso il salotto. Probabilmente gli era venuta voglia di suonare: a Federico piaceva cucinare con in sottofondo le note del pianoforte, anche se il più delle volte Dominik si interrompeva continuamente perché non era mai abbastanza soddisfatto.
Iniziò a cucinare immediatamente, con l’intenzione di preparare una frittata e una ricca insalata: aveva già sbattuto le uova, iniziato a cuocere gli spinaci e i cubetti di prosciutto, e stava per tagliare l’insalata, che ancora la casa era assolutamente avvolta dal silenzio. Quando si sporse oltre la soglia, per osservare il salotto, Dominik non era dietro al pianoforte: lo trovò, invece, sul divano, con il corpo completamente sprofondato tra i cuscini e  le braccia conserte.
Il maglione che indossava gli era risalito lungo un fianco, ma non se ne era curato: Federico rimase a guardare il triangolo di pelle chiara lasciata scoperta, immaginando di toccarla, o di baciarla. Se ci avesse poggiato le labbra, Dominik avrebbe avuto un sobbalzo, e magari lo avrebbe afferrato per le spalle, nel timido tentativo di respingerlo, prima di cedere.
Avrebbero potuto fare l’amore lì, sul divano, e lui non gli avrebbe detto di no.
- Non suoni? – lo chiamò.
Dominik non gli rispose. Semplicemente, fu come se non lo avesse nemmeno sentito: restò lì, seduto, il capo reclinato indietro e i capelli biondi ad accarezzargli la fronte.
Era terribilmente dolce visto a quel modo, e allo stesso tempo c’era qualcosa di lussurioso nel modo in cui se ne stava abbandonato.
Federico tornò a fare attenzione in cucina, ma avvertiva una strana tensione a livello dello stomaco, come una lieve morsa: cercava di convincersi che fosse tutto normale, che non fosse successo niente. D’altronde, Dominik pareva tornato di ottimo umore dal Conservatorio: sembrava cambiato solo nel momento in cui aveva proposto di andare a cena fuori, ma sul serio a lui non era importato nulla che gli avesse detto di no. Nonostante fosse razionalmente convinto che non fosse accaduto nulla di male, Federico finì di preparare la cena accompagnato ancora da quel senso di inquietudine: così lasciò l’insalata sul ripiano della cucina, e infilò la frittata nel forno, che avrebbe fatto tutto da sola.
Tese di nuovo lo sguardo fuori dalla cucina. Dominik era sempre nella stessa posizione.
Federico gli si avvicinò, con l’intento di accarezzarlo proprio lì, dove i capelli gli sfioravano il viso. Invece, quando fu abbastanza vicino, proprio di fronte a lui, si inginocchiò, poggiandogli le mani sulle ginocchia:  in quella posizione, doveva alzare un po’ la testa per vederlo in viso, e lo sguardo poteva seguire il pomo d’Adamo e la linea della mandibola. Persino le labbra, viste dal basso, parevano più piene. Sotto le mani, le ginocchia di Dominik risultavano terribilmente ossute.
- Che c’è? – lo chiamò, ma l’altro non rispose ancora.  – Non sono arrabbiato, davvero. Non mi importa niente di andare a cena fuori, pensavo solo che potesse farti piacere. Sinceramente, preferiscono restarmene qui a casa con te – confessò, avvertendo un lieve fremito d’imbarazzo lungo la schiena, che si concretizzò nella necessità di sentire sulla pelle le mani di Dominik, in una carezza. Per attirarne l’attenzione, con naturalezza, gli fece scorrere le mani in alto, lungo le cosce.
Fu in quel momento che Federico avvertì qualcosa che si spezzava.
Fu nel modo in cui Dominik gli afferrò i polsi e lo spinse indietro.
Fu nella sensazione di freddo che gli avvolse prima le mani e poi tutto il corpo che Federico sentì mancare il respiro. Era come se qualcuno lo avesse colpito con un calcio e lo avesse rispedito indietro, a quando non faceva che cozzare contro le mura che Dominik si era costruito intorno.
- Si può sapere che hai? – si lasciò sfuggire allora, più brusco di quanto avrebbe voluto essere.
Dominik scosse il capo, ma non parlò.
La sorpresa, l’irritazione e quel senso di ingiustizia che covava  nel petto si stavano concretizzando in un unico sentimento che lo tormentava, proprio all’altezza del petto.
Non lo capiva, e questo gli faceva quasi pulsare la testa.
Eppure, prima che sbottasse, preda della propria impulsività, Dominik fece un gesto apparentemente impercettibile: si passò le mani sul viso, fino alla fronte, e poi giù lungo le guance.
- Io sono arrabbiato. Non lo sopporto – soffiò, alla fine. Federico sentì la frustrazione nel tono della sua voce, nel modo in cui arricciò le labbra e diede un colpo al bracciolo del divano. Inginocchiato ancora di fronte a lui, questa volta non lo toccò, perché l’umiliazione di essere stato respinto bruciava ancora. Dominik sbuffò, come se fosse spazientito da qualcosa. – Non ho più il controllo su niente! Era tutto perfetto, prima. La maestra mi rimproverava, ma mi spronava, la musica aveva un senso, riuscivo a disegnarla, a metterci dentro qualcosa. -  Federico non disse nulla, perché se lo avesse fatto, era certo che Dominik avrebbe smesso di parlare. – Adesso lei mi tormenta, mi dice che non sono concentrato, che non sono degno di suonare in quel Conservatorio, che sono una persona diversa perché sono un deprivato – mugolò. – Ma io sono degno, più di quanto non lo sia la metà dei musicisti vuoti che ci sono lì dentro! E il fatto che mi piaci tu non vuol dire che io sia diverso, sono sempre la stessa persona, è sempre la stessa musica. Ma lei me la strappa, Federico. E’ come se io stessi ricamando una bella coperta calda e colorata e tutte le volte arrivasse lei, sul più bello, e ne tirasse via un pezzo, lasciandoci un buco. – La voce di Dominik, nonostante la frustrazione e la rabbia, suonava ancora melodiosa, con un so che di malinconico, come una melodia di Einaudi. Non se ne rendeva conto, ma tutto in lui era musica: era nel modo in cui si muoveva quando parlava, in cui si stropicciava i capelli, nell’inflessione che assumeva la sua voce quando pronunciava il suo nome. Dominik era musica, e nessuna maestra bigotta sarebbe mai riuscita a strappargliela dalle ossa. Federico avrebbe voluto tendere le dita in avanti per toccarlo sul viso: pensò che se lo avesse accarezzato adesso, lui non l’avrebbe più respinto. – Non mi sta bene, così – lo sentì soffiare poi, stizzito. - La musica non deve avere costrizioni, me l’ha insegnato la mamma. E anche la maestra: ma adesso è lei che dice il contrario. Se la musica non ha costrizioni, come puoi esserlo tu? Cosa ci sarebbe di diverso se tu fossi una ragazza? La musica avrebbe sempre lo stesso suono. –
- Non devi ascoltarla su questo, Dom. Lei ha le sue idee, come la maggior parte della gente omofoba che c’è in giro. Non puoi fare niente per farle cambiare opinione. Quello che puoi fare è non starla a sentire. Lei insegna musica. Ascoltala solo su quella. –
- Ma non è giusto! Anche se io non la ascolto, so che cosa pensa, so che è così, e la musica mi sfugge! E mi fa arrabbiare il fatto che non riesco più a controllarla, e anche il fatto che non riesco a dirti di andare a cena fuori perché non sopporterei di essere guardato a quel modo. –
- Quale modo? -
- Come Rafael. Come la maestra. -  La voce gli si incrinò proprio sull’ultima parola, e reclinò il capo indietro, il pomo d’Adamo a svettargli sulla gola.
Poggiate sui cuscini del divano, le dita gli tremavano: a Federico ricordò quella volta che, tornato dal lavoro, lo aveva trovato sconvolto, proprio lo stesso giorno in cui aveva cozzato contro la realtà, contro Rafael e contro la propria insegnante. E come quella volta, Dominik gli sfuggiva come un gatto selvatico, si arrabbiava, la realtà sfuggiva al suo controllo.
Aveva fatto male a pensare che lo avesse superato, che il fatto di non parlarne fosse sinonimo di un trauma ormai lasciato alle spalle. Aveva sbagliato persino a lasciare che facesse tutto da solo, nonostante fosse stato lui stesso a pregarlo. Forse non avrebbe dovuto: forse avrebbe dovuto strattonarlo, spingerlo a parlare, avrebbe dovuto capirlo che una persona come lui, da sola, non potesse sopportare tutto quello schifo senza esplodere.
Federico afferrò entrambi i polsi del ragazzo prima che tornasse a inveire: ne avvertì immediatamente la resistenza, mentre Dominik cercava di scacciarlo di nuovo, ma strinse più forte la presa.
- Dominik – lo chiamò. Il ragazzo si fermò subito, le labbra dischiuse. Avrebbe potuto dirgli qualsiasi cosa, invece lo lasciò andare, prendendogli il viso tra le mani, cogliendolo di sorpresa. Quando gli si avvicinò, poggiando la fronte sulla sua, Dominik sussultò. – Basta. Smettila. –
Federico pensò a come sarebbe stato baciarlo mentre era preda di quella furia frustrata. – Andremo a cena fuori, anche se non oggi. Nessuno ci guarderà in nessun modo, e se lo dovessero fare…che se ne vadano a fanculo. –
Dominik mosse il capo indietro, per sfuggire alla sua presa, ma Federico strinse più forte, le dita affondarono nelle guance dell’altro.
- Parli così adesso. Hai dimenticato cosa dicevi prima? Dicevi le stesse cose. Vorrei vedere te al mio posto – gli sibilò, tagliente. Federico accettò quella stilettata senza mollare la presa.
- Io al tuo posto avrei fatto un casino, al Conservatorio. Avrei pianto, avrei sbraitato, probabilmente avrei spaccato una o due sedie. Poi mi sarei chiuso in casa, non avrei voluto vedere nessuno, e avrei lasciato che tutto andasse a rotoli – gli disse, depositandogli un bacio sulla fronte. La pelle di Dominik adesso era bollente, quasi bruciava. – Io al posto tuo avrei fatto veramente schifo – confessò. – Ma tu no. Tu hai pianto, hai urlato, ma il giorno dopo hai mandato ancora avanti la tua vita e te ne sei fregato. Non ne hai più nemmeno parlato, sei andato avanti da solo, e basta. E’ così che si fa. –
Lo lasciò andare, e questa volta Dominik non arretrò: rimase lì, la schiena dritta, seguendo quasi con il capo le sue mani che si allontanavano, perso in quell’istante. Ma Federico rimase con il viso vicino al suo, perché se ne stava teso nell’attesa di un bacio, come se da un momento all’altro Dominik potesse spingersi in avanti e catturargli le labbra.
- Ho fatto tanti sacrifici per arrivare fino a qua, Federico. C’era la musica, e solo quella: era già così, suonava e usciva fuori, ma non era perfetta. Nemmeno adesso è perfetta, ma ogni giorno sembra salire un po’ più alto, è sempre un po’ più perfetta. E non posso permettere a niente di rovinarla. – Federico seguì con lo sguardo i contorni delle labbra di Dominik, mentre parlava, e si lasciò catturare dal tono morbido della sua voce. Era così concentrato che non si accorse della mano che gli si avvicinava al viso, fino a poggiarglisi sulla guancia: i polpastrelli ne percorsero il profilo, dal sopracciglio lungo lo zigomo, in basso fino alle labbra, e poi di lato, seguendo una linea immaginaria che li portò fino a sfiorare il lobo dell’orecchio. - Questo Conservatorio è la mia unica possibilità di non restare bloccato in Repubblica Ceca, ma di arrivare  ancora più in alto, e di non essere mai cieco. –
Se avesse voltato il capo solo un po’, avrebbe potuto baciargli il palmo.
Lo fece, e Dominik lo lasciò fare.
- Tu suoni come poche persone riescono a fare. - gli disse, le labbra ancora a sfiorargli il palmo della mano. - Non è soltanto una questione di studio, è il modo in cui lo fai. Ci metti sempre qualcosa per migliorare, suoni sempre con un obiettivo, e non ti stancherai mai di suonare da qui ai prossimi cent’anni. Questa è una cosa che non tutti hanno e che non si insegna in nessun conservatorio. Tu ce l’hai, suoni per te, e non per gli altri o per i soldi o per diventare famoso. Nessuna maestra te lo potrà togliere, anche se ti dovesse tormentare per i prossimi dieci anni. –
Dominik scosse il capo, ritirando la mano, ma non lo fece del tutto: la fece scorrere lungo la spalla di Federico, poi lungo il torace.
- Ma lei mi distrae. Mi tormenta, mi rimprovera, mi assegna decine di esercizi senza mai permettermi di suonare quello che voglio, o di inventare una musica che mi piace. –
Federico gli prese il viso tra le mani nello stesso istante in cui la sua mano lo sfiorava all’altezza dello stomaco e gli provocava una fitta: Dominik reagì dischiudendo le labbra in un’espressione sorpresa.
- E allora suona, fai quei dannati esercizi davanti a lei. Studia, diplomati, diventa un grande musicista e zittisci quella vecchia bigotta del cazzo! – Sull’ultima affermazione, Dominik accennò un sorriso sinceramente divertito, scoprendo i denti. Le mani di Federico, ai lati del suo viso, gli finirono tra i capelli: come si aspettava, erano morbidi, ma pieni di nodi, perché lui non faceva che passarci le mani, quando era nervoso. - Dom, non possiamo cambiare quello che tutta la gente pensa. Anch’io ho paura. Una paura fottuta, a dire il vero – aggiunse. – Ma tu sei andato avanti, perché ne valeva la pena. E chi se ne fotte se oggi non andremo a cena fuori! – Si sporse in avanti, perché il calore della pelle di Dominik lo attraeva come la fiamma per una falena, e quando finalmente poggiò le labbra sulla sua pelle, all’altezza della clavicola, lo sentì sobbalzare. – D’altronde, io cucino molto meglio di tutti quegli chef, vero? –
Dominik si strinse su se stesso, come una tartaruga che si richiudeva nel guscio: lo faceva sempre, quando lo baciava in quel punto, perché gli provocava un fremito che non sopportava di mostrare.
- Ma insomma – lo sentì rispondere, in un borbottio. Federico lo morse a tradimento, proprio sopra la clavicola, affondando i denti in un punto che trovò più morbido, piano, ma abbastanza da fare protestare il ragazzino.
- Come ma insomma? – lo rimproverò. – Se è così, d’ora in poi potrai morire di fame! –
- Pazienza – gli rispose a tono, stringendosi nelle spalle.
Aveva assunto un’espressione divertita e furbetta, come i bambini dopo una marachella.
Federico mosse le mani, per raggiungerlo da qualche parte e pizzicarlo, ma Dominik lo anticipò abbastanza da spingersi con il corpo di lato, scivolando lungo il divano: riuscì a intercettarlo solo perché uno dei cuscini, sistemato male, gli imprigionò un piede, rallentandolo quanto bastava affinché potesse afferrarlo e spingerlo di nuovo sul divano, imprigionandolo del tutto con il corpo sotto il proprio. Poteva guardarlo dall’alto adesso, studiare il modo in cui i capelli gli si erano spettinati ulteriormente.
Il movimento gli aveva stropicciato tutti i vestiti, e il maglione era risalito lungo i suoi fianchi, scoprendo la pelle chiara. Federico non resistette alla tentazione di toccarlo lì, lungo un fianco: come un gatto, al minimo tocco il corpo di Dominik si bloccò, lasciandosi accarezzare. Durante un respiro più profondo degli altri, la gabbia toracica si tese tanto da rivelare la sporgenza dell’arcata costale: Federico passò le dita anche lì, e poi più in basso, nella depressione lungo il fianco.
Si chinò, per baciare la pelle come aveva immaginato di fare diversi minuti prima, quando lo aveva visto seduto da solo sul divano, le braccia conserte e il viso teso. Quella stessa tensione pareva averlo abbandonato, a vederlo così, sdraiato, a lasciarsi baciare lungo un fianco.
- Sei ancora arrabbiato? – chiese Federico, le labbra a sfiorare la pelle di Dominik, che  non rispose fino a quando il viso dell’altro non risalì fino a lui, per baciarlo. Si lasciò anche baciare, prima di scuotere il capo.
- No. Adesso no. – Non era arrabbiato, ma a Federico non sfuggì la lieve tensione che trapelava dal modo in cui respirava. - Con te non sono arrabbiato – aggiunse poi, muovendo le mani per toccargli il viso e studiarlo. Aveva messo le dita proprio in quel modo, quello che usava per seguire i lineamenti del suo volto e capirne le espressioni: ma quando fu abbastanza vicino alle labbra, Federico si voltò all’improvviso, imprigionando una di quelle dita tra le labbra. Dominik la ritirò velocemente, sorpreso, e il movimento produsse un caratteristico e lieve risucchio che gli colorò le guance di rosso. - Tu sei arrabbiato? –
- Perché dovrei essere arrabbiato? –
- Perché non voglio mai uscire. – Il tono della sua voce si era fatto più dolce e carezzevole, quasi seducente, come se stesse inconsapevolmente cercando di ammaliarlo e rabbonirlo. In realtà non sarebbe nemmeno servito, gli girava già la testa. -  Nemmeno se oggi è San Valentino. -  Federico si chinò sulle braccia, per baciarlo.
- Non me ne frega proprio niente di uscire. Non me ne frega niente neppure di San Valentino, o della cena. – Intercettò la mano di Dominik prima che potesse toccarlo di nuovo, imprigionandola sul divano, sopra la sua testa: lui oppose resistenza, ma lo lasciò fare quando lo baciò ancora, sfruttando il fatto che avesse dischiuso le labbra per protestare, stizzito, orgoglioso e insopportabile. Federico si sentiva quasi potente, per quella piccola rivincita: eppure era già più debole, perché agognava un contatto che non arrivava, immaginava le mani di Dominik che lo spogliavano e invece quelle erano sempre ferme lì, lontane.
Si allontanò da lui solo per un momento, mettendosi seduto, ma non interruppe il contatto, trattenendolo per un polso. Sdraiato a quel modo aveva sentito quasi come se gli mancasse l’aria, e aveva avvertito il bisogno di stare seduto per un po’, e di averlo incollato addosso.
- Vieni – lo chiamò, accompagnando le parole ad un lieve strattone. Apparentemente docile, Dominik si mise seduto, le braccia tese in avanti, e si lasciò abbracciare: lasciò che Federico gli sfiorasse i fianchi, insinuandogli le mani sotto al maglione. A sorpresa, innervosito dalla posizione scomoda che lo costringeva a puntellarsi sulle ginocchia con il busto teso in avanti per riuscire a farsi abbracciare, Dominik gli salì a cavalcioni sulle gambe, e fu come ricevere una coltellata con un ferro rovente proprio tra le gambe. Senza pensarci, Federico lo ghermì per i glutei, avvicinando il suo corpo per farlo aderire al proprio, e trovò in quel gesto un non so che di animale che gli provocò un brivido lungo la schiena, e un sospiro profondo quando il bacino di Dominik strusciò proprio lì, in corrispondenza del cavallo dei suoi pantaloni.
Dominik arrossì in un attimo, alla base del collo e sulle orecchie, eppure c’era qualcosa di diverso rispetto a prima: era tutto non modo in cui reclinò il capo indietro, distendendo la gola, e liberandosi in un sospiro. Federico gli catturò il pomo d’Adamo in un bacio.
- Vuoi ancora andare a cena fuori? –
Dominik non rispose, non lo faceva mai, ma scosse il capo quanto bastava perché valesse come una risposta. Federico ne approfittò per sollevare il maglione, con l’intento di sfilarglielo dalla testa, ma non ci riuscì, perché le mani del ragazzo arrivarono di nuovo a fermarlo. Pensò, per un attimo, che non volesse essere spogliato, o toccato, ma sembrava impossibile dalle reazioni del suo corpo. Invece, fu con una stretta alla gola che vide Dominik stringere il bordo del maglione con entrambe le mani e tirare verso l’alto, per sfilarlo: ammirò,  quasi con sacra adorazione, la pelle che si scopriva, il torace disteso, la sporgenza delle coste e la lieve peluria sulla pancia. C’era un non so che di languido ed erotico anche nel modo in cui, sfilatosi il maglione, Dominik abbassò le braccia e lasciò cadere l’indumento sul pavimento, togliendolo da una delle braccia con uno strattone: Federico studiò la linea delle spalle, quella dei bicipiti appena accennata e quella più morbida dell’avambraccio, fino alle mani. Non resistette alla tentazione di poggiare entrambe le mani su quella pelle nuda: la pancia, i fianchi, infine la schiena. Gli depositò un bacio sulla clavicola, insieme a un sospiro.
- Federico? –
Suonava come un richiamo, o una preghiera.
Era musicale, erotico, e animale.
Quando le mani di Dominik finirono sulla cerniera dei suoi pantaloni, Federico reclinò il capo, a occhi chiusi.
 
 
§§§
 

La luce sul soffitto dell’auto era difettosa da sempre.
Ci volevano almeno tre tentativi e dieci minuti a smanettare con l’interruttore per poterla spegnere, e non faceva che accedersi da sola tutte le volte che avviava il motore.
Mattia sbuffò, dandole un colpo più vigoroso che produsse un lieve scricchiolio. Quando premette di nuovo il dito sull’interruttore, finalmente calò il buio.
- Era ora – borbottò, accompagnando l’espressione ad un gesto della mano di palese frustrazione.
Era nervoso, e irritato, e tutta un’altra serie di cose che fondamentalmente lo rendevano incazzato e basta. Aveva lavorato tutto il giorno per un branco di idioti ricconi il cui unico cruccio era se acquistare un atomizzatore rosa o pesca, o preferire un aroma alla vaniglia o al ginseng per le loro belle sigarette elettroniche con le quali amavano pavoneggiarsi, salvo poi accendersi una bella sigaretta di nascosto da mogli e colleghi. Inoltre, la ragazza che lavorava per lui era riuscita a far inceppare la cassa proprio dieci minuti prima della chiusura, costringendolo a implorare il tecnico di raggiungerli per ripararla e irritando non poco i tre clienti in attesa. A tutto questo, come un ronzio fastidioso e continuo nella testa, si aggiungeva la consapevolezza che Samuele continuasse a ignorare i suoi sms: lo pungolava nell’orgoglio, e lo avvelenava, l’idea di essere stato messo da parte a quel modo, la consapevolezza che tutto quel casino avesse irrimediabilmente cambiato le cose proprio quando era arrivato ad un passo dall’afferrarlo e dargli uno strattone.
Così, con quella che chiunque avrebbe definito una bella faccia tosta, Mattia aveva comprato una bottiglia di vino rosso e aveva parcheggiato l’auto sotto casa di Samuele, con la chiara intenzione di costringerlo a non ignorarlo. Per lui, ignorare Samuele era diventato impossibile: si sorprendeva a riconoscere il profilo delle sue mani in quelle dei sui clienti, o il profumo della sua pelle nell’aria, per non parlare di tutte le sere in cui, annoiato a morte da una conversazione noiosa con un parente o un amico, la mente non si imbarcava nel ricordo della notte che aveva trascorso con lui.
Gli era sembrato di sentire qualcosa, nel modo in cui Samuele lo aveva salutato prima di chiudergli la porta alle spalle, come se avesse voluto dirgli alcune cose, trattenerlo, rubargli un altro bacio.
Invece non era successo niente.
Samuele era sparito, e se non lo avesse conosciuto un tantino avrebbe pensato di essere stato liquidato come una scopata passeggera. Invece lo conosceva, seppur troppo poco per affondargli le mani nell’anima, ed era certo che, se Samuele lo stava ignorando, doveva esserci qualcosa che gli si agitava nella mente e lo rendeva completamente idiota.
Guardandosi un’ultima volta nello specchietto retrovisore, illuminato solo dalla luce gioca che proveniva dai lampioni ai lati della strada, Mattia sistemò il colletto della camicia attorno al bordo del maglione: poi, prima di pentirsene, aprì la portiera dell’auto, aggrappandosi saldamente alla bella e costosa bottiglia di vino rosso che per una volta non aveva soffiato alla cantina di suo padre.
Era nervoso, oltre che incazzato.
Temeva che Samuele gli avrebbe sbattuto la porta in faccia, o che, in alternativa, non gli avrebbe aperto e basta, visto il modo in cui lo aveva ignorato. Eppure come faceva a stargli lontano a quel modo, quando lui non faceva che pensare al modo in cui lo aveva baciato, in cui lo aveva toccato, e, meno poeticamente, a uno degli orgasmi migliori di tutta la sua vita? Era proprio stampata nella sua testa, l’immagine del viso di Samuele in quel momento, della sua fronte un po’ corrucciata e delle labbra dischiuse a scoprire i denti, gli occhi chiusi per abbandonarsi, almeno per un attimo, alla debolezza della carne.
Mattia si trovò di fronte al pesante portone verniciato di verde scuro senza rendersene quasi conto, le dita strette spasmodicamente intorno al collo della bottiglia di vetro: cercò il nome sul campanello, premette il pulsante prima di pentirsene.
Poi, il silenzio.
Si chiedeva se Samuele avrebbe mai risposto.
Forse non era in casa, e tutta quella fatica sarebbe stata sprecata.
Forse non avrebbe risposto perché avrebbe voluto restare da solo.
O forse era sotto la doccia e non avrebbe sentito il suono del citofono.
- Sì? – La voce arrivò forte e chiara, e Mattia sobbalzò.
Aveva risposto.
Il cuore aveva preso a martellargli nella testa così forte da fargli sentire un ronzio nelle orecchie, e persino la lingua si era ingarbugliata, o forse attaccata al palato.
Si schiarì la voce goffamente.
- Sono Mattia. – Disse solo quello, perché non gli sarebbe bastata la voce per una battuta di spirito.
I secondi successivi parvero dilatati nel tempo.
La strada era quasi deserta. Dal citofono proveniva solo il silenzio: era certo che Samuele non avesse messo giù, perché ne sentiva il ronzio, ma il portone d’ingresso restava ostinatamente chiuso.
Mattia strinse le dita convulsamente intorno alla bottiglia di vino.
Probabilmente non avrebbe aperto, e questo lo faceva incazzare, più di ogni altra cosa, perché lo faceva sentire impotente, incapace di avvicinarglisi abbastanza per afferrarlo.
Poi, nel silenzio, echeggiò il caratteristico clac.
Aveva aperto. Gli sarebbe bastato spingere per fiondarsi su per le scale e piombargli addosso, magari afferrandolo per baciarlo, e poi prenderlo a pugni.
Invece, diede una spinta con una strana calma.
Si chiuse il portone alle spalle, e salì tranquillamente le scale, ad una ad una.
Ad ogni gradino l’immagine di Samuele nella sua mente assumeva contorni più netti: gli parve di ricordare meglio il colore dei suoi occhi, la pelle ruvida lungo la mandibola, il profumo, il tocco forte delle mani intorno ai fianchi. Avrebbe dovuto essere furioso con lui, era lo era: ma era anche nervoso, teso, e sentiva sotto la pelle un fremito di entusiasmo all’idea di rivederlo, che cozzava terribilmente con la voglia, opposta, di tirargli un cazzotto e sputargli addosso il rancore accumulato in quei giorni di assenza. Perché erano trascorsi pochi giorni, eppure gli sembrava di aver perso la bussola: aveva trascorso settimane a costruire quella regolarità di contatti con lui, fino a che non aveva fatto un passo troppo lungo e tutto si era incrinato.
Alzò gli occhi solo quando arrivò all’ultimo gradino.
Samuele lo aspettava sulla porta. Avrebbe voluto essere in grado di decifrare il suo stato d’animo dall’espressione del suo viso, ma l’uomo pareva imperturbabile, solo un po’ sorpreso, e lui aveva solo voglia di baciarlo di nuovo e trascinarlo sul divano.
Mattia tirò fuori uno dei suoi migliori sorrisi da schiaffi, mentre si avvicinava alla soglia in silenzio. Gli parve di vedere Samuele chiudere un po’ la porta, come a limitargli l’ingresso, e la sua sagoma poggiata contro lo stipite.
- Sei venuto a casa mia per San Valentino. –
Samuele lo disse senza un preciso tono di voce, come una considerazione sul tempo, ma un angolo della sua bocca era appena sollevato in un accenno di sorriso.
- Sì, sono venuto a casa tua per San Valentino. Di solito chiamo, prima di presentarmi sotto casa di qualcuno, ma visto che non rispondi alle mie chiamate…. – iniziò, stringendosi nelle spalle. Ci mise dentro, volutamente, un certo astio, appena un po’. – Oggi era il giorno adatto, ero sicuro di trovarti da solo. Sai, di solito San Valentino si passa con le mogli – azzardò. Giusto appena un altro pizzico di astio. Samuele alzò gli occhi al cielo. – Allora, mi fai entrare? – gli chiese, poi alzò un braccio mostrandogli la bottiglia che teneva stretta nel pugno.  – Ho portato il vino. –
Sull’ultima affermazione, il sorriso di Samuele fece finalmente capolino, mentre il suo corpo si faceva da parte, aprendo del tutto la porta. Mattia ci passò attraverso come se stesse attraversando una sorta di ingresso ad un mondo magico, come se fosse l’armadio per avere accesso a Narnia.
Samuele attese che lui fosse entrato, prima di chiudergli la porta alle spalle.
Al centro dell’ingresso, adesso, si sentiva un po’ spaesato. Lo sguardo gli cadde proprio sulla parete contro la quale aveva quasi spinto Samuele, prima di baciarlo.
- Tu mi confondi, Mattia. –
Deglutì a vuoto.
- Dai, entra. La apriamo o no questa bottiglia di vino? –
Mattia fece per tendergliela, poi ci ripensò, tirandola indietro all’ultimo minuto, con un sorriso sornione.
- In realtà non te la meriti – gli fece notare. Non gli sfuggì il modo in cui le spalle di Samuele si irrigidirono.  Fece una smorfia, la bottiglia sempre lontana dalla sua presa: si stava divertendo, adesso, perché la vicinanza di Samuele risvegliava la parte irrazionale di lui. – Non hai risposto a nessuno dei miei messaggi. Non mi hai richiamato –  lo rimproverò. – Non credi che dovresti farti perdonare? – lo provocò.
La presenza di Samuele lo portava sempre a fare lo stupido, a irretirlo con i giochetti, a girargli intorno divertito come un leone con la gazzella, prima di mangiarla. Ma quella sera, contrariamente al solito, non rise nessuno.
Samuele accusò il colpo in silenzio, ma distolse lo sguardo.
Non recepì la provocazione, ne risultò quasi infastidito. Probabilmente, era ancora troppo presto per scherzare: nonostante si fossero promessi di dimenticare quella notte e non pensarci più, Samuele aveva fatto l’esatto contrario. Lui, invece, si era impegnato il più possibile per dimenticare, un po’ senza risultato: se avesse continuato a pensare alla loro notte insieme, non sarebbe più riuscito a guardare Samuele in faccia senza avere l’irresistibile voglia di baciarlo.
Eppure, dall’altra parte era arrivata la chiusura totale: la promessa di far finta di nulla era naufragata, cozzando contro il muro alzato da Samuele.
Era stato arrabbiato per giorni interi, aveva pensato persino a cosa gli avrebbe detto quando fosse riuscito finalmente a parlargli: invece, adesso se lo trovava davanti, e la rabbia era svanita, nascosta in una parte imprecisata e periferica del corpo. Si sentiva come la prima volta in cui gli aveva parlato, quando lo aveva abbordato con una battuta e aveva sentito l’eccitazione dell’ignoto, il non sapere come avrebbe reagito, se lo avrebbe preso a cazzotti o se sarebbe finito a letto con lui la sera stessa. Nessuna delle due previsioni si era poi realizzata, ma aveva scoperto quello che c’era dentro Samuele, dietro il suo modo di sorridere ai clienti e dietro alle sue mani ferme mentre preparava cocktail in serie. Quello che aveva trovato lì dentro gli era piaciuto, tanto da avvicinarlo abbastanza da fare un passo troppo lungo, e finirci a letto.
E adesso tutto stava andando a rotoli, perché Samuele non era più Samuele.
Quelle spalle appena incurvate, i muscoli tesi e l’espressione seria non erano da lui.
- Hai ragione – lo sentì dire. – Mi dispiace. – Portò lo sguardo su di lui, e quando si trovò quegli occhi verdi addosso, a Mattia passò la voglia di ridere. – Le cose mi sono sfuggite di mano, ho perso il controllo e non sapevo cosa fare. Pensavo che, qualsiasi cosa avessi fatto, avrei combinato un altro casino – ammise.
Mattia non sapeva cosa fosse accaduto in quei giorni di silenzio, cosa Samuele avesse fatto o detto, come avesse trascorso le sue giornate, ma di fronte a quello sguardo perso non riuscì ad essere arrabbiato, deluso, nemmeno felice. Si sentiva vuoto dentro, e immerso in un vuoto più grande. Si trovava davanti quelle labbra che aveva baciato, adesso strette dalla tensione, e quegli occhi che si erano chiusi mentre sospirava, e gli sembrava di non riconoscerli, come se gli stessero sfuggendo. Samuele si comportava come un gatto diffidente, gli scivolava dalle mani quando le tendeva per afferrarlo, non somigliava più all’uomo che aveva provocato un pomeriggio al bar. Gli tese la bottiglia di vino, utilizzandone il collo per dargli un colpetto sul braccio.
- Apri questa bottiglia. Ho voglia di un bicchiere di vino - gli disse solo, e anche Samuele non aggiunse altro.
Si sfilò il cappotto, poggiandolo sulla spalliera di una delle belle sedie del salotto. Quella stanza gli era sempre piaciuta, dalla prima volta che c’era entrato: non sapeva se fosse per il colore caldo delle pareti, per il bianco splendente dei mobili, per il tappeto colorato o per il tessuto caldo del divano. C’era qualcosa, in quella stanza, che urlava dappertutto casa.
- Vuoi qualcosa da mangiare? –
Si voltò subito verso la porta, trovando Samuele con in mano la bottiglia di vino stappata e due bicchieri così lucidi da sembrare appena tirati fuori dalla loro confezione. Gli andò incontro, prendendoli ciascuno in una mano per poggiarli sul tavolo all’angolo. Samuele evitò accuratamente anche solo di sfiorarlo, distogliendo persino lo sguardo. Quella patina d’imbarazzo era snervante, lo irritava.
- No, sto bene così, grazie – rispose. - Comunque non era necessario prendere il servizio buono – buttò lì, riuscendo a strappargli un sorriso.
- Per il vino buono serve il servizio buono – gli rispose lui a tono. Mattia finse una faccia offesa.
- Credevo fosse perché era l’ospite ad essere buono! –
Samuele colse la provocazione solo in parte, limitandosi ad un sorriso accennato mentre sistemava anche la bottiglia sul tavolo. Se avesse fatto la stessa battuta una settimana prima, avrebbe ricevuto in cambio una risposta tagliente, ma non disse altro.
Osservò l’uomo versare con cura il vino in ciascuno dei due bicchieri: il modo in cui il liquido scarlatto fluiva disordinato, cozzando contro la superficie trasparente, era ipnotico. Entrambi i bicchieri furono pieni per ben oltre la metà: dopo aver poggiato la bottiglia di nuovo sul ripiano, Samuele li prese entrambi, porgendogliene uno. Mattia si costrinse a distogliere gli occhi dal liquido per poggiarli su di lui.
- Oggi hai lavorato? – esordì Samuele, per catturare la sua attenzione e spezzare quella massa di imbarazzo che li avvolgeva e pareva quasi limitarli anche nei movimenti. Prima di rispondergli, Mattia mandò giù un sorso di vino: era inebriante, e quasi catartico, concentrarsi sul sapore avvolgente dell’alcool. Gli sembrava quasi sentirlo già agire sul cervello, sciogliendo le catene, quando non era arrivato ancora neppure allo stomaco.
- Sì. Una tragedia – si lamentò. – Il tizio migliore con cui ho avuto a che fare è stato un signore sulla quarantina che mi ha chiesto un atomizzatore con dei cuori o qualcosa di romantico per la moglie – iniziò a raccontare, mandando giù un altro sorso di vino. Samuele non aveva ancora assaggiato nemmeno un sorso del suo. – Ma chi è che regalerebbe un atomizzatore per San Valentino? Quando è andato via, io e Carla abbiamo riso per quasi mezz’ora! –
Anche Samuele rise, appena, prima di superarlo per andare a sedersi sul divano. Mattia lo seguì, sprofondando con il corpo proprio accanto a lui, tanto da destabilizzarlo: un po’ lo aveva fatto apposta, a sederglisi così vicino. Era spinto dalla curiosità di vedere se si sarebbe spostato un po’ più in là, o se sarebbe rimasto lì, con le loro cosce che si sfioravano.
Samuele si irrigidì appena, ma non si spostò, e per Mattia fu come aver bevuto una bottiglia di vino tutta in un sorso: la testa leggera, la nausea e un enorme peso sullo stomaco.
- Io oggi ho fatto il turno pomeridiano al locale. Non ho fatto che preparare cocktail dell’amore -  accompagnò le ultime parole mimando delle virgolette con le dita di una mano – e vedere un vai e vieni di gente che non ha fatto altro che sbaciucchiarsi. –
Mattia finse una smorfia disgustata.
- Da farsi venire il diabete. –
- Quasi – rispose Samuele, e questa volta rise sul serio. Rise con quella leggerezza che ci metteva dentro tutte le volte, come se gli si fosse sciolto un peso dal petto: e non poteva essere l’effetto del vino, non ne aveva bevuta nemmeno una goccia. Solo in quel momento, mentre Mattia lo guardava con la coda dell’occhio, Samuele portò il bicchiere alle labbra, reclinando il capo indietro: il pomo d’Adamo gli balzò sulla gola quando deglutì. – E poi ci siamo noi, sul divano di casa mia a bere costosissimo vino che hai soffiato a tuo padre. –
- Ehi ehi! Questo l’ho comprato! – lo rimproverò, dandogli una gomitata sul braccio che non reggeva il bicchiere, quello più vicino a lui. Samuele non colse la battuta, rimase serio: parve non averla nemmeno sentita, preda di un altro flusso di pensieri.
- Noi siamo sul divano a bere vino, mentre la gente normale sta bevendo champagne in un lussuosissimo locale, insieme a un gruppo di colleghi che odia, portando in giro le proprie mogli con le loro belle pellicce, i gioielli e i racconti sui figli che crescono e che diventano impossibili e bla bla bla. –
Non stava parlando della gente normale.
Stava parlando di quello stronzo del suo compagno, che doveva essere da qualche parte con sua moglie, come tutti gli uomini per bene che nascondevano i loro segreti sotto il tappeto, o dietro la porta di un appartamento in una via come tante di Milano.
Samuele non disse altro, e per un po’ rimasero in silenzio. Un silenzio così imbarazzante che Mattia ringraziò il fatto che i loro bicchieri fossero tanto pieni da tenerlo occupato per quei minuti interminabili.
Non era mai successo, prima, che in compagnia di Samuele ci fosse per così tanto tempo quel silenzio. Tutte le pause erano sempre state riempite da qualcosa, c’era stato sempre un motivo perché fossero lì, come intermezzo, una pausa nella loro corsa per permettere loro di riprendere fiato. In quel momento no: quello era uno dei classici silenzi imbarazzanti alla fine dei quali, terminato anche il vino nel bicchiere, lui si sarebbe alzato e sarebbe andato via, lasciando l’altro da solo. Era insopportabile. Mattia mando giù un altro sorso, questa volta più grande, tanto da bruciargli la gola e fargli lacrimare un po’ gli occhi.
- Quando pensi di smetterla? – La voce gli uscì più gracchiante di quanto si aspettasse, per colpa del vino. Samuele parve riscuotersi in quel momento.
- Di fare cosa? –
- Di fare così – gli fece notare. - Il tipo che ho abbordato al bar era molto più divertente. -
Samuele sorrise appena, in modo tirato, reclinando il capo indietro, contro lo schienale del divano.
- Anch’io preferisco quel tipo. Ma stasera non è potuto venire. –
- E’ perché è idiota – si lasciò sfuggire Mattia. Samuele non si mosse, se non con il capo, voltandolo verso di lui: aveva un non so che di languido, in quella posizione, che gli provocò una stretta allo stomaco. Le sue pupille si dilatarono, fino a far divenire le iridi verdi due contorni quasi invisibili.
- Sì, è vero – mormorò, stringendosi nelle spalle e distogliendo di nuovo lo sguardo.
Mattia si sentì montare dentro un fastidio che non aveva mai provato, qualcosa di puro e di potente che lo pungolò dritto al centro del petto. Gli era venuta voglia di urlare.
Di picchiarlo. E di baciarlo, che fosse maledetto. Invece canalizzò tutta quella rabbia nella mano con cui lo afferrò per un braccio, stringendo le dita intorno al suo bicipite.
- La smetti di compiangerti? Mi fai incazzare! – Samuele aggrottò la fronte. – Se non ti sta bene essere trattato come un idiota, fa qualcosa! Non fare ricadere tutte le colpe sugli altri! Facendo così sembra solo che ci provi gusto a fare la vittima! –
Se ne pentì nello stesso istante in cui lo disse e gli occhi di Samuele si accesero.
Avrebbe voluto dire che non lo pensava sul serio, che lo stesse dicendo solo per farlo arrabbiare, per scuoterlo. Invece, sentiva che quella fosse la verità. Che Samuele si stesse comportando da vittima, che sguazzasse in tutto quel dolore e che non avesse intenzione di tirarsene fuori perché in realtà gli piaceva avere qualcosa da rinfacciare all’uomo che gli faceva del male.
Perché aveva paura di uscirne.
- Secondo te mi piace farmi trattare così?! Che cosa ne sai di quello che c’è tra me e lui? – gli rispose quello, e il tono della sua voce si era alzato di un’ottava, tanto che Mattia lo lasciò andare.
- Quello che so è che tu non stai facendo niente per venirne fuori! –
- Ma cosa ne vuoi capire tu di amore, eh? Ci provi con qualsiasi cosa respiri! –
Arrivò come una mazzata dritta contro le costole, spezzandole tutte insieme con un colpo solo.
- Per te è così che vanno le cose, non importa se stasera è toccato a me. Per te è facile! -
Mattia boccheggiò, sentendo gli organi piegarsi sotto le ossa spezzate.
Poi inspirò, prese fiato, e la rabbia gli si riversò addosso come uno tsunami. Si alzò in piedi, poggiando malamente il bicchiere sul tavolo, tanto che il poco vino rimasto all’interno schizzò fuori, e qualche goccia finì sul tavolo.
- Hai ragione, non ne capisco niente, e allora? Preferisco restare solo e provarci con chiunque piuttosto che farmi trattare di merda da uno stronzo che ha paura anche solo di ammettere che gli piace il cazzo! -  Anche Samuele si alzò in piedi, parandoglisi davanti: a differenza sua, non si curò del bicchiere, che si infranse sul pavimento con uno stridio cristallino, mentre il vino si allargava sul pavimento e sul tappeto. Nessuno dei due ci fece troppo caso.
- E’ solo questione di tempo! –
- NO, Samuele! Non è questione di tempo!! – gli urlò contro il viso, così vicino da potergli sfiorare il naso con il proprio. Avrebbe voluto colpirlo, strappargli la pelle per la rabbia che gli faceva montare dentro. – Te lo sta dicendo solo per tenerti buono!! Non lascerà mai quella donna, lo capisci?! Quelli come lui pensano solo a loro stessi, non gli importa niente di nessun’altro! –
- Tu non lo conosci! Come puoi dirlo? –
- Perché anche mio padre è così! E non gli importa di nessuno se non di se stesso. – Samuele si zittì, arretrando di un passo, e Mattia rincarò la dose: si sentiva bene a riversargli addosso quelle urla, miste al proprio rancore. Gli sembrava di poterlo accoltellare con ogni parola. – Quelli come lui venderebbero qualsiasi cosa per salvarsi la pelle. Qualsiasi. –
Suo padre aveva venduto l’affetto dei suoi figli. Aveva venduto lui, non appena aveva saputo che fosse gay, per apparire di fronte ai suoi colleghi come un uomo comprensivo e progressista, e soffiare una causa da sotto il naso di un avversario. Stava vendendo il futuro di Massimiliano, purché studiasse legge come lui e fosse il figlio perfetto. Magari aveva venduto pure il suo matrimonio, per farsi un’amante e tappare la bocca di qualche collega di uno studio legale avversario. Avrebbe venduto qualsiasi cosa pur di ricavarne qualcosa.
A Mattia non sfuggì il cambiamento negli occhi di Samuele.
Anche se non lo avrebbe mai ammesso, le sue parole avevano aperto una piccola crepa, che liquidò con un gesto della mano in aria. Ma neppure quel gesto sarebbe servito, visto che le dita tremavano in maniera incontrollabile.
- Lui non è come tuo padre, tu non lo conosci, quindi falla finita. – Persino la sua voce aveva preso a tremare appena, chissà se per la rabbia o perché il tarlo del dubbio avesse iniziato a divorarlo. - Sono affari miei – gli sibilò contro.
Mattia fece un passo indietro, furioso.
- Oh, su questo non ho dubbi, io me ne tiro fuori. Ma tu non sei così, Samuele, o almeno questo non è quello che ho conosciuto io, che è venuto a un concerto con me e che lavora in quel locale. Per cui, quando pensi che tornerà, fammi uno squillo – gli sibilò.
Voleva lasciare quella casa prima di dargli un pugno e schiacciarlo sul pavimento.
- Dove vai? – lo chiamò Samuele, quando lo vide dirigersi verso la porta del salotto. Il suo tono era cambiato di nuovo: c’era un’inflessione più morbida, adesso, solo un po’. Mattia si voltò, e lo vide ancora in piedi, nello stesso punto in cui l’aveva lasciato.
- A casa. Si è fatto tardi, e devo cercare qualcuno con cui provarci, sai, non vorrei trascorrere il San Valentino senza una buona scopata. Ma va bene chiunque – gli rispose, imitando il suo tono, ironicamente.
- Mattia, dai – lo richiamò, questa volta con voce stanca. - Non volevo litigare. –
- Non abbiamo litigato, infatti. Ti ho detto quello che penso. Lo faccio spesso, non riesco a trattenermi. Ti ci dovrai abituare, se vorrai avere ancora a che fare con me – gli rinfacciò. Poi, preda di una strana smania velenosa, gli si avvicinò di nuovo di un passo, puntandogli un dito contro. Quando gli fu vicino, le pupille di Samuele si dilatarono come quelle di un coniglio di fronte al cacciatore. – E, per inciso, non andavo a letto con qualcuno da mesi, prima di te. -
Samuele non mosse in passo, ma le braccia gli ricaddero lungo i fianchi, privi di forze.
Mattia sapeva di essere stato troppo diretto, forse un po’ cattivo, e di esserlo ancora: sapeva di avere affilato lo sguardo, di avere arricciato le labbra e stretto i pugni vicino ai fianchi. Si stava comportando come gli aveva insegnato suo padre, inflessibile e indifferente, perché solo quelli così facevano strada nella vita.
Però, al di là dello sguardo impassibile, c’era un filo sottile, al centro del petto, che si stava tendendo, in attesa di quello che avrebbe detto Samuele: se gli avesse rinfacciato di non voler avere più nulla a che fare con lui, il filo si sarebbe spezzato.
Ma Samuele, all’inizio, non disse nulla. Lasciò che le braccia gli ricadessero lungo i fianchi, poi si portò le mani sul viso, stropicciandosi gli occhi, e le guance, in un gesto stanco.
- Non faccio che fare casini – lo sentì mormorare. Quando rialzò gli occhi verso di lui, Mattia ci trovò dentro soltanto tanta amarezza. - Non ho mai incontrato nessuno che fosse così forte e deciso come te, nei sentimenti. La gente ha paura, Mattia. Io ho paura come un ragazzino, anche se non lo sono più da un pezzo. E la gente, quando ha paura, si comporta in modo idiota. E’ in grado di aspettare per anni che qualcuno mantenga una promessa. Di restare vicino a una donna anche se non la ama più. Di restare amico di qualcuno che si è amato solo perché sai che ha bisogno comunque di te. E di ignorare tutte le chiamate e gli sms di una delle poche persone a cui importa di te. – Accennò un sorriso, a cui Mattia non riuscì a rispondere. Quando sollevò una mano, sembrò che volesse toccarlo. Ma non lo fece, la ritirò subito dopo. - Mi piacerebbe tanto essere come te: troverei il coraggio di mandare a fanculo Riccardo e dire “se mi ama tornerà”, e se non torna chi se ne fotte. Ma io non sono come te, sono io. Però sono contento di aver conosciuto uno come te. –
Se solo Samuele avesse saputo, avrebbe compreso che anche lui aveva paura.
Solo che non gli era mai stato permesso di mostrarla.
Non sapeva cosa dire, perché se avesse aperto la bocca probabilmente lo avrebbe pregato di baciarlo. O forse avrebbe iniziato a parlare di suo padre, di tutte le volte che aveva sentito di non essere abbastanza, e della paura che gli attanagliava le viscere quando si svegliava, certi giorni, e si rendeva conto di non aver realizzato nemmeno uno dei suoi sogni di ragazzo. Allora lo prendeva una sorta di malinconia che gli avvolgeva tutte le membra, rendendogli impossibile persino respirare. Era un po’ come la sensazione che stava provando in quel momento, di fronte agli occhi di Samuele.
- Per quel che vale, anch’io sono contento di aver conosciuto te – azzardò. Non avrebbe dovuto farlo, eppure tese la mano in avanti, fino a incontrare il viso di Samuele, all’altezza della guancia: la pelle era ruvida per la barba corta, ma era calda.  Samuele chiuse gli occhi, quando avvertì il contatto con il palmo della sua mano.
- Mi dispiace di averti trattato a quel modo. Di averti accusato di volermi portare a letto, di aver urlato, e di non aver risposto alle tue chiamate – mormorò. Quando riaprì gli occhi, dentro c’era sereno dispiacere. – E’ che non faccio altro che fare casini, Mattia, come un ragazzino. – Fece una pausa. – Soprattutto quando ci sei di mezzo tu. Per questo non ti ho richiamato. Ho pensato che così sarebbe potuto tornare tutto come prima. –  Mattia avvertì che un poco d’aria usciva dai polmoni, facendogli mancare l’ossigeno. Quando gli occhi di Samuele si posarono su di lui, gli parve quasi che il viso stesse bruciando, che tutto stesse bruciando. – Poi tu vieni qui, e non ci ho pensato nemmeno un attimo alla possibilità di chiederti di andartene e di lasciarmi in pace per un po’. - Lo sentì sbuffare di frustrazione. – Mi confondi, Mattia. Mi fai sentire leggero, come se non avessi nulla di cui preoccuparmi, come se potessi chiudere tutte le porte e ricominciare da capo anche adesso. E questa cosa mi fa incazzare maledettamente, e allora me la prendo con te, anche se non te lo meriti. – Le mani di Samuele gli si aggrapparono al maglione, sul petto, all’improvviso, senza che le avesse viste arrivare. – Anche adesso sono incazzato nero, perché penso che potrei baciarti e mandare tutti a fanculo, per stanotte. –
Il tormento di Samuele era difficile da comprendere, eppure aveva un suo senso: era come se fosse intrappolato all’interno di una gabbia, e avesse avuto diritto, per una volta ad un’ora d’aria, della quale razionalmente sapeva che avrebbe dovuto pentirsi, ma, in verità, non si pentiva per niente. E anche Mattia avrebbe voluto tirarlo di nuovo fuori da quella gabbia, anche solo per un’altra ora, e assaporarne la pelle.
- Beh, puoi baciarmi tutte le volte che vuoi. Chi te lo impedisce? – lo pungolò. Samuele scosse il capo, facendo per ritrarsi.
- Non è giusto. Non è così che deve andare. –
- Ed è giusto amare te e vivere con la propria moglie? – Avrebbe voluto avvolgerlo, solo con lo sguardo, e strattonarlo verso di sé. – Nessuno ti impedisce di essere un po’ egoista, ogni tanto.
Basta non dirlo a nessuno -  lo incalzò. Samuele lo costrinse ad arretrare con uno spintone.
- Smettila – lo rimproverò. Mattia lo afferrò per un braccio, strattonandolo, con l’intenzione di avvicinarlo, ma il corpo di Samuele era troppo pesante e opponeva troppa resistenza, e riuscì solo a farlo voltare verso di sé.
- Perché? Così puoi credere di portare rispetto ad un uomo che ti calpesta? –
- Ti ho detto di smetterla. –
Samuele lo spintonò di nuovo, e Mattia arretrò senza opporre resistenza. Non era veramente arrabbiato, adesso: avvertiva solo la tensione sessuale che lo univa a Samuele, che ad ogni spinta riceveva uno strattone e gli tendeva le membra. Lo guardò, lo sguardo affilato.
- Non so essere egoista, non sono bravo quanto te. – Mattia sollevò le sopracciglia, liberandosi in una risata che evidenziò eccessivamente, di proposito.
- Se io volessi comportarmi da egoista, caro mio, ti avrei già sbattuto sul divano, e lo sai benissimo anche tu che non mi avresti detto di no – lo provocò, e lo scintillio negli occhi di Samuele, che tanto cozzava con la sua espressione combattuta, fu abbastanza indicativo della battaglia morale che stava affrontando. Mattia ne approfittò per avvicinarglisi, abbastanza da poter chinare il capo e baciarlo direttamente sulla pelle del collo, un bacio solo.
- Non facciamo niente di male. Ci teniamo solo compagnia – mormorò, per circuirlo.
- Smettila, Mattia. -
Quando mosse le labbra verso l’alto, per scoprire la linea della mandibola, e poi la guancia, incontrò le labbra di Samuele, che aveva voltato il capo. Lo baciò come se fossero passati mesi dall’ultima volta, e tutte le immagini della loro notte insieme gli si sovrapposero nella mente.
Stavano facendo di nuovo un casino.
 








(1) Buon San Valentino
(2) - Va bene. - 

 
   
 
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