Capitolo 2 - Se tu fossi il mostro
Nel
momento stesso in cui aveva estratto, lentamente e con cautela, la
sua arma dal fodero aveva capito che quella situazione non sarebbe
potuta essere più complicata; aveva trovato sì la
sua preda, ma il
fatto che questa si portasse dietro un tale indifesa creatura rendeva
tutto molto più complicato, come aveva immaginato.
Come
la colpisco senza ferire la bambina? Come faccio a tenerla fuori? E
se la usa come scudo?
Perché non si accorge di me?
Si
era chinata, la donna che sembrava l'incarnazione stessa della luna,
con il volto alla stessa altezza di quello della bambina. E se solo
non si fosse trovato dietro di lei, con l'arma sguainata e pronto a
trafiggerla, lui avrebbe potuto vederla sorridere, quella donna dal
volto ancora sconosciuto.
Si
accorse di lui nel momento stesso in cui vide la bambina sorridere e
gettarle le braccia al collo, in quell'istante fu pienamente
consapevole del pericolo dietro di lei, pronta a colpirla, ucciderla,
ora che era fragile, a fracassarla, lasciarla a terra, sanguinante,
in un vicolo di quella città che aveva appena iniziato ad
amare.
Troppo
tardi.
Aveva
creduto di poter vivere una vita serena, una vera
vita; aveva trascurato se stessa e la sua natura, indebolendosi, fino
a non riuscire a percepire i pericoli che si ammassavano attorno a
lei.
*
Rhiannon
l'aveva aiutata a trovare un posto dove dormire; una piccola locanda
appena fuori il centro città, in un luogo perfetto, dove gli
schiamazzi e le urla della gente del mercato non arrivavano e dove i
confini della città erano ancora abbastanza lontani.
La
bambina si era rivelata essere incredibilmente matura nonostante
l'età che dimostrava, le aveva detto che suo padre non c'era
più,
ma che sua madre era riuscita a trovare un buon lavoro per mantenerle
entrambe. Maeve era rimasta in silenzio, perché non sapeva
cosa
significassero quelle parole, non sapeva cosa significasse perdere un
padre, poiché lei non ne aveva mai avuto uno,
così come non
conosceva l'affetto materno, perché
quel poco che aveva ricevuto era troppo piccola per ricordare, ed era
ancora troppo piccola per sapere quando sua madre l'aveva
abbandonata, nonostante ora ne intuisse il motivo.
La
bambina si era accorta del suo improvviso silenzio, e con un nuovo e
per niente scoraggiato sorriso, si era offerta di portarla a
conoscere sua madre, più tardi, quando lei sarebbe riuscita
ad
ambientarsi in quella città.
Maeve
alla fine era riuscita comunque a sorridere e a posare con fiducia le
spade che si portava in spalla, sperando ardentemente di non dover
più utilizzare quegli strumenti che appartenevano ormai a
una vita
che non voleva ricordare d'aver vissuto. Perché il peso dei
doveri e
delle paure si alleggeriva giorno per giorno, così come il
peso di
quelle lame.
La
mattina si svegliava e posava lo sguardo sulle sue armi, sapendo che
non erano più necessarie, che quell'orribile offerta del
sovrano di
Pherdi non valeva più nulla, ormai. Non avrebbe usato quelle
armi
per uccidere quelli della sua stessa specie, non avrebbe usato quelle
armi per uccidere, nessuno. Perché quella era una vita di
aria umida
e lieve, di dolce sole sulla pelle e notti calme.
Ogni
tanto Rhiannon andava a trovarla, la aiutava ad orientarsi e a capire
quella città, che Maeve trovava ogni giorno, ogni attimo,
sempre più
bella. Ogni tanto Maeve usciva da sola, si guardava intorno e si
sorprendeva dello splendore dei luoghi e delle persone, arrivando
quasi a dimenticare la propria natura, ciò che le aveva reso
la vita
a Pherdi un inferno. Si sentiva leggera, tuttavia ogni giorno era
sempre più spossata e debole, poiché ignorava, a
volte volutamente,
la prorpia necessità di nutrirsi, di recuperare energie
attraverso
un nutrimento più vivo,
rispetto a ciò che mangiava la gente normale.
La sua natura se la
portava addosso come una pelle pesante.
Non assecondava la sua
fame, non voleva cedere a quella necessità vitale di fare
del male
ad altri per la propria sopravvivenza. Se solo avesse potuto, avrebbe
rinunciato alla propria natura, al suo essere Mostro,
e poter vivere con la stessa leggerezza che vedeva nel volto delle
persone di Rabanastre.
Un
pomeriggio Rhiannon era sbucata dalla porta della sua stanza, con il
solito, radioso, sorriso. Aveva annunciato, come se nulla fosse, che
quel pomeriggio l'avrebbe portata a casa sua. Maeve aveva provato a
protestare, inutilmente.
La
casetta si trovava schiacciata tra due altissimi palazzi, come
rintanata al sicuro, abbastanza lontana dalla piazza principale da
vedere le mura della città dalla piccola finestra della
cucina. Non
era per nienta sfarzosa, ma non cadeva neanche a pezzi; era una casa
che se la cavava, sopportando le violente pioggie stagionali e il
perenne caldo.
Sentì
armeggiare oltre la porta quando la bambina bussò con forza
alla
porta.
"Mamma, sono io!" Altro rumore; catenacci che
venivano aperti, poi la porta si socchiuse.
La figura oltre la
porta non si fece vedere, troppo impegnata nei lavori domestici per
curarsi di dare un vero benvenuto.
"Accidenti Rhia, dovresti
avvisarmi per queste cose." Maeve venne trascinata dentro dalla
bambina che serrava con forza la mano sul suo polso.
"Va
bene, va bene. Magari la prossima volta." La bambina sorrise nel
sentire la madre borbottare lievi improperi. Rhiannon non aveva
avvisato nessuno, né Maeve, che era stata prelevata a forza
dalla
sua camera, senza una minima spiegazione, né la madre che
solo
quella mattina era stata avvisata dalla figlia, che le aveva detto
che per pranzo avrebbe portato una sua amica.
"Buongiorno."
Fece lei, titubante, in attesa di una reazione da parte della donna,
che ora si era voltata e la guardava con gli occhi spalancati e con
le mani che tremavano.
Maeve non poteva sapere, né tantomeno
immaginare, che la madre di Rhiannon era vissuta a Pherdi per qualche
anno, prima di spostarsi in quella città umida, per via di
un
incidente. Un incidente che lei, Lauri, non riusciva a considerare
tale.
Maeve non poteva sapere che il nervosismo della madre era
dato dal fatto che suo marito era stato ucciso proprio da uno della
sua specie, proprio da lei.
Perché Lauri ricordava benissimo
quella bambina; l'aveva vista in fasce, con degli impressionanti
occhi come perle, l'aveva vista muovere i primi passi in quel
quartiere che a malapena veniva considerato, quello delle persone,
creature,
diverse. L'aveva sempre vista da sola, privata della famiglia come
spesso accadeva a quelli della sua razza.
L'aveva vista fuori
controllo, nove anni prima, con quei medaglioni che sembravano
risplendere di luce vermiglia mentre dissanguava il suo
compagno.
Perché certi volti erano impossibili da dimenticare.
Da
allora non aveva più voluto avere niente a che fare con quel
luogo,
con quelle persone.
Da allora aveva desiderato che neanche la
creatura che si portava in grembo avesse niente a che fare con
loro.
Si rese vagamente conto del proprio volto che impallidiva, e
del cuore che perdeva un battito alla vista della bestia, mostro,
Lamia, che le aveva sottratto la sua metà, tenere
fiduciosamente per
mano la sua bambina.
Quella volta si disse che no, non le avrebbe
lasciato rovinarle la vita.
*
Maeve
non voleva morire, e di tornare a Pherdi non se ne parlava. Non ora
che aveva trovato il suo piccolo paradiso, non ora che iniziava a
vivere davvero.
Fece quindi l'unica cosa che le avrebbe garantito
qualche attimo in più di vita.
Si piegò sulla bambina
spingendosi la sua testa sul petto, mentre l'altra mano correva, non
più efficente come un tempo, ma pur sempre letale e rapida,
all'impugnatura di una delle sue armi, estraendola
parzialemente.
L'urlo spaventato della bambina venne coperto dal
cozzare di metallo su metallo. Ma Maeve non l'avrebbe comunque
sentito, troppo impegnata a guardare sbigottita la spada che si era
bloccata tra la lama e la guardia della sua arma, ora terribilmente
vicina al suo volto.
Maeve tremava, o forse era solo il tremito di
Rhiannon che si ripercuoteva anche sul suo corpo; non si sentiva
stabile sulle gambe, avvertiva la forza nel polso scemare
velocemente. Si accorse che non nutrirsi era stato un grave errore,
perché adesso non aveva possibilità di uscirne
viva, non in quelle
condizioni.
Ma lei era esistita a Pherdi, solo a Rabanastre aveva
iniziato a vivere. E il desiderio di respirare, parlare, fare cose
che fanno le persone vive,
era
troppo forte per permetterle di arrendersi.
Reynard
pensò che avrebbe dovuto darle un calcio alla schiena,
spingendola
in avanti e sbilanciandola, farla cadere a terra, per poi trafiggere
il suo cuore cercando quel punto preciso tra spina dorsale e costole
in cui far penetrare la spada.
Sarebbe semplice, si disse,
semplicissimo.
Ma lo percepì il quell'istante; il suo desiderio
di vivere, che la avvolse come una forte aura.
Vivere,
diceva la sua tenue energia, Vita.
In quel momento Reynard pensò che neanche trafiggendolo
venti, cento
volte, il suo cuore avrebbe mai smesso di battere.
Con
uno scatto che era il ricordo dei movimenti appresi tanti anni prima,
la donna estrasse completamente la spada, sbilanciandosi di proposito
in avanti, per tenere la fonte di pericolo il più lontano
possibile.
Ringraziò mentalmente la bambina, quando sentì le
sue
gambe avvolgerle la vita in una stretta convulsa, e le sue piccole
manine andavando ad afferrarsi a vicenda dietro la sua schiena.
Così
che Maeve si ritrovò con una sorta di tremante zainetto
umano
aggrappato al petto.
Le cinse la vita con la mano libera mentre si
voltava ad osservare il suo avversario.
Occhi attenti risaltavano
sul colorito pallido, glaciale, ed erano rossi, si rese subito conto
Maeve; rossi come il ciondolo che lui portava al collo, rossi come
gli stessi medaglioni che facevano parte della pelle della donna,
rossi come lei non si era più permessa di avere. Splendevano
nella
notte, intrisi di quel potere a cui Maeve aveva rinunciato.
Non si
soffermò oltre sui lunghi capelli o sugli abiti leggeri
mossi dal
vento, sulla pelle o sui tratti distintivi della sua razza, che era
la loro,
di razza, ma sugli occhi...
Occhi
freddi nella notte, occhi gelidi. Se avessi un'anima, non avresti
quello sguardo.
Occhi d'oblio, pieni di quella realtà da cui si
fugge.
Maeve
non poteva farcela, e lo sapeva anche lei stessa, e non era tanto
perché la bambina era un peso terrorizzato tra le sue
braccia, e non
era perché il suo corpo era stanco.
Era perché: "Chi sei?"
Si sentì chiedere. "Perché?" Subito dopo,
nonostante la
risposta fosse chiara.
Degli
occhi così sono sbagliati, sono come sarebbero potuti essere
i miei.
L'aveva
vista respingere la sua spada e sollevarsi, allontanandosi da lui il
più velocemente possibile, mentre la bambina, un po' come
una
scimmietta, si aggrappava saldamente al suo corpo.
Oltre a
considerarlo sconveniente, in quel momento, un fatto del genere era
più che strano, stranissimo, poiché la madre gli
aveva implorato di
salvare la sua bambina, come se si potesse trovare di fronte a un
terribile pericolo. Cosa che sarebbe potuta essere più che
plausibile, visto la compagnia con cui girava per la città.
Una
Lamia non era di certo una presenza raccomandabile, eppure...
Si
rese conto in quel momento che il mostro da cui sarebbe dovuta essere
protetta non era tanto la donna pallida quanto, più
probabilmente,
lui.
Quel pensiero lo turbò; uccidere non gli era mai piaciuto,
figurarsi se era per allungarsi la vita, figurarsi se si trattava
uccidere senza spiegazioni quelli della sua stessa razza, tuttavia lo
accettava, anche se con l'amaro in bocca. Ancora poteva accettare
quelli che perdevano il controllo, quelli che diventavano vere Bestie
assoggettate
dalla loro stessa sete. Ma non vittime innocenti, non una
bambina.
"Lascia andare la bambina." Fece lui, ignorando
le domande della donna. Aveva un lavoro da portare a termine, un
dovere, e tanto valeva farlo in fretta, senza starci a pensare troppo
come aveva imparato a fare per evitare che il senso di colpa lo
divorasse.
"Non le farai del male." La vide arretrare,
posizionando la spada dritta davanti a sé, in una posizione
di
guardia approsimativa, visto che la creaturina non sembrava voler
allentare la sua presa.
"Non è la bambina il mio
obbiettivo."
"Che cosa vuoi?" Lo lesse nei suoi
occhi, oltre al profondo desiderio di vivere, vide il riflesso di
sentimenti che, da tempo, lui non si era più permesso.
Occhi
caldi nella notte, occhi umani.
Se tu fossi il Mostro, non
avresti quegli occhi.
Vide
nei suoi occhi il riflesso di una felicità che a Pherdi, a
loro, non
era permesso vivere, vide la speranza, per quanto debole ed effimera,
tenacemente aggrappata alla vita, nonostante anche quella sembrava
stesse per esaurirsi.
Occhi
da umana, pieni di una realtà lieve e piacevole.
"Il
sovrano di Pherdi mi manda a darti la caccia, vuole che torni. Viva o
morta." La guardò negli occhi e capì
perché le sue tracce
erano sempre state così deboli, perché, fino
all'ultimo, non si era
accorta di lui. Lei non si era più nutrita, ignorando
completamente
le necessità della sua natura.
"A Pherdi non ci torno,
piuttosto, morire mi sta bene." Che cambiava poi molto? Reynard
lo capiva solo adesso, che lei si stava lasciando morire.
Degli
occhi così sono sbagliati, sono come sarebbero potuti essere
i miei.
L'immagine
a inizio capitolo è Maeve (finalmente ve la faccio vedere!)
ed è un'illustrazione del gran maestro Royo, dateci
un'occhiata ai suoi lavori se vi interesano queste cose *-*
Avevo
detto che sarebbe stato un capitolo un po' più lungo, e
spero che vi
sia piaciuto, perché per me questo è stato il
più complicato da
scrivere, è cambiato moltissimo e moltissime volte. Resto
comunque
molto molto dubbiosa riguardo come è strutturato, ma amen,
alla fine
si è scritto così, un po' da solo.
Spero vi sia piaciuto
:)
Vero che state capendo cosa sta succedendo? (@_@)
PS: ho scritto un'ipotetica scaletta del continuo di questa
mini storia di cinque capitoli, a voi piacerebbe vederla proseguire?
Anche se questa è una domanda che dovrei fare alla fine, ma
vabbé,
mi porto avanti xD