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Autore: rachel_hetfield    04/01/2015    2 recensioni
Scossi la testa con nervosismo. Aveva uno sguardo così penetrante. Non poteva essere Gerard Way, lui era morto. Era morto ieri sera, davanti a me, davanti ai miei occhi, avevo assistito ai suoi ultimi secondi di vita. Mi sentii stringere il petto. Che sensazione orribile.
«Volevo chiederti se è libero accanto a te» disse con tranquillità, come se non avesse capito che ero terribilmente a disagio. [...]
Non sapevo nemmeno che faccia avesse Gerard Way, poteva essere chiunque. Forse il ragazzo della macchina era un soggetto, quello della panchina era un altro, e Gerard Way non era nessuno. Sì, non era nessuno. Dovetti ripetermelo diciassette volte per convincermi. Gerard Way non era nessuno. Non l’avevo mai visto. Stavo bene. Non ero pazzo.
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way, Ray Toro | Coppie: Frank/Gerard
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Non ero mai stato un soggetto facilmente impressionabile, o almeno, poche cose mi turbavano come quanto era successo il giorno precedente. Dubitavo fosse tutto frutto della mia testa, non ero folle, non avevo allucinazioni, probabilmente erano tutte dannate coincidenze che volevano farmi credere di essere pazzo. Non cercai informazioni su Gerard Way, non era affar mio, non avevo voglia nemmeno di immischiarmi in faccende familiari già passate, semplicemente avevo bisogno di staccare ancora una volta da tutto il resto finché fosse possibile. Ero intimorito nel tornare a scuola, quel lunedì. Non mi aspettavo succedesse qualcosa di strano, alla fine, era solo un incidente, forse avevo visto male. Sì, avevo visto male.
Cercai di autoconvincermi ancora una volta di non essermi immaginato l’incidente, il ragazzo dai capelli rosso fuoco che leggeva Il Palazzo Della Mezzanotte. Quel ragazzo. Era così normale, così distaccato. Così dannatamente attraente. Nemmeno detto oggettivamente, lo dicevo per me, era davvero bello.
Insicuro com’ero, dubitavo anche su chi fossi io veramente. Voglio dire, non avevo mai avuto una ragazza, non ne ero attratto, molto probabilmente ero omosessuale. Non lo sapevo, non avevo mai avuto nessun tipo di rapporto e basta. Feci una smorfia pensandoci. Ero così chiuso e solitario da non sapere nemmeno se fossi attratto dagli uomini o dalle donne.
Mamma quella mattina fu più insistente del solito. Più premurosa, ma meno loquace. Non disse cose inutili. Si preoccupò piuttosto di lasciarmi il pranzo fatto da lei, come se il cibo della mensa contenesse allucinogeni e non si fidasse. E se fosse proprio così? Magari mi ero drogato. Avevo immaginato tutto perché forse i vicini avevano messo qualcosa nel cibo. Era così, ne ero certo. Erano troppo inquietanti per essere normali. Mi avevano drogato? Sì. Non sarei più andato da loro, questo era sicuro.
Tutti questi pensieri mi disconnettevano dal resto del mondo più del solito. Curioso, qualcuno si era anche seduto accanto a me durante l’ora di informatica. Non si sedeva mai nessuno accanto a me. Forse puzzavo, o ero troppo strano per far sì che qualcuno si avvicinasse. Fatto stava che qualcuno si sedette, ma non lo guardai, non ne avevo né voglia né mi sarebbe andata una coversazione con uno sconosciuto. L’ultimo sconosciuto con cui avevo parlato mi era rimasto impresso nella testa per ventiquattro ore. Più di una volta mi chiese come mi chiamassi, semplicemente lo ignorai.
«Iero!» mi chiamò qualcuno da dietro. Fui come destato dal sogno. Sobbalzai girandomi nella direzione dalla quale proveniva il suono.
C’era la ragazza che ogni tanto mi salutava la mattina seduta proprio dietro di me che cercava di sussurrarmi qualcosa, chissà, forse mi stava chiedendo di rispiegargli qualcosa che non aveva capito. Ero molto bravo in informatica.
«Ehi, Iero, puoi darmi una mano?» chiese in tono quasi supplichevole.
«Sì» sussurrai, annuendo.
«Bene, perfetto, vengo a sedermi accanto a te» fece un ampio sorriso. Stavo per dire che c’era già qualcuno seduto accanto a me, ma quando mi voltai era sparito. Sparito. Avrei giurato di aver visto qualcuno sedersi accanto a me e chiedermi come mi chiamassi, lo avevo sentito ma lo avevo ignorato.
La ragazza di cui a stento ricordavo il nome – forse Jamia o una cosa del genere – si sedette velocemente accanto a me, chiedendomi di rispiegarle come si facesse a translare il quadrilatero sulla linea opposta del foglio di lavoro. Velocemente rispiegai, con mezzi termini, in modo che capisse alla svelta. Le feci fare un tentativo da sola, e sembrò riuscirci. Mi ringraziò a voce alta, e annuii. Sapevo solo dire “sì, no e forse” con la testa.
Tornai a concentrarmi sulla sedia vuota accanto a me. C’era qualcuno prima di lei. O forse con la coda dell’occhio avevo visto qualcun altro, ma che era più lontano, ogni tanto la mente mi faceva questi giochetti illusionistici. Probabile.
Era così asfissiante stare in classe. Fortunatamente il tempo volava, ed ero invisibile, quindi quelle poche volte che venivo interpellato era per chiedermi qualche suggerimento dai compagni o l’orario. I professori a volte si dimenticavano che esistessi, forse perché il mio cognome così inusuale e la mia e collaborazione così limitata facevano loro scordare che ero in classe. Meglio così.
Inoltre ero, come dire, basso. Molto basso, rispetto a quelli della mia età. Loro giocavano a pallacanestro, a football, a rugby, facevano nuoto, sport, io non praticavo niente di tutto questo, ero un piccoletto invisibile e silenzioso che non dava fastidio a nessuno. Nemmeno un metro e settanta, ma era un vantaggio per il mio carattere introverso, o sbaglio?
In mensa aprii il sacchetto del pranzo che mamma mi aveva dato, c’erano due sandwich che sembravano appetitosi. Non era innaturale da parte sua, preoccuparsi di prepararmi il pranzo, ma non ero stupido, sapevo che lo aveva fatto per qualche motivo.
Mentre tiravo fuori i miei sandwich e li poggiavo sul vassoio, notai una scatoletta nel sacchetto. La tirai fuori. Erano farmaci. Con allegato un bigliettino. La scrittura era della mamma, l’avrei riconosciuta tra mille altre. Citava testualmente “Frankie, prendi due di quelle pastiglie, stanotte ti è salita un po’ di febbre”, e dovetti farlo. Non sapevo se era una bugia, il giorno prima mi aveva palesemente chiesto se avessi smesso di prendere i farmaci. Ero più pallido del solito? Perdevo capelli? Cosa c’era che non andava?
Di fatto presi le due pastiglie, non si sapeva mai. Forse girava qualche strana influenza. Forse ero pazzo, e dovevo prendere medicine per curarmi, ma era escluso, io non ero pazzo.
Per due secondi vidi qualcuno accanto a me, ma non appena alzai la testa non vidi più nessuno. Al diavolo, Frank, cosa ti prende?
 
C’era la cugina Sally nel pomeriggio a casa. Lei e mamma sono sempre andate d’amore e d’accordo come madre e figlia, e la cosa mi sollevava, almeno mamma smetteva di essere asfissiante per un paio d’ore.
Sally faceva dei piercing, era davvero brava, sentivo le mie compagne di classe vantarsi dei propri elix o dei propri septum fatti da lei, e di aver sentito solo un leggero pizzicorio. Mi venne improvvisamente voglia di un piercing. Avevo diciotto anni, mamma non poteva di certo dirmi di no. Era solo una richiesta, e non chiedevo mai niente a lei.
Scesi velocemente le scale, sperando che Sally non fosse andata via. Fortunatamente era ancora lì, a prendere il tè con mamma. Chiaccheravano animatamente, con serenità, niente di preoccupante. Per due secondi pensai che avrebbero potuto parlare di me e delle follie che avevo visto la sera prima ma non accadde, non ero pazzo, lo sapevo io e lo sapevano anche loro. L’importante era che ne fossi convinto io.
Ma non lo ero.
«Ciao Frankie! Sei sceso, eh?» annunciò mamma, così che Sally si voltasse e mi sorridesse radiosamente. Si alzò dalla sedia e aprì le braccia per darmi un abbraccio che non rifiutai, non rifiutavo mai i suoi abbracci. Era l’unica che si degnasse di avvicinarsi a me senza fare smorfie o commenti.
«Voglio un piercing» dissi quasi con nonchalance. Mamma piegò la testa di lato.
«Perché così all’improvviso?» rise la cugina «Sei così pulitino e casto, un piercing ti darebbe l’aria da cattivo ragazzo.»
Mi scappò un mezzo sorriso. Un cattivo ragazzo. «Che ne dici?»
«Dico che un labret qui» indicò un punto sotto il labbro inferiore, a sinistra «ti starebbe davvero bene.»
Probabilmente mi si illuminarono gli occhi, perché Sally fece una risatina guardando la mia reazione entusiasta. Era l’unica che mi entusiasmava. Chissà se c’era qualcun altro là fuori capace di farlo.
«Ehi, e del mio parere non ne volete sapere?» intervenne mamma fingendosi offesa. La guardai di traverso.
«Andiamo, zia, Frank ha bisogno di qualcosa di nuovo ogni tanto» mi difese, e mamma in risposta sospirò. Non avrebbe combattuto così tanto per  impedirmelo.  «Quando vuoi farlo?»
Aprii la bocca, ma il suono mi uscì pochi istanti dopo. «Adesso.»
«Adesso?»
«Adesso» stavo per pentirmene, ma al diavolo, lo avrei fatto e basta.
Dire che mi trascinò con sé fino all’auto e poi a casa sua ridendo sembrerebbe comico, ma lo fece, letteralmente, mi afferrò per un braccio e mi trascinò all’auto senza smettere di ridere. Mamma scosse la testa, ma non ne era delusa. Dopotutto il suo unico figlio aveva bisogno di un po’ di svolte, a diciotto anni.
 
Non fece nemmeno male. Sapeva distrarmi mentre bucava la pelle. Mise un semplice piercing con la pallina, raccomandandomi di prendermene cura, disinfettare, non toccarlo e di non cambiarlo prima di tre settimane come minimo. Conoscevo già le procedure e il resto. Dire che ne ero soddisfatto era dire poco, mi piaceva, mi stava bene. Non mi guardavo spesso allo specchio.
«Sai che ti ci vorrebbe, Frank?»
Deglutii. «Un tocco di vitalità?»
Rise. «Un nuovo taglio di capelli. Questi sono lunghi e sciupati...»
Li guardai nello specchio, e non aveva tutti i torti. Ma cosa sarebbe cambiato, tagliandoli? Ero sempre io, Frank, con un buco sulla faccia e un po’ di emozioni represse venute a galla. E tanta, tanta confusione.
«La settimana prossima ti porto a fare un bel taglio. Qualcosa di semplice, giusto per sistemarteli.»
Risi sotto i baffi mentre me lo diceva. Mi aveva già riaccompagnato a casa. Scesi dall’auto ringraziandola, ed entrai in casa, c’era silenzio, sicuramente mamma già dormiva. Infatti la vidi stravaccata sul divano a ronfare. Mi strinsi nelle spalle e salii di sopra, nel mio bagno. Un taglio di capelli.
Presi la forbice e iniziai a tagliare sul lati e dietro. Tagliavo, tagliavo, tagliavo, finché non furono cortissimi. Erano belli. Sembravo più ragazzo. Tagliai anche il ciuffo, rendendolo corto fino alla fronte. Mi sentivo... bello. Figo. Come mai mi ero sentito prima.
Nonostante fosse pieno dicembre tolsi i pantaloni e mi infilai sotto le coperte calde. Non chiusi gli occhi, un po’ per il prurito per i capelli appena tagliati, un po’ per il sovraccarico di pensieri che mi facevo ogni sera. Avevo dimenticato per qualche ora l’incidente e il ragazzo dai capelli rosso fuoco, forse dovevo frequentare più spesso mia cugina. Ma non appena chiusi gli occhi, mi sembrò di rivivere la scena. Le auto che si scontravano, gli infermieri dell’ambulanza che tiravano fuori il ragazzo. Aveva i capelli rosso fuoco, erano corti. Erano belli, lui era bello.
Aprii per un attimo gli occhi e rischiai di morire d’infarto.
«Ciao Frank» mi salutò una voce nel buio.
Sperai di morire velocemente, se fosse stato un assassino o un ladro. Ma non era un ladro. Aveva i capelli rosso fuoco e gli occhi verdi. Era troppo bello per essere un ladro. Forse era un’anima dannata. Forse avevo le allucinazioni.
Ma era troppo reale, e io ero troppo spaventato per dire qualcosa. Mi guardavo intorno, cercando il tasto per accendere l’abat-jour. Finalmente lo trovai. Lo premetti. Davanti a me, i capelli rosso fuoco danzavano tra le due dita. Era imbarazzato. E io ero spaventato a morte.
Come diamine aveva fatto ad entrare?
«Ti ho spaventato?»
L’avevo già sentita quella frase, quella voce.
«Scusami, stavolta ti ho spaventato sul serio.»
Ero troppo nel panico per rispondere. Chi cazzo era, come cazzo aveva fatto ad entrare, che cazzo voleva da me?
«Lascia che ti spieghi.»
Mi sentii mancare. Era dannatamente reale. Lo era. Non ero pazzo. Lui c’era. Lo vedevo distintamente.
«Mi chiamo Gerard.»
A quel punto mi piegai verso il pavimento e vomitai. Tutto, qualunque cosa. Mi bruciò il buco che avevo fatto quel pomeriggio sotto il labbro, ma continuai a vomitare, tossendo per cercare aria. Non alzai la testa per vedere se fosse andato via. I capelli rossi. La macchina che si schiantava.
Non smisi di vomitare finché mamma non entrò nella stanza agitata e nel panico, più di quanto lo ero io. Chiusi gli occhi, stringendo le palpebre. Era sparito di nuovo.
Mi chiamo Gerard.
Ma Gerard Way era morto.
«Frankie, shh, va tutto bene... va tutto bene» mormorò mamma mentre mi sorreggeva la fronte, anche se avevo smesso di vomitare. Mi metteva ansia la sua voce così spaventata, ma non lo era quanto me, ero terrorizzato, ero convinto che fosse stata un’allucinazione. Lo era. Stavo dando di matto, di nuovo.
La sentii sussurrare tra sé un “che ti succede, Frank” che mi fece accaponare la pelle. Avevo paura che avesse ragione, che mi stesse succedendo qualcosa. Sperai di non aver vomitato quei farmaci di quella mattina, o forse sì, forse lo sperai.
«Mamma» la chiamai, con voce strozzata. In bocca avevo solo il sapore acido della cena e dei succhi gastrici «mamma, sto bene.»
«Ho paura che ti portino di nuovo via...»
Mi si strinse il cuore. Chi doveva portarmi via?
«Eri guarito, Frank.»
«Sto bene
Lo ripetei dentro di me altre sette volte mentre mi tiravo su con la schiena. Faceva male. Mi bruciava tutto, mi girava la testa, mi sentivo terribilmente svuotato, spaventato, fuori di me. Avevo bisogno di distrarmi, e sapevo a chi rivolgermi.
 
 
SPAZIO AUTRICE
Immagino che i capitoli siano troppo corti, ma vedete, preferisco farne di più ma corti che pochi e lunghi, che renderebbero la lettura anche pesante. Sono veloce ad aggiornare come potete vedere.
Innanzitutto un sentito grazie a chi ha recensito il primo capitolo e al popolo di twitter che mi sostiene, vi ringrazio davvero tantissimo.
Volevo chiarire un punto del primo capitolo che sicuramente non è molto chiaro: chi era veramente Gerard Way?
Gerard Way come si è potuto capire era il figlio del sindaco morto in un incidente stradale anni addietro.
E cos’era quella folla in piazza che firmava per lui?
Una sorta di petizione che serviva a rendere più rigido il controllo e la sicurezza stradale perché, come si è capito, le vittime della strada giovani sono tante, anche nella vita reale, non solo nella fanfiction. Quindi non bevete quando tornate a casa in macchina. Se avete una macchina.
Detto questo posso tornare nell’ombra e progettare il prossimo capitolo *svanisce in una nuvola di fumo*
Un abbraccio, Adam Angelica
  
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