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Autore: LeFleurDuMal    17/11/2008    8 recensioni
Il profumo della macchia mediterranea si fondeva con quello del mare che risaliva dalla spiaggia, mugghiante delle onde dell’Egeo.
Per Milo sarebbe stato sempre l’odore dell’infanzia, di un’infanzia antica e ancestrale che veniva prima del Santuario, prima di tutto.
Milo di Scorpio, Cavaliere dell'Ottava Casa, racconta a Camus la propria infanzia. Da quando giunse all'isola di Milo, fino al momento della sua investitura.
Un episodio dopo l'altro, come frutti dolci e velenosi.
Genere: Generale, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aquarius Camus, Nuovo Personaggio, Scorpion Milo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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3. Frutto dell'inganno


“A quelle parole avevano tutti e due
il volto bagnato di lacrime
sia lui che dava gli ordini
sia lei che li riceveva"

Ovidio, Le Metamorfosi



Quando Milo vide per la prima volta Stephanos fu sicuro di essersi imbattuto in uno scorpione e tentò di girare al largo. Si era convinto presto che tutti gli uomini molto alti e molto grossi – come quelli che l’avevano portato lì sul traghetto, per intenderci – fossero scorpioni, e Stephanos era molto alto e molto robusto.

Stai attento a non annegare, a non cadere, e stai attento agli scorpioni, che sono velenosi. Hai capito, creatura? Stai attento agli scorpioni, che qui è pieno”.

Quando gli rivolse il saluto, quindi, si appiattì giù nell’erica profumata e ruvida, pronto a balzare via se avesse allungato una mano.

 

Dopo mezzogiorno aveva cominciato ad alzarsi il vento; arrivava dal mare portando con sé la salsedine delle onde e batteva le rocce e le distese d’erica tra di esse, piegandole sotto il suo fischio.

Dimetrios aveva sparecchiato dai resti del pasto frugale il tavolo sbucciato che aveva portato fuori, sotto il meleto: preferiva pranzare all’aria aperta, ma erano anni che non lo faceva.

Si girò a cercare Milo e non lo trovò: interessante inizio per un maestro che intendeva sguinzagliare l’allievo in giro per l’isola. Gli bastò gettare uno sguardo all’interno per vederlo gattonare con evidente interesse verso la branda nell’angolo.

“Cosa fai, creatura? Vieni fuori da lì”.

Milo infilò la testa sotto il letto.

“Ho detto fuori. Avanti” lo raggiunse con un paio di ampie falcate e lo rimise in piedi.

“Allora?”

“…c’è una bestiola sotto al letto!”

“…mi fa piacere. Ce ne sono molte anche fuori, ma quando ti dico una cosa devi farla. Hai capito?”

“Si”.

“Adesso mi ascolti?”

“Va bene”.

“Ah. Molto gentile, da parte tua, creatura”.

Milo ascoltò ancora una volta le istruzioni e le raccomandazioni di Dimetrios. Pochi istanti dopo trotterellava scalzo sotto al meleto, libero di andare dove volesse, con l’unico compito di tenere d’occhio il viaggio del sole nel cielo per tornare indietro quando sarebbe sceso nel mare.

 

Camus sedette al tavolo e tagliò la mela a metà. Si soffermò a contemplare la stella che il taglio trasversale rivelava all’interno del frutto, con i suoi semi disposti come gemme, e alzò gli occhi su Milo, che veniva da un’isola a forma di mela.

“E hai incontrato qualche scorpione?”

Milo appoggiò il piatto e si sedette davanti a lui. Il sole entrava tra le colonne in raggi obliqui, riscaldando piacevolmente la Casa dello Scorpione del Cielo.

“Chissà”, sogghignò.

Aquarius gli passò metà della mela e Scorpio raccontò ancora.

 

Milo uscì dal meleto relativamente tardi, dal momento che, proprio dietro la casa di Dimetrios, aveva cercato di allungarsi il più possibile per prendere un frutto da un ramo che l’ultima pioggia aveva piegato verso il basso. Allungarsi il più possibile per un bambino di nemmeno tre anni significava franare sul sedere la metà dei tentativi e, nel caso di Milo, fu esattamente quello che accadde. Sporse il labbro inferiore in un broncio, fissando la mela con ostilità. Poi, qualcosa che si muoveva dietro, sul muro immacolato della casa, attrasse la sua attenzione.

Milo zampettò sulla terra brulla fin sotto, alzando lo sguardo: sulla parete, ben visibile dato il colore scuro, si muoveva una grossa bestia, ben più grande della sua mano aperta.

Milo si alzò di nuovo sulle punte dei piedi, con entusiasmo, per afferrarla, affascinato dalla sua lucentezza, dalle zampe davanti che terminavano in due chele robuste e dalla bella coda arcuata, minutamente cesellata e appuntita, come un gioiello.

Era uguale uguale alla bestiola che dormiva sotto la branda in casa e che si era rifugiata in una crepa nel muro, quando aveva gattonato troppo vicino.

Questa volta l’avrebbe presa.

Vagliò la possibilità di chiamare Dimetrios per fargliela vedere, ma poi pensò che sarebbe scappata; così si appoggiò al muro e si allungò bene, spingendo il braccio più su che poteva: non abbastanza per raggiungere l’animale che pigramente avanzò verso il tetto, del tutto incurante del bambino.

Milo si rassegnò e si allontanò dal frutteto nel momento esatto in cui la barca di Stephanos attraccava alla spiaggia di Kleftico, a pochi chilometri da lì.

 

Non si era allontanato troppo, ma abbastanza considerate le gambette incerte e la curiosità che lo spingeva a fermarsi di continuo. I sassi sul sentiero avevano colori troppo belli per non esserne sconvolti, in disegni concentrici, e Milo avrebbe imparato solo più tardi delle origini vulcaniche che li avevano determinati. Per il momento li immaginava giochi divini.

L’erba cresceva rada, in ciuffi alti e taglienti, e quando il vento si alzava la faceva piegare, sferzandola insieme alla terra riarsa e alla sabbia trasportata dalla costa, facendo saltare i grilli da una pietra all’altra. Milo ne aveva perfino seguiti un paio, ma si era stancato perché non erano belli come la bestia lucida a casa del Maestro. E perché era caduto sul sentiero sbucciandosi le ginocchia e le mani nel tentativo.

Il profumo della macchia mediterranea si fondeva con quello del mare che risaliva dalla spiaggia, mugghiante delle onde dell’Egeo e per Milo sarebbe stato per sempre l’odore dell’infanzia e di Dimetrios, da quel momento in avanti.

Il sole aveva descritto un arco, nel cielo, da quando il Maestro l’aveva spinto ad allontanarsi. Non era ancora rosso e non si stava buttando in mare, così Milo proseguì. Non si spinse fino alle rocce bianche che vedeva davanti a sé, quelle che davano sulla parete scoscesa sul mare, anche se l’idea l’aveva visto combattuto: da una parte aveva paura, nell’avvicinarsi alla costa a strapiombo, dall’altra sentiva le mani e le gambe formicolare per l’emozione e la bellezza nel fare una cosa così audace e pericolosa. Avanzò solo di un passo e si promise che ogni giorno ne avrebbe fatto uno in più fino a raggiungerla. Gli parve una buona idea.

Stava cercando di strappare uno stelo di erica, quando scorse Stephanos: aveva visto che il gambo era duro, ruvido e resistentissimo e si bruciava le dita a tirare, ma l’arbusto non veniva via.

La cosa era ormai un affronto personale ed era deciso a vincere la sfida quando l’ombra enorme di Stephanos si stagliò su di lui.

“Stai attento a non annegare, a non cadere, e stai attento agli scorpioni, che sono velenosi. Hai capito, creatura? Stai attento agli scorpioni, che qui è pieno”.
Milo era stato attento a non annegare e a non cadere. Non aveva la più pallida idea di che cosa fosse uno scorpione, ma alzando lo sguardo su Stephanos, alto ed enorme, pensò che lui lo fosse.

Quando gli rivolse un saluto, quindi, si appiattì giù nell’erica profumata e ruvida, pronto a balzare via se avesse allungato una mano.

 

Dimetrios versò due bicchieri di retsina e ne appoggiò uno davanti a Stephanos.

“Bevi, su”.

“Grazie”. Prese il bicchiere tra le grosse dita e lo fece roteare appena, osservando il colore rosato del vino infiammarsi ai raggi del sole che filtravano dal meleto. A Milo sembrarono dita spaventosamente forti eppure delicatissime insieme.

Erano bastati pochi minuti per convincerlo che Stephanos non fosse un pericoloso scorpione: si era piegato su un ginocchio, nell’erica, e gli aveva mostrato un gioco di ombre fatto proprio con quelle mani grandi. Quando aveva provato lui a riprodurlo, mettendo impacciata attenzione sulle sue manine, l’uomo gliele aveva prese e gliele aveva fatte battere insieme, in uno scherzo divertente. Milo aveva riso e gli occhi nocciola dello sconosciuto avevano riso con lui.

Dimetrios vuotò in silenzio il proprio bicchiere, aspettando che Stephanos iniziasse a parlare.

“Ottimo” furono le sue parole alla fine “Era molto tempo che non ne bevevo di così buono”.

Dimetrios sogghignò: “lo tengo per le occasioni importanti. Perché sei qui?”

“Ah, ogni tanto si deve fare ritorno. Soprattutto quando si ha una figlia”.

Dimetrios annuì.

“Anche tu hai fatto ritorno”.

“Io?” Dimetrios alzò lo sguardo. “Io sono quasi sempre qui a Milo”.

Stephanos battè la mano ruvida e abbronzata sul tavolo di legno, la vernice sbucciata dal tempo “Era tua usanza mangiare all’aperto solo anni fa. Non lo facevi da tanto”.

L’altro rise. “E a te chi l’ha detto?”

“Il mare porta molte notizie, Dimetrios, da qui ad Atene. Anche quelle che non sembrano importanti”.

“Però.” Milo vide il maestro svuotare allegramente un secondo bicchiere. “E’ un bel chiacchierone questo mare, mh?”

Dimetrios aveva messo piede ad Atene una volta sola nella sua vita. Era stato il giorno in cui aveva ottenuto l’investitura a Silver Saint. Ricordava bene l’arena polverosa, le scalinate marmoree e i templi, bellissimi, futura residenza dei Cavalieri d’Oro. Non aveva immaginato, all’epoca, che sarebbe stato chiamato all’onore di addestrarne uno, un giorno. Ricordava il Pontefice che in un attimo soltanto aveva sollevato la sua vita e poi l’aveva precipitata.

“Il destino ha scelto” aveva detto il Grande Sacerdote Shion, quando Dimetrios si era dimostrato degno “L’armatura di Orione ti appartiene. Ma oltre agli onori ci sono oneri, per tutti i Saints di Athena, ma per te in particolare. Orione volge da secoli ormai le spalle ad Atene e il volto ai confini: l’armatura chiede il tuo esilio. Prendi con te chi ti è fidato e allontanati dal Tempio”.

E così Dimetrios non calpestava la Terra Sacra da quel giorno. Ed erano passati quasi vent’anni in cui il premio dell’armatura d’argento gli era parso un inganno oltraggioso.

“Orione, l’armatura punita, l’esilio delle vestigia era quello del Saint che le avrebbe ottenute”, mormorò, amaro. Spesso, lontano dalla Terra Sacra e dal Mondo Segreto, si era domandato quale fosse il significato della parola Giustizia, per gli Achei. Sembrava coincidere con la serenità della vita di tutti gli esseri umani, con la protezione costante dell’ordine cosmico: ma sembrava insensibile a colpe vecchie di secoli che venivano espiate da chi non chiedeva che di servire una dea fanciulla. Ingiusto, come un mito antico che non apparteneva ad Atene, quello in cui l’uomo e la donna venivano cacciati dal Paradiso Terrestre dopo avere accettato l’ingannevole dono di  una mela lucente.

 

Camus - che all’epoca del ritorno di Stephanos a Milo aveva tre anni scarsi e si allenava in Siberia -  in quel momento, negli appartamenti di Scorpio, addentò uno spicchio del frutto che aveva tagliato e masticò, prendendo tempo, prima di indagare con discrezione:

“L’armatura di Orione è tra quelle che si macchiarono di tradimento nell’antichità. Non compare nemmeno tra le Silver cloth ufficiali. Non se ne parla mai, né di coloro che se le aggiudicano. Mai”.

Milo piegò la buccia della mela fino a romperla in piccoli pezzi, distrattamente, impilandoli sul piatto. “Mi sembra stupido, non parlarne”.

“A me sembra ipocrita”. Camus era sempre stato sincero e retto, e quando c’era da dire le cose come stavano le dicevano. “Vai avanti”.

 

Stephanos non aveva ottenuto un’armatura, mai, anch’egli pretendente al cloth di Orione. Il suo cuore sgombro di invidia lo aveva portato però ad accettare l’esilio forzato come se l’avesse invece avuta, ed era stato al fianco di Dimetrios per anni, prima di sciogliersi nell’isola di Milo come un uomo comune, o nel resto di Grecia, volgendo le spalle al Mondo Segreto che lo aveva rifiutato: aveva visto l’antico compagno d’arme rabbuiarsi e aggrapparsi all’isola come un’aquila al nido, mangiando chiuso in quella piccola casa giorno dopo giorno quando invece aveva sempre amato consumare i suoi pasti all’aperto, tra l’erba e il vento. Seduto al tavolo sbucciato, adesso all’aperto nuovamente, Stephanos vi batté ancora la mano, nel sole e sotto al meleto: “Anche tu sei tornato, Dimetrios”.

Questa volta, Dimetrios di Orione –  costellazione dell’esilio, armatura dell’inganno –  rise apertamente e parve tornato agli anni dell’addestramento: “Ce n’era bisogno, Stephanos”. Quasi senza pensare spostò lo sguardo sul bambino che il Santuario gli aveva affidato, come dono, dopo averlo piegato con l’allontanamento: come una riabilitazione.

“E’ per lui? E’ tuo, vero? L’ho capito subito che era tuo” rise Stephanos versandosi dell’altro vino, gustandolo lentamente “Un allievo?”

Milo, l’allievo, annoiato da discorsi che non capiva continuava ad osservare sotto la branda, seduto sul pavimento. Ad avere pazienza, la bestiola magari sarebbe uscita.

“Il mio riscatto: a me è stato affidato l’allenamento di un Gold Saint”. Lo disse d’un fiato, come se temesse che la frase si spezzasse, che sarebbe un cattivo auspicio.

Stephanos sgranò gli occhi.

“Un Gold Saint”.

“Così pare. Gold Saint di Scorpio, dell’Ottava Casa del Tempio”.

Stephanos sbotto in un sorriso smarrito, fissando negli occhi Orione che, nel mito, dallo Scorpione era stato ucciso.

“Alla faccia…”

“Alla faccia della predestinazione, sì” ghignò l’altro.

Per tutto il pomeriggio si era alzato il vento; arrivava dal mare portando con sé la salsedine delle onde e batteva le rocce e le distese d’erica tra di esse, piegandole sotto il suo fischio.

Pochi minuti dopo Stephanos avrebbe lasciato il frutteto per dirigersi a nord, verso Adamas, a cercare la figlia e la cittadina che aveva nel cuore. Avrebbe salutato Milo, intento  a guardare sotto la branda, e Dimetrios, prima di ripercorrere l’antica strada verso casa, sotto il pomeriggio che diventava sera.

Adesso però versò due bicchieri ancora di retsina, levando il proprio verso le mele che lo sovrastavano:

“Allora bisogna brindare, Dimetrios, amico mio!”



Rispondendo:

Shinji: çOç felice che ti sia piaciuta e ancor più che ti piaccia Dimetrios. L’affetto incondizionato per quest’uomo maledetto servirà pure a qualcosa! çOç *infila nella fanfiction* Grazie per esserci! çOç E teniamo alto il fanclub di Ikki, il più forte dei Gold Saints!

Ren-chan: *O* amore mio, questo non te lo faccio leggere in anteprima cosi, per farti una sorpresa. Speriamo che sia venuto bene! …le mele a coniglietto usciranno in qualche capitolo, vedrai. *GH*

Stateira: çOç <3 Sì! Mi adotti? Merce rara le cocche, merce rara! çOç Come dicevo, le mele a coniglietto usciranno sicuro: non te le ricordi affatto solo tu è il motivo per cui siamo TUTTE cotte di Galan – a parte la sua figaggine innata e il suo braccio di acciaio inox – e per cui ancora io seguiti a leggere il G, anche se non ci sto capendo un cavolo da dieci numeri. *C*;; Yay per le mele a coniglietto! *C* <3

EriS_San: Milo è piccolo e ingenuo, ma crescerà. è__é stando in canon avrà l’armatura a sette anni, quindi dovrà anche darsi una mossa in fretta *C* Già dal prossimo capitolo gli mettiamo il turbo, per amore o per forza. ._.; Grazie per i complimenti. Ti abbraccio forte! >O<

Damaris: devo dire con rammarico che quell’immagine non è del tutto mia: è una parafrasi più o meno azzeccata del dialetto veneto con cui i “nativi” definiscono la Serenissima. Quando lavorai a Venezia e mi venne descritta così la città me ne innamorai perdutamente. Sono immagini che si incastrano con prepotenza çOç.  Mele Avvelenate è una favola a suo modo: questi anni di Milo sono così verdi da essere una fusione tra realtà, sogno e mito, l’età della bruma e delle fiabe. Speriamo di non rovinare tutto. >O< Grazie per la tua lettura e le tue interpretazione e grazie per il tuo occhio attento su Dimetrios. Spero che possa continuare a restare in equilibrio. Un bacio immenso, Damaris.

Malu Lani: ;O; sono così contenta se ti ci affezioni! E’ una cosa che mi riempie di calore, il pensiero che tu possa affezionarti a questa storia quanto lo sono io. Grazie per esserci così spesso. çOç e per il modo dolce con cui ti avvicini sempre.    *C* Se… Se Kurumada mi assumesse sarebbe il mio CAPO. …per Athena! *C*; Adesso gli mando una mail. *C* 

Juka: Saint Seiya è anche uno dei miei amori: irrimediabilmente da sempre. Che si può fare Juka? Ci dobbiamo rassegnare. <3  Detto da te, altra fan dell’antico zoccolo duro, il complimento che mi hai fatto decuplica. Grazie, grazie infinitamente. Continuo sperando di non perderti, di non deluderti  e di vederti ancora. Ti abbraccio.

   
 
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