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Autore: Vella    06/01/2015    2 recensioni
Una famiglia. Una contea. Una residenza.
Jenkins. Buckinghamshire. Winslow Hall. Anno 1896.
Tre storie apparentemente scollegate fra loro. Tre mondi. Tre amori. Tre, il numero perfetto.
Daniel Shaw è un poeta profondamente enigmatico, strano, seducente, romantico. Cerca la sua musa ispiratrice, trovandola d'improvviso in Wendy, una ragazza benestante e solare, con un segreto. Così nasce un amore sconfinato, senza vie, dal sapore della proibizione e dello sbagliato. Un amore fatto di sguardi e di intensi contatti umani.
Viktor Mitchell, uomo di ventotto anni, rude, agognato, senza alcuna forma di desiderio. Veterano di guerra. Ed ora divenuto professore per l'istruzione di famiglie d'alto rango. Un uomo davvero, forse troppo, sbagliato e pieno di peccati. S'innamora perdutamente di Katherine, una ragazza di diciassette anni, giovane, ribelle, forte, eppure la sua unica alunna.
E infine Gerard Collins, ventiduenne, senza tetto, soldi o famiglia. Un gigolò in cerca di amore tra persone che non lo completano. Per questo quando incontra Henry il tumulto di sentimenti che si forma nel suo cuore, lo confonde.
Henry, Wendy e Katherine sono fratelli. Sono la famiglia Jenkins. Sono sbagliati perché non seguono le convenzionali etichette ma lo struggente filo conduttore dell'amore più remoto.
Genere: Romantico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago, L'Ottocento
Capitoli:
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Effetti collaterali.

I
n una gelida mattinata di gennaio, Katherine volava da una parte all'altra della casa. I piedi scalzi e il viso sciupato dal poco sonno le regalavano un elegante buongiorno. Indossava la sua lunga vestaglia sottile e guardava la neve scivolare lentamente dalle nuvole per poggiarsi con cautela sul viottolo di Winslow Hall. Aveva una mano attorno alla gola e il nasino impertinente davvero arrossato. Un brivido le oltrepassò la schiena e gli occhi lucidi per il pianto avevano un non so che di vacuo. Aveva preso un brutto raffreddore e Sheila era scesa giù in cucina per prepararle un fagotto caldo dove appoggiare i piedi; avrebbe dovuto stare a letto, sotto i vari strati di piumone e crogiolarsi in quel tepore a dir poco soffocante. Dannato bagno, dannato bacio, dannato lui.
Rimuginava, rimuginava, rimuginava.
Erano due giorni che rimuginava. Erano passati già due giorni quando aveva visto le puttane lasciare la sua casa e la milady non rivolgere alcuno sguardo a suo padre. Erano passati due giorni da quando la milady aveva ricevuto ciò che le spettava e nulla le faceva presupporre di rincontrarla. Erano due giorni, sì, e la famiglia Griffiths soggiornava ancora in casa sua. Sua. Davvero? No. Era la dimora in cui passava i suoi giorni, in cui aspettava saggiamente di sposarsi, era la dimora dell'attesa ma non della vita. Non avrebbe mai vissuto lì. Avrebbe sempre atteso di vivere.
Era il cinque gennaio del 1896 e Katherine osservava il suo riflesso sul vetro appannato per via del freddo. In quello stesso riflesso non riusciva più a scorgere una ragazzina sempre pronta all'attacco, tutto pepe e cattiveria. Scorgeva inesorabilmente solo il suo visetto calcato dalla notte insonne e, seppur la pelle fosse liscia come seta, sentiva ancora lo sporco addosso, sentiva ancora quelle labbra calde sulle sue. Sentiva ancora quelle mani e quel fuoco maltrattarle l'anima. Portò entrambe le mani sul cuore ed abbassò la testa, sconfitta. Che le prendeva? Cosa c'era che non andava in lei? Erano passate settimane dall'arrivo di Viktor ed ogni giorno, ora, minuto o secondo che passava, la fragilità aumentava e bramava di essere sviscerata; perché forse, e dico forse, con l'eviscerazione non avrebbe dovuto ammettere il dolore e l'irrequietezza che provava. Tra un paio di ore il suo precettore avrebbe attraversato il viottolo con l'intenzione di mettere fine a ciò che lei stessa aveva intrapreso e lei avrebbe dovuto sopportare altre lezioni, altre parole al vento... parole che provenivano da labbra così, così, passionali.
Ecco. Ecco, questo intendeva. L'incoerenza e il dolore l'avevano sovrastata. Non poteva continuare così. Lei odiava Mitchell Viktor. E non era una presupposizione, ma un dato di fatto.
I passi di Sheila riecheggiarono nel corridoio e quando entrò nella stanza non fu affatto sorpresa di scorgere la sua padroncina seduta vicino alla finestra, raggomitolata sulla poltrona, con occhi sporgenti e rossi, capelli alla rinfusa e...
―Che avete, signorina? Su, su, bevete questo buon tè. Ve l'ho portato apposta! Su, su, bevete.― Katherine rivolse un'occhiata fugace alla tazza che le era stata porta. Lentamente la strinse tra le dita e pochi attimi dopo sentì il tepore della bevanda ringiovanirle ogni papilla gustativa.
―Non avete freddo? Su, su, mettete questa coperta sulle spalle.― E la coperta la riscaldò.
―Perché non vi vestite e scendete giù? Potreste leggere qualcosa o aiutarmi con...― continuava imperterrita la vecchia governante. Katherine tirò su col naso e, stringendosi nelle spalle, zittì la donna con una vaga occhiata di mal interessamento.
―Vai e sbriga le tue faccende. Ma prima dimmi in che giorno ci troviamo.― Gli occhi della fanciulla erano ancora puntati al di fuori della stanza e Sheila non sapeva bene come fare per risvegliarla da quel lento torpore del corpo e della mente.
―È quattro gennaio, signorina. È sabato.― Erano passati due giorni allora, due giorni dalla fine del ballo ch'era durato una notte intera. Ed aveva infranto molte cose, la sua pudicizia ad esempio. Sheila esitò ma doveva assolutamente far rinsavire Katherine. Il padre quella mattina le aveva dato ordine di svegliare la figlia e di farla trovare nella sala da ricevimento prima di mezzogiorno. A quanto pare la famiglia Griffhits alloggiava ancora a Winslow Hall e c'erano molti affari da concludere che riguardavano soprattutto la figlia più ribelle. Ma come poteva dirle una cosa del genere? Così com'era probabilmente l'avrebbe presa a calci su per il sedere e nulla più l'avrebbe convinta a scendere nei piani inferiori. Per non parlare di Henry! E di Wendy! Il ballo aveva letteralmente scombussolato quei giovani. Il futuro signor Jenkins s'era vestito di prima mattina con il più bell'ingessato che Sheila stessa avesse mai visto e con qualche scheletro nell'armadio s'era diretto bello bello, in città. A Londra. Eh beh! Mi pare ovvio, pensava la governante, avrà qualche invito con quelle puttanelle della festa! Non può mica lasciarle allo sbaraglio, il signorino. Deve ritornar da loro pimpante, pimpante.
Ma Elizabeth? La sorella del conte Ermakje? Si salvi chi può! Appena aveva saputo di una tale fuga, continuava a lamentarsi con Wendy nella sala da ricevimento. La povera figlia maggiore s'era seduta pazientemente sulla sedia a dondolo e ricamando un centrino assurdo e bruttissimo, cosa che proprio non era da lei!, ascoltava la cognata. Gli unici contenti dell'evento sembravano essere i componenti della famiglia Griffiths e Mr Jenkins. Erano tutti rilassati e parlavano animatamente del futuro prossimo.
L'unica cosa strana, che la governante aveva notato, era stata la domanda impertinente della signora Annabelle. Era entrata di sotterfugio nelle cucine e in cerca di Sheila, appena trovata, le aveva sussurrato: “sapete per caso dove alloggia Mr Mitchell Viktor?” E lì lì, un po' indaffarata, Sheila aveva risposto: “ma di chi parlate, signora mia? Del precettore di miss Katherine?” e la donna aveva annuito, eppur una tale ardua domanda non l'aveva portata proprio a nulla. Sheila non sapeva dove alloggiasse Viktor Mitchell ed inoltre sapeva del suo arrivo solo quando la carrozza dell'uomo si fermava davanti ai cancelli e lui vi si scendeva. E proprio ora che ci pensava, l'uomo mancava dal ballo, se n'era andato senza dir nulla al signor Jenkins e chissà adesso cosa stava aspettando. Katherine infatti avrebbe dovuto riprendere le sue quotidiane lezioni anche se, con ogni probabilità, sarebbero terminate presto. C'era una sorpresa per la giovane, una bella sorpresa secondo Sheila.
Le farà bene! Pensava ancora la donna, mentre girava una scorza di limone nella tazza ricolma di tè caldo. “Le farà proprio bene! Tanto impertinente e cocciuta. Sempre pronta ad attaccare, sulle difensiva e molto, molto prepotente. Non s'è manco presentata al ballo! È una cosa possibile? Proprio no!”
―Sentitemi signorina, non potete continuare a rimaner qui in cima al freddo quasi come se foste a lutto! Che cosa vi prende?―
Katherine si irrigidì sul morbido materasso e deglutì un sorso della bevanda, trattenendo un'espressione di sorpresa e a col tempo di vergogna.
No, non poteva certo ammettere che si sentiva sporca e stupida, e anche disobbediente, più del solito.
―Ma che cosa mi dovrebbe prendere Sheila! Proprio nulla, ti pare che non vada bene qualcosa? Sono solo... raffreddata, influenzata, infreddolita, stanca e credo proprio di aver bisogno d'un bel riposino. Quindi svegliami tra qualche ora, quando sarà pronto da mangiare.―
Sheila scosse la testa, lentamente, e lasciò che la mano cadesse sulla maniglia dell'armadio per aprire l'anta e cacciare un abito scuro e pesante, accollato e fastidiosamente irritante addosso.
―Vostro padre...― scandì la donna, ―vi vuol vedere e vi sta aspettando. Ho l'ordine d'assicurarmi, non solo che stiate bene, ma che vi vestiate e lo raggiungiate prima che si faccia ulteriormente tardi.―
―Che aspetti allora! Non succederà nulla, il mondo non finirà, le nuvole continueranno a muoversi, i fiori a germogliare e...― “il mio cuore a frantumarsi come vetro”. Sobbalzò dal letto e guardò la donna, la sua amata governante, con uno sguardo che Sheila non aveva mai visto. Forse disprezzo? Non ne era sicura ma sapeva che non le piaceva, che non le diceva nulla di buono.
―Katherine!― borbottò mentre lasciava cadere lo sfarzoso vestito al suo fianco, ―siete esasperante! Non m'interessa cosa avete intenzione di fare. So solo che ho un compito da vostro padre e dovete obbedirmi! Vi aspetta e non solo lui, ha bisogno di parlarvi di questioni urgenti, quindi basta bambinate! State perdendo tempo!―
“Bambinate”, le sue bambinate. Quella parola colpì proprio nel punto giusto, forte come una martellata in testa, dolorosa come una coltellata nel costato.
―Vai, vai! Ci penserò io.― Sbottò Katherine senza guardarla e così Sheila si ritrovò spaesata ed un po' incalorita, quando capì che la ragazza aveva intenzione di spogliarsi senza il suo aiuto e che non aveva neanche intenzione di discutere con lei o di confidarsi, o di essere consigliata, uscì dalla stanza e un groppo in gola le si formò per non dare spazio alle lacrime. Nel frattempo Katherine lasciava cadere la vestaglia sul pavimento e riuniti i capelli in una crocchia, si vestiva di un nero opaco, frastornata ed in cima ad un dirupo.

Tutto inizia dai capelli; quando si guarda una persona, si inizia dai capelli, dalla forma, dal colore, da quanto sono luminosi quel giorno. E questa caratteristica umana non poteva essere un eccezione dinanzi a Wendy.
La ragazza aveva raccolto parte dei capelli in una crocchia sul capo e quelli che si trovavano sull'attaccatura del collo li aveva arricciati e lasciati cadere lungo la spalla e i seni nascosti diligentemente da un vestito color miele che si chiudeva armoniosamente senza lasciare intravedere nulla di sconcio.
Proprio come aveva già anticipato Sheila tra i suoi pensieri ingarbugliati, Wendy era seduta su una sedia a dondolo, poco comoda e per nulla bella, aveva in mano un uncinetto e si dilettava in tal passatempo mentre Elizabeth beveva rumorosamente il tè, arrabbiata ed in preda a singhiozzi di rabbia e di disarmonia.
―Io... io non capisco!― piagnucolava, piagnucolava esasperante, ―scappa, scappa in continuazione, cognata mia. Proprio non lo capisco! Volevo ballare con lui l'altra sera ma non sono stata capace di trovarlo tra tutte quelle maschere! Non vi piacerebbe fare una cosa in famiglia, Wendy? Voi e mio fratello ed io il vostro. Dio misericordioso, già immagino la bellezza, le feste, la felicità! Il nostro rango poi... vi gioverebbe solamente! Sareste fratelli fortunati ad aver noi, e vostro padre non potrebbe aspirare di meglio. E poi... poi io sono Elizabeth! Non farei male a nessuno, sarei un'ottima moglie, un'ottima cognata e soprattutto un'ottima madre!―
Wendy continuava a tener gli occhi bassi ed osservava le mani che si muovevano leggiadre sul tessuto di ottima qualità comprato al mercatino inglese un anno prima e lasciato ad ammuffirsi in un cassetto delle soffitte, trovato per sbaglio dai domestici nelle grandi pulizie stagionali.
Annuiva appena quando capiva che Elizabeth aveva bisogno di un sostegno, qualcuno che le dicesse il giusto, che le desse ragione.
Ma dov'era la mente della rossa? Dove volava? Oh, sì, volava lontano! Ma qual era la meta? La meta era brutta, brutta da morire che creava un animo cattivo e soffocante nella donna. Sentiva che il corpo non le dava sostegno, che sarebbe potuta crollare da un momento all'altro senza troppe cerimonie.
“Chi era al Ballo Nevoso?” si domandava. Sentiva ancora il fuoco sulla pelle, le labbra ispide di barba poggiarsi sul suo corpo, cercare la sua bocca, intraprendere attimi eterni in pochi e miseri istanti. Sapeva per certo che non era George. Il conte Ermakje non c'entrava nulla con lei, ogni qualvolta la sua mano toccava il suo corpo, un brivido nascosto le oltrepassava la schiena ma nulla più. Ed era proprio in ciò che si celava il problema.
Non riusciva a collegare, a ricordare, ogni momento si stava perdendo nell'aria e più cercava di riunire i pezzi del puzzle, più perdeva quelli che già aveva senza trovarne di nuovi.
―Wendy? Mi state ascoltando?― La stridula voce di Elizabeth ridestò la giovane dai suoi pensieri ed un fievole sorriso le apparve sulle labbra proprio quando nella sala da tè entrò George. Quel giorno aveva portato all'indietro i capelli con un sottile strato gelatinoso ed il gessato che aveva indossato rendeva onore al suo corpo robusto e ben allenato.
―Mie care.― Tuonò mentre salutava la sorella con un bacio sulla gote e Wendy sul dorso della mano.
―Con una bella giornata come questa, vi rintanate in casa?― La sua voce tradiva sdegno ma anche una nota divertita.
Bella giornata? dov'è che vedi questa bella giornata, George?― Brontolò Elizabeth dando una rapida occhiata alla finestra e scorgendo così una leggera pioggerellina che andava a sciogliere la neve caduta.
―Dove tu vedi il freddo, mia cara.― Ma George smise di pensare agli sproloqui della sorella e si lasciò andare alla contemplazione di Wendy e della sua bellezza, folgorante bellezza.
―Oh, mia dolce amata. Vorresti passeggiar con me? Forse in giardino o una bella scampagnata all'aperto!―
Ma Wendy non aveva la benché minima intenzione di passare altre ore alla mercè della famiglia Ermakje. Voleva solo rintanarsi nelle sue stanze come aveva fatto Katherine.
―George, io...― purtroppo per Wendy la sua indole non le permetteva di rifiutare con tanta facilità e guardando dritta negli occhi del suo promesso sposo, si sentì imbarazzata e spoglia, per di più anche sporca. Peccatrice.
Aveva veramente commesso peccato? Cosa ne poteva saper lei? Era stata una congiura per distruggerle l'animo? Per non darle possibilità di chiarimento? No! No! “Io non so chi è stato, se è accaduto veramente! Io non so nulla! Forse era il conte e mi sta giocando un brutto scherzo. Io non ho commesso atti sgraditi! Io... io mi sono comportata così come una Jenkins dovrebbe comportarsi. Sono ancora pura, ho ancora la mia virtù e non la perderei per nulla al mondo se non dopo il matrimonio!” Pensava, pensava a raffica e certe volte pure sbagliato ma come biasimarla? Si sentiva stordita e alquanto in colpa.
―Sarò lieta di accompagnarti in una passeggiata prima di pranzo ma permettimi di suggerirti una cosa. Non è consigliato allontanarsi troppo, non con questo freddo e con questa bufera che tira. Stiamo un po' per il giardino e poi ci riscaldiamo prima di metterci a tavola.―
Il conte Ermakje sorrise e in quel sorriso traspariva una solida domanda: “come ci riscaldiamo, mia dolce amata?”
“Col fuoco, col fuoco che non sei capace di farmi provare, non tu almeno.” Sembrò che gli rispondesse Wendy attraverso una rapida occhiata.

Londra. Londra uggiosa e poco illuminata, Londra grigiastra che si disperde nel torpore dell'inverno e lascia che il sonno infanghi la mente dell'uomo, che l'agghiaccia. La Londra di fine ottocento era un grande manto che copriva l'intera felicità e apriva la sua epoca tra le strade nascoste, tra gli edifici poco conosciuti.
Quel giorno di inizio gennaio del 1897, Henry si trovava a Londra e riusciva a sentire sulla sua stessa pelle ogni singola emozione che quella città trasmetteva alle persone. Il suo umore titubante si era trasformato improvvisamente in forza, coraggio, determinazione. E proprio così lui si sentiva. In una strada ben conosciuta, dove le persone camminavano spensierate sotto l'ombrello e i bambini ridacchiavano vicino alle gonne delle donne, gli uomini abbracciavano le mogli o lasciavano che la collera prendesse il sopravvento, il giovane Mr Jenkins camminava spedito alla ricerca di un bar noto, chiamato “Caffè”. Si trovava esattamente alla fine di quella strada, dove era situato il più famoso e ben tenuto bordello dell'intera capitale!
Henry Jenkins arrivò davanti al bar con un leggero ritardo, la carrozza lo aspettava letteralmente dall'altra parte della città ed aveva proibito il cocchiere di seguirlo.
“Mi farò vivo io!” gli aveva detto e così l'uomo s'era ritrovato in una carrozza vuota, in balìa di un padrone che... beh, non si sapeva se sarebbe ritornato.
Gerard era già lì.
Un piccolo, piccolissimo sorriso affiorò sulle labbra di Henry e quando entrò, lo scampanellio che proveniva dalla porta, fece girare il gigolò che arrossì, arrossì pesantemente appena lo vide, ed Henry non poté se non sghignazzare ulteriormente.
―Posso sedermi?― Lo raggiunse, il tavolo che Gerard aveva scelto era molto, forse troppo appartato e tutto lasciava presagire un incontro clandestino ai presenti nel bar.
―Siamo qui per parlare.― Biascicò Gerard.
Henry lo trovò in gran forma, indossava un maglione verde scuro e al di fuori vi si intravedeva una camicia bianca, anche i pantaloni in velluto erano fatti di una stoffa ben pagata, di uno stesso colore verde, forse di un tono più basso.
Sembrava essersi ripreso dal grande Ballo Nevoso, non aveva più le occhiaie sotto gli occhi e i suoi comportamenti non davano per nulla a vedere l'esuberanza di chi si prostituisce.
Allora Henry si sedette sulla poltrona in stoffa di un bianco latte che era stata situata di fronte a lui. Erano divisi da una tavolino nero, in ferro, un po' traballante. Il “Caffè” non era di certo un bar prestigioso, ma aveva qualcosa che affascinava tutti, compreso Mr Jenkins.
―Vi dispiace se fumo?― Gli dava ancora del voi Gerard, ma non aveva nessun rispetto. Lasciò cadere uno scatolo di sigarette sul tavolo e se ne accese una col fiammifero. L'aria si riempì di quel rumore e poi dal fumo passivo.
Prima che uno dei due iniziasse a parlare e la smettesse una volte per tutto di squadrarsi in cagnesco ma ambiguamente, un cameriere li raggiunse ed entrambi ordinarono del tè. Tè caldo, bollente, come gli animi di quel giorno.
Entrambi erano infervorati.
―Siete in ritardo, stavo per andarmene.― Continuò Gerard, accavallando le gambe e guardando in altre direzioni, attento ai movimenti di una donna che dava un biscotto al suo cane e si lisciava la gonna in modo convulso.
―Solo di pochi minuti.― Ribatté l'altro.
―E visto che siete giunto sano e salvo, che ne dite di smetterla con questa farsa e di dirmi una volta e per tutte cosa vuole da me?―
Henry sorrise nuovamente e si rilassò sulla poltrona. Oh, quel ragazzo! Schietto, sempre sulle sue, dubbioso della gente ma altrettanto forte.
―Vai di fretta, per caso?―
―Sì, molto. A vostra differenza io di tempo non ho da perdere.―
Henry storse la bocca e lasciò che il cameriere posasse due tazze grandi di tè sul tavolino e si ritirasse con i soldi dei Jenkins nelle tasche.
―E perché sei qui se credi che sia tempo sprecato?― Ma Gerard non rispose, era diventato rosso dalla rabbia, si sentiva accaldato e i muscoli del torso si erano tesi.
―Ebbene, sono qui perché siete un uomo davvero esasperante. Se non avessi accettato la vostra offerta, avreste rivoltato Londra per trovarmi di nuovo e sapere quello che... beh, quello che volete sapere.―
In effetti, pensò Henry, non aveva mica tutti i torti, eppure non era lì per capire qualcosa, ma per capire proprio lui. Gerard. Lo intrigava in maniera ossessiva ed era stanco di sentire il padre urlar per casa, le sorelle crogiolarsi nei loro pesanti problemi e... nascondere quella che per lui era la più bella delle nature: l'amore.
Aveva voglia di divertirsi! Di divertirsi con un gigolò, di capire una volta e per tutte cosa nascondesse il padre con quel bordello. Era voglioso di intraprendere l'oblio.
―Sei mai andato a letto con un uomo?― Sussurrò Henry e si sporse verso l'avanti. Gerard arrossì ancora di più, quella domanda non c'entrava niente! Aveva gli occhi più spalancati ed un certo imbarazzo nell'aria. Dannati Jenkins.
―Oh...― ci pensò su un attimo e poi rispose, sicuro di ciò che diceva,
―senz'altro! Ma voi non avrete tale onore.―
Henry rise di gusto e Gerard arrossì ancora di più, indispettito.
―Così giovane ed ingenuo!― Chi? Chi era ingenuo? DannatO Jenkins!
―Cosa volete, Mr Jenkins?― parlò troppo ad alta voce Gerard e così alcune coppie presenti nel bar si girarono a guardar la scena ma presto si scocciarono di non scorger nulla nelle loro parole o nei loro gesti e ritornarono alle mansioni precedenti.
―Hai letto il biglietto che mio padre ha voluto consegnare alla tua milady e voglio, obbligatoriamente bada bene, sapere cosa c'era scritto e qual è stata la risposta della donna.―
Gerard abbassò la testa, ancora con quella storia? Non riusciva a farsene una ragione? E poi! Ma che stupido! L'aveva portato lui a Charlotte quel biglietto e non l'aveva neanche letto!
―Perché non l'avete letto direttamente voi?― si ritrovò a domandar.
―Perché...― rispose certo Henry, ―sono di una certa discrezione, ma se ci sono altri modi per saperlo, l'intraprendo senza problemi.―
―Continuo a non capire.― Soffiò Gerard.
―C'è qualcosa che non quadra ragazzo. Voglio capire, capire cosa ci fosse scritto e soprattutto il perché.― Gerard comprese anche un'altra cosa: tra Henry e il padre non scorreva buon sangue, c'erano profondi problemi tra i due, problemi che andavano ad indebolire il nucleo familiare e non permetteva una buona conversazione tra i due.
―Quindi siete talmente caparbio che avete scelto di “ingaggiarmi” per scoprire la verità seppur essa si trovava proprio lì... fra le vostre delicate e fanciullesche mani!― Questa volta fu il gigolò a sghignazzare.
―Qualcosa da obiettare?―
―Molte cose!―
―Ad esempio?―
―Ad esempio perché diamine io. E perché siete così certo che io mi prodighi in un tale affronto!―
―Lo farai e vuoi anche sapere il motivo?―
Gerard strinse gli occhi ed allontanò la tazza da tè. Non avrebbe bevuto una bevanda che non era stato capace di comprarsi da solo. Era una regola fondamentale nella sua vita, soprattutto poi se la persona che aveva avuto l'onore di comprarla era una feccia di Jenkins.
―Se mi è concesso.― Digrignò tra i denti.
―Perché...― indugiò Henry, lasciando un piccolo periodo di pausa e suspense, una suspense che Gerard non riusciva a sentir sua.
―Mi piaci.― Gerard strinse gli occhi, ―ed anche io... ti piaccio. Anche se fatichi ad ammetterlo.―
Il gigolò rise di gusto e scosse la testa, divertito.
―Visto che non c'è nessun guadagno in ciò, credo proprio che rifiuterò l'offerta e... farò a meno del tuo amore.―
―Non puoi farne a meno.― Ribatté Henry.
―E perché mai, Mr Jenkins?―
―Perché... io ho soldi, prestigio e potrei elevare la tua situazione di vera... mèrde.―
I lineamenti del viso di Gerard si irrigidirono e in un impeto di orgoglio, prese il cappotto che aveva appoggiato sullo schienale della sedia ed indossandolo, abbandonò il tavolo.
―È un no?― Gli urlò dietro Henry ma non gli pervenne risposta.
Il gigolò uscì dal locale e cercò, almeno per un attimo, di calmare il cuore che batteva all'impazzata ed i polpacci che cercavano di cambiare direzione.
“Inetto, inetto uomo.” Pensava.
Nel frattempo Henry lo aveva inseguito in strada ma Gerard aveva intrapreso già la via per il bordello. A quanto pare non aveva bisogno di schiarirsi le idee, non aveva bisogno di capire se era meglio accettare o meno. Non aveva neanche bisogno di meditare su ciò che gli era stato detto. In fondo Henry si era appena dichiarato!
Decise quindi di seguirlo.
Intraprese anche lui la via per il peccato, se così vogliamo definirla, ed intravide la sagoma del giovane perdersi dietro l'angolo, proprio all'entrata de Le Dommage.
―Gerard! Aspetta!― Urlò ancora Henry ed aumentò l'andatura del passo, speranzoso di raggiungerlo in tempo ma l'unica cosa benefica di quella brutta camminata, fu un'uscita inaspettata.
Davanti all'entrata dell'hotel c'era una Berlina parcheggiata molto, molto familiare. Henry era confuso.
Guardò verso l'interno ma non scorse nulla, Gerard era già sparito per chissà quale piano.
Indietreggiò di qualche metro e fu la cosa più saggia; di lì a qualche minuto, un uomo ben vestito, dai medi capelli biondi ed un sigaro tra le labbra uscì dall'hotel.
“Ma cosa...” aveva con sé un bastone nero, in legno di mogano probabilmente, per cercare di nascondere il suo esser claudicante, e con quello diede un paio di colpi alla carrozza prima di salirci.
“... cosa ci fa Mitchell Viktor nella casa del diavolo?” fu l'ultima cosa che pensò Henry.

Katherine scese le scale con estrema lentezza. La testa le doleva più di prima ed il corpo era ancor più intorpidito.
Il viso pallido era stato incipriato in malo modo e gli occhi ricalcati da un sottile strato nero risaltavano la luce fievole che quel giorno cercava invano di illuminarli.
La sala da tè era vuota, nessuno più vi soggiornava e una teglia di tè freddo era poggiata sul tavolo in legno lontano dal fuoco.
Presto entrò Sheila con aria impettita e Katherine capiva che la donna era offesa, veramente offesa. Non le aveva detto nulla di che ma avrebbe potuto farlo, e questa possibilità probabilmente aveva ferito l'animo poco fragile della donnona.
―Vostro padre vi aspetta nello studio e con lui vi troverete la famiglia Griffiths riunita. Il tè è già stato servito lì, se volete iniziare ad anticiparmi, vi sarei riconoscente. ―
Lì per lì, Katherine avrebbe voluto dirle qualcosa, forse una banale frase di scuse, ma proprio non ci riuscì, forse non era nella sua indole, forse era davvero troppo nervosa e quindi, un po' come un cane bastonato, si recò in biblioteca senza fiatare e senza far scricchiolare il pavimento.
Bussò una, due, tre volte, alla fine il padre decise di farla entrare e Katherine, con i capelli ancora un po' cotonati in testa e residua da due giorni infernali, si ritrovò dinanzi all'intera famiglia Griffiths come già presagito dalla governante.
―Oh, eccoti finalmente!― Sbraitò il padre, ch'era seduto spaparanzato su una delle poltrone vicino al camino, nell'altra c'era Mrs Griffiths. Annabelle. Katherine si morse la guancia interna con i denti. Voleva scannarla, triturarla, infliggerle dolore. A lei e a quei maledetti seni che erano stati accarezzati da mani... mani che sciaguratamente conosceva bene.
L'attenzione però non poté soffermarsi a lungo sulla donna, il figlio dai capelli marroncini e di cui ignorava il nome, si trovava in piedi poco più dietro della madre e la squadrava da capo a piedi con una certa insistenza.
Quando Katherine incrociò il suo sguardo non riuscì più a captare quella timidezza che aveva scorto la prima volta, ma semplicemente un'aria felina e molto, molto impertinente.
Si sentì le guance arrossire appena e un moto di repulsione nei confronti del giovane.
―Ti vedo un po' sciupata, mia cara.― Parlò la donna e Katherine abbassò appena il capo in segno di rispetto, con le mani raccolte sul grembo e il corpo irrigidito.
―Non ho dormito bene queste notti, la bufera ed il ballo che c'è stato sono riusciti a scompigliare la tranquillità e la monotonia del mio animo.―
A tali parole, il padre scoppiò in una sonora e grassa risata, seguita da quello dell'altro uomo, Mr Griffiths.
―Tranquilla e monotona! Credo di aver scambiato Katherine con Wendy...― commentò l'uomo, in preda ancora a quel brutto attacco di ilarità.
―Ma padre... accettate le cose così come stanno.― Soggiunse la giovane e Mr Jenkins la zittì con la mano, accennando anche ad avvicinarsi.
―C'è una notizia che debbo darti, mia cara.― Katherine ormai era al fianco della poltrona in cui sedeva egregiamente l'uomo.
―Sono qui per ascoltarvi.―
―Ti piacerà, senz'altro. La famiglia Griffiths alloggerà qui un altro po' di tempo, forse un mese, o due; e quindi gradirei molto, ma davvero molto, che tu e Joseph vi avviciniate. Non conosce molte persone qui in giro, potreste recarvi dai Bourbès o...―
Katherine non riuscì a trattenersi e domandò spropositatamente: ―Chi è Joseph?―
Proprio in quel momento, il ragazzo dai capelli marroncini che Katherine era stata costretta ad accogliere giorni addietro sull'androne di casa, si fece avanti e rispose ch'era proprio lui Joseph.
La ragazza arrossì e si sentì addosso lo sguardo inquisitore di Mrs Griffiths.
―Oh... beh, padre, è ovvio che non c'è nessun problema a riguardo. Sarà un piacere intrattenerlo in questi giorni di ordinaria amministrazione. L'inverno porta una tale noia!― Ma Katherine sapeva che c'era dell'altro, un altro che non voleva proprio venirne a conoscenza.
La conversazione presto venne distratta da un nitrito di cavalli. Mrs Griffiths saltò dalla poltrona e si precipitò sul davanzale della finestra per scorgere il nuovo arrivato.
Sia Mr Jenkins che Mr Griffiths rimasero sbalorditi da tale comportamento, ma subito dopo la donna si scusò, credendo che fosse il corriere.
―Oh, no, non è il corriere,― proprio in quel momento era entrata Sheila per riprendersi la teglia da tè ed informò quindi anche sull'uomo ch'era giunto a Winslow Hall, ―è Mitchell Viktor, manca da qualche giorno. Credo sia ritornato anche il signorino, però. Mi pare di aver scorto la sua carrozza in lontananza.―
Un sottile silenzio s'impadronì della stanza e Katherine, con ardente coraggio, guardò male la donna e quest'ultima se ne accorse, lasciando che lo sconcerto si impadronisse del suo viso.

Un singulto pauroso proveniva dal basso della stanza, rannicchiato in un angolo, seduto tra le pieghe del lenzuolo, con il viso tra le mani e lacrime nere che scendevano paurosamente sul viso del giovane. Furono poche e silenziose ma impregnarono talmente tanto quel momento, da scalfire l'animo vuoto delle mura.
Daniel aveva in mano fogli di carta e matite mal temperate; scriveva, stracciava, esasperato in un lago di parole e di sentimenti strozzati sul nascere.
Qualcosa dentro di sé si muoveva, il dolore malsano di un brutto giorno. Ma non era solo uno. Erano molti. Le labbra bruciavano come carboni ardenti e il ricordo di un bellissimo corpo color panna tra le mani, labbra morbide e macchiate di un rossetto che sapeva di more, con un retrogusto di alcolico, era vivo dentro di sé.
Il poeta aveva il cuore ridotto a brandelli, aveva il fiato corto ed una voglia pazzesca di urlare a Wendy, la sua musa, ch'era lui, lui quello che l'aveva per un attimo posseduta. Aveva sentito ogni singola sensazione che la penetrava nelle ossa, sensazioni che lui aveva generato, con il suo amore, la sua smania platonica.
Un angelo caduto dal cielo e non c'era niente di carnale o passionale in ciò, c'era solo lui e le stelle, l'infinito, l'ignoto. Come raggiungere il grande quando si è così piccoli?
Non essere riconosciuto, essere stato ripudiato tanto facilmente, lo aveva quasi ucciso ed ora, per terra, mezzo nudo, con un bicchiere di brandy tra le mani e l'alito che puzzava di alcol, aveva deciso di buttare giù qualche riga malformata.
Cosa fare? Come comportarsi? Cosa accettare e cosa no?
No, non poteva accettare una simile cosa.
Wendy non poteva essere di questo... George. Ma chi era, appunto? Il conte? Quell'essere sporco? Sporco fin dentro alle viscere che avrebbe macchiato la sua vergine donna? La sua amata, casta, pura e perfetta donna?
Ma come poteva essere tanto casta e pura se si era lasciata andare a lui, che altri non era se non Daniel, il poeta in mano agli usurai, sul lastrico e pronto a morir per nulla?
L'uomo si alzò, barcollante, trepidante di brutte, bruttissime sensazioni.
Si avvicinò allo specchio e guardò a lungo il suo riflesso, veramente a lungo, finché in un impetuoso coraggio, non diede una grande capata e lo specchio si ridusse in frammenti.
Piccole schegge caddero sul suo viso e le lasciò fare, gli lasciò infliggere un tal dolore, dove riusciva persino a trarne sollievo.
―Oh, cos'è l'amore se non lo struggimento dell'anima, la sua rovina, la sua disgrazia?―
Aveva scritto sui fogli bianchi.


Spazio scrittrice:
Ciò che vorrei dirvi è grazie.
Grazie per esserci dopo mesi, per non lasciare a vuoto le mie parole.
Grazie di aspettare pazientemente, grazie di non mollar mai.
Katherine, Wendy, Gerard, Viktor, Henry, Ernest, Sheila, Charlotte... hanno bisogno di voi più di chiunque altro. Loro vivono attraverso noi, attraverso ciò che non sappiamo dire nella realtà. Vivono in un'altra epoca ma ridono come i bambini di oggi, piangono e soffrono come uomini primitivi.
Loro sono solo esseri umani che stanno imparando ad amare, ed amano come una volta si amava. Con calma, con agonizzante attesa. Amano ed imparano ad amare perché solo questo sanno fare. Ma per amare ed imparare ci vuol fegato perché il gelo dell'inverno, il torpore della notte, le lacrime di un disastro... sono tutte cose che accadono, accadono e li devastano.
Ognuno di loro rappresenta un sentimento: vendetta, pudicizia, bontà, cattiveria, buon senso... E ognuno di loro ha una storia da raccontarvi.



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