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Autore: HimeHime    08/01/2015    1 recensioni
Ed eccomi alla mia seconda fic! Sempre sui 100, sempre rigorosamente Bellarke! Ho pensato di dividere questa storia in tre capitoli, come tre fasi distinte della vita dei ragazzi, che partono con la battaglia per la conquista della guerra, proseguono con una Clarke che si ritrova a dover fronteggiare gli esiti della guerra e soccorrere i sopravvissuti e terminano con un capitolo tutto dedicato ad un ipotetico futuro (e qui non anticipo nulla e lascio la vostra fantasia fare il lavoro sporco ahah). Che dire ?! Buona lettura !! :)
Genere: Azione, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, John Murphy, Lincoln, Octavia Blake
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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E siamo arrivati all'ultimo capitolo. 
Innanzitutto le scuse per averci messo un po' a scriverlo, ma le feste di Natale sono le feste di Natale e nessuno può uscirne illeso -,- ! 
Approfitto di questo spazietto per ringraziare chi di voi ha già letto la fic e voglia continuare a farlo fino alla fine, a me non fa che molto, molto, molto piacere. 
Che succederà ora a Clarke.... si sarà lasciata scappare Bell ? ..... ahah  se avete capito la mia profonda fede bellarke sapete che è poco probabile ma.. insomma buona lettura ! :) 

( ps. come al solito: i commenti sono bene, bene, beeeeeene accetti! )

CAPITOLO III. 

“Buongiorno”
“mhm…. Ehi”  Clarke cercò di mascherare il disappunto. Si diceva sempre che prima o poi si sarebbe abituata ad essere svegliata dai capelli bagnati del marito sul viso, ma sfortunatamente quel giorno non era ancora arrivato.
Un’altra cosa che si chiedeva era come facesse a svegliarsi così presto tutte le mattine e trovare le energie per una corsa di almeno un’ora, qualunque fossero le condizioni meteorologiche.
Poi, come ogni giorno, lui premette il naso sul suo collo, affondando il viso tra il mento di lei e la sua spalla e, come ogni giorno, Clarke dimenticò l’irritazione e ritrovò il buon umore. Quel gesto le ricordava sempre notti lontane di guerra, speranza, sudore e primi silenziosi avvicinamenti.
Quando poi lui prese a baciarle il collo, lei si lasciò scappare un sorriso e gli rispose con un “Buongiorno, tesoro”.
                “tesoro”. Non avrebbe mai pensato, prima, che quella parola potesse un giorno uscire dalle sue labbra, né tantomeno che quello in cui si trovava sarebbe stato il suo futuro. Da piccola aveva amato i suoi genitori e quasi invidiato l’amore che c’era fra loro: forse temeva di non riuscire ad avere altrettanto, consapevole che un sentimento simile  non era certo una cosa comune; era il suo più grande desiderio.
Poi le cose erano cambiate quando erano stati mandati sulla Terra: da allora le priorità erano state altre e, insieme ai suoi sogni, era cambiata lei. Tutti i suoi desideri e le sue speranze erano apparsi sciocchi e inappropriati di fronte alla necessità di sopravivere giorno per giorno.
Finn aveva aperto un piccolo spiraglio nella sua corazza, e lei aveva permesso alla sua luce di entrare, ma poi lui era morto e lei si era chiusa ancora più in se stessa. Si era convinta, a poco a poco, che l’amore non fosse per quel mondo e che soprattutto non fosse per lei.  No, il suo compito era un altro: badare a quei cento ragazzi (o a quelli che di loro erano rimasti), condurli alla salvezza, non permettere che succedesse loro altro male.
Solo quando la guerra e il pericolo sembravano lontani, si era accorta che non era mai stata sola in questo compito: c’era qualcuno che era sempre stato al suo fianco, c’era qualcuno che come lei aveva imparato ad erigere delle barriere attorno a sé, ma che allo stesso tempo era riuscito a smontare le sue, mattone per mattone .
Clarke non era mai stata veramente sola e se ne era accorta  solamente quando aveva rischiato di perdere quell’unica persona: quella notte aveva lottato e pregato per poter ancora avere Bellamy al suo fianco; in qualche modo qualcuno doveva averla ascoltata perché anni ed anni dopo quel ragazzo, quell’uomo, era ancora al suo fianco.
Alzò il braccio, imprigionato sotto il peso di lui, quel tanto che riuscì per abbracciarlo; passò le dita sulla cicatrice nella sua spalla. Ormai era diventato quasi un gesto scaramantico, per non dimenticare mai le sensazioni di quella notte, il brivido e il vuoto allo stomaco che le avevano causato la semplice paura di perderlo.
Quella notte aveva capito di amarlo.
Non avrebbe voluto interrompere quell’abbraccio, mai.
“Dovrei andare a preparare la colazione” disse, suo malgrado.
Fu sollevata quando lui mugugnò la sua risposta contrariata “mhh.. resta ancora qua!”
“Bell, fra poco arriveranno tutti e…” stava obiettando qualcosa di cui non riusciva a convincersi neppure lei quando..
                “Papààààààà”
In un attimo la tranquillità di quella mattina fu spezzata da un uragano di riccioli scuri, che piombò sul letto con un balzo e sconvolse la tranquilla routine dei due.
“Papà, stai in guardia!”
Clarke si scansò un po’, limitandosi ad accennare un “ehi, piano, furia”, che sapeva già non avrebbe sortito alcun effetto. L’incapacità di dormire più dello stretto necessario era qualcosa che il piccolo aveva sicuramente ereditato dal padre, assieme alle sembianze, fatta eccezione per il nasino a punta e la forma dei piedi; eppure era convinta che i bambini di quell’età odiassero dover lasciare il letto la mattina presto.
“ahahah, mamma, mamma aiutami!” Bellamy era passato al contrattacco con un’arma segreta che faceva sempre capitolare il piccolo in pochi minuti: il solletico.
“ahah mamma.. ahha, mamma..ahah aiutami ahah”
Clarke si concesse ancora qualche secondo per guardare da lontano i suoi due maschietti, poi decise di intervenire ripagando Bellamy con la stessa moneta. “Arriva la mamma!” lo rassicurò soffocando una risata.
Sapeva che, se c’era una cosa che poteva atterrire Bellamy in pochi secondi, quella era proprio il solletico.
Il marito, preso alla sprovvista, si dichiarò battuto in poco tempo e Clarke abbassò le mani.
Il piccolo però ancora non ne voleva sapere di concedere una tregua ai genitori, così i due si scambiarono uno sguardo complice e, non senza sforzo, riuscirono ad afferrarono per i polsi e per i fianchi, affondandolo tra i cuscini. Quando poi Clarke iniziò a riempirlo di baci sulla faccia e sulla testa, lui decise di gettare finalmente la spugna: “ok, ok, mamma, basta!”.. “bleeah smettila, mamma! Ahah”
                “Davvero? Ti fai battere dalla mamma? Che cosa ti insegnano a scuola?” sorrise Bellamy.
Clarke gli riservò uno sguardo tagliente: poi gliel’avrebbe fatta pagare. Il bambino intanto si era rabbuiato.
“Che succede?”
“Non ci voglio più andare a scuola!”
“E perché no?! È successo qualcosa?”
Il ragazzino scoprì un livido nel braccio “..lo zio Murphy.. ”
“Hai di nuovo provato ad interrompere una lezione di sopravvivenza con un attacco a sorpresa?”
Il piccolo abbassò gli occhi “Non mi interessa imparare a costruire trappole! Io voglio una pistola, come quella di papà!”
 Bellamy iniziò a ridere, quasi fosse orgoglioso di suo figlio, ma vedendo il biasimo negli occhi di sua moglie, cercò di riacquistare un certo contegno e posò una mano sulla sua testa: “lo sai che anche il papà ha dovuto imparare quelle cose? sono molto importanti”
A quanto pare però non fu molto convincente, e la bionda prese la palla al balzo: “Il papà e lo zio Murphy erano proprio come te una volta, sai?”.
Si accorse di aver catturato la sua attenzione, quindi continuò “ erano coraggiosi (almeno uno dei due, pensò) e forti e avevano voglia di far vedere di che cosa erano capaci, però erano anche un po’ troppo sfrontati, a volte agivano prima ancora di pensare..”
“E poi cos’è successo?”
Lei alzò le spalle, come se la risposta fosse ovvia: “e poi è arrivata la mamma che li ha rimessi in riga!”  disse fiera.
Bellamy la fissava e scuoteva la testa, sorridendo leggermente.
Capì che era arrivato il momento di prendersi la sua rivincita quando la moglie disse “Se ascolterai lo zio Murphy e ti darai da fare, magari un giorno diventerai come la Nonna: un bravo cancelliere” e il bambino prontamente rispose “No... voglio ancora una pistola come quella del papà!” lasciandola interdetta e senza parole.
                Bellamy sarebbe voluto scoppiare a ridere, ma lo sguardo negli occhi della donna diceva che era bene che si trattenesse.
Mandò il piccolo a vestirsi e le rivolse uno sguardo che era più una domanda “Pace?”
“Oh, non credo proprio! Ora hai da farti perdonare il doppio… tesoro..” rispose in tono di sfida, ma stentando a mantenere lo sguardo serio.
“Va bene” disse lui stampandole un bacio sulla bocca e allungandosi per raccogliere una t-shirt nera “Allora tregua”
Poi aggiunse: “andiamo: oggi è la tua giornata, futuro cancelliere”
                Era così: Abby aveva deciso che era arrivato il momento di lasciare il suo posto alla guida della comunità per dedicarsi di nuovo alla medicina. Aveva detto che era ora che la figlia prendesse il suo posto.
Quel giorno si sarebbe festeggiato il passaggio d’incarico con una breve cerimonia.
               
Erano attorno alla tavola da pranzo, nella stanza più simile a una cucina che gli abitanti dell’arca vedevano da generazioni, quando sentirono dei passi ed una persona urlare i loro nomi.
Non furono sorpresi quando videro Octavia Blake varcare la soglia e fiondarsi verso suo nipote sollevandolo in aria prima ancora di liberarsi dall’enorme zaino che aveva sulle spalle. “Sei cresciuto, piccola peste!!”
“Fammi vedere i muscoli!”
Quando mise giù il bambino fu il turno di Bellamy, che venne strette quasi impotente in un interminabile abbraccio, e poi di Clarke.
“Allora ragazzi? Sentito la mia mancanza?”
Intanto il ragazzino si era giù fiondato tra le braccia della seconda persona che aveva varcato la soglia : “Zio Lincoln!”
                Octavia e Lincoln erano fuori casa ormai da due anni, per un viaggio di esplorazione che li aveva portati a sud. Prima ancora avevano affrontato l’est del continente, fino ad arrivare alle tribù dei grandi laghi, tra i quali avevano incontrato alcuni conoscenti di Lincoln.
Avevano deciso di iniziare le loro esplorazioni appena la guerra era finita e i giorni di pace per la gente dell’arca cominciati.
Octavia cominciò a raccontare i loro viaggi e sembrava che non dovesse più smettere, come se le persone incontrate, i posti visitati fossero infiniti. Quando le capitava di parlare di un villaggio che non aveva accettato la richiesta di pace e convivenza che portava da parte del popolo dell’arca i suoi occhi si rabbuiavano, ma poi tornavano di nuovo a splendere quando descriveva un nuovo tipo di farfalla o un animale incontrato per la prima volta.
Lincoln la ascoltava silenzioso, facendo cenni di assenso ogni tanto e non staccandole mai gli occhi di dosso  come una lucciola che voli attorno alla sua fonte di luce preferita.
                Poi arrivarono Jasper e Monty, che mangiarono più di quanto fosse possibile immaginare, impilando pankake, cioccolato e fragole,  mentre Bellamy tentava invano di deviare l’attenzione del figlio da quei due cattivi esempi.
L’ultima persona a varcare la soglia fu Wick: “è ora ragazzi, meglio che ci avviamo”
“Raven?” si domandò Clarke stupita
“manca anche Murphy” aggiunse Bellamy, e a qualche passo da lui il figlio fu percorso da un brivido di paura al ricordo dell’ultima volta che aveva visto lo zio.
Il biondo fece un lungo sospiro “lo abbiamo incontrato proprio mentre stavamo arrivando, ci stanno aspettando fuori” . Sottolineò la parola “aspettando” e tutti capirono ciò che voleva dire in realtà: appena si erano incontrati dovevano aver iniziato a battibeccare su qualcosa e lui aveva deciso bene di lasciarli alle loro solite sfuriate ed andare a raccattare quello che rimaneva della colazione.
                Fu Clarke a interrompere i due quando uscì di casa, non dovette neanche parlare perché la mora le si gettò tra le braccia congratulandosi con lei, mentre Murphy decise che era ora di torturare ancora un po’ il piccolo Blake conoscendo la sua poca resistenza al solletico.
 
Poco dopo erano tutti fuori, e si dirigevano al palco eretto per l’occasione nella piazza principale del campo.
Clarke e Bellamy camminavano in testa a tutti, ai loro lati due guardie che Bell aveva predisposto per proteggere la moglie già da quella mattina: dopotutto stava per diventare il cancelliere, la sicurezza prima di tutto.
Il piccolo li seguiva seduto sulle spalle di Lincoln, che a sua volta camminava al fianco di Octavia; i loro passi sembravano coordinati, era una cosa che Clarke aveva notato molte volte e le piaceva pensare fosse un segno visibile di quanto fossero legati.
Ora si chiedeva se anche lei e Bellamy camminassero allo stesso modo. Sentiva il rumore della ghiaia sotto le scarpe del marito e sperò per un attimo di potersi rintanare in quel mondo dove erano soltanto loro due, come se non si fossero ancora svegliati dall’abbraccio in cui si stringevano la notte. Lui camminava al suo fianco, esattamente mezzo passo dietro di lei,  non lo vedeva ma sentiva la sua presenza.
Si disse che forse chi non li conosceva avrebbe frainteso, ma lei sapeva benissimo che cosa significava: fin dal primo momento, con il suo comportamento, Bellamy le aveva detto non “vai avanti, io ti seguo” ma, “sono qui, ti guardo le spalle”.
Era così. Solo lui era in grado di farla sentire protetta, al sicuro. Lui, per la prima volta, le aveva dato una casa, la sensazione che ci fosse qualcosa per cui lottare, sempre, che potesse di nuovo tornare a sperare nell’amore. Bellamy era la sua ancora, la sua famiglia, e se ne restava sempre un passo indietro come a farle sapere che, dovunque lei fosse andata, per quanto lontano, avrebbe sempre potuto voltarsi indietro e trovarlo lì, avere un posto al quale tornare.
Clarke voltò la testa un’ultima volta prima di salire le scalette che l’avrebbero condotta al palchetto e li vide tutti lì, riuniti. Avrebbe voluto come fotografarli con lo sguardo, per potersi portare dentro per sempre i volti dei suoi compagni, ancora una volta fianco a fianco, come lo erano stati nei momenti più difficili, come lo erano da tanti anni.
Il tempo aveva dato ad alcuni qualche ruga ai lati della bocca o sulla fronte, ad altri l’inizio di una stempiatura o qualche centimetro di altezza. La guerra aveva lasciato loro cicatrici e ferite, molti dei quali invisibili. Disegnò con la mente la figura di Finn in mezzo alle altre, perché era giusto ci fosse anche lui nella sua foto di gruppo, e dopotutto era la sua immaginazione, poteva fare quello che voleva. Premette il pulsante della sua immaginazione per scattare l’istantanea e chiuse per una frazione di secondo le gli occhi.
 
Una frazione di secondo.
Palpebre serrate.
Il suo cervello gli diceva che non poteva vedere nulla, nero, blackout totale… invece i suoi occhi ancora li vedevano. Vedeva tutti, tutti quanti i suoi amici riuniti: Murphy, Monty, Jasper, Wick, Raven, Finn, Lincoln, Octavia. Suo figlio. Suo marito.
La sua mano sfiorava quella di Bellamy.
Non era forse uno dei giorni più belli che avesse mai vissuto?    
  
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