Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: Harmony394    08/01/2015    12 recensioni
Sansa, subito dopo aver avuto il primo menarca, è costretta a sposare Joffrey appena tre giorni dopo la sua fine. Nessuna via d’uscita, nessun amico di cui fidarsi, nessuno pronto ad ascoltare i suoi cinguettii pregni di paura. Ma proprio quando la situazione sembra arrivata al capolinea, ecco qualcuno disposto a spezzare le inferriate di una gabbia che di dorato ha solo il colore. Qualcuno che non è né un principe né un cavaliere, ma un mastino. E il suo nome è Sandor Clegane.
«Perché siete sempre così crudele?!» domanda lei, le lacrime appese alla punta delle ciglia. Non mi piace vederla piangere, cazzo, soprattutto se la causa del pianto sono io. Ma non mi importa. Deve capire come funzionano le cose, che questa non è una delle sue fottute ballate ma la vita vera e che nella vita vera non esistono cavalieri ma solo chi muore e chi tenta di non morire. Il resto sono solo cazzate.
«Sarai grata per le cose crudeli che faccio quando sarai Regina e sarò l’unico a frapporsi tra te e il tuo adorato Re».
Genere: Angst, Drammatico, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Sandor Clegane, Sansa Stark
Note: Lime, Otherverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta
Capitoli:
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Poison & Wine 
 
 
 
 
 
Now and then when I see her face
She takes me away to that special place
And if I stared too long
I'd probably break down and cry
 
 
 
 
 
C’è un terribile tanfo di sangue e di piscio nell’aria. Non so chi di questi stronzi se la sia fatta addosso prima di perdere la testa, ma la cosa mi fa comunque godere come un maiale. Paura. Cosa c’è di più eccitante del vedere lo sguardo terrorizzato di un uomo che muore sotto la lama della tua spada? Semplici carcasse che giacciono ai miei piedi, niente più che cadaveri destinati a marcire, ed io sono il macellaio che li affetta uno dopo l’altro.
 
La bambina dai capelli rossicci davanti a me trema come una foglia e piange senza ritegno. Mi ricorda qualcuno. Non ci sono volute che poche ore per trovare il gruppo di coglioni che l’aveva presa. Cosa avessero intenzione di farle era più che chiaro, considerati i suoi vestiti strappati ed i lividi che riporta sulle mani e le braccia, ma la cosa mi fa comunque venire da vomitare. Avrà sette anni, per gli dèi. Che cazzo di mente malata vorrebbe fottersi una mocciosa non credo lo capirò mai, né ho intenzione di scoprirlo. So solo che sono quasi pentito di non aver tagliato i loro minuscoli cazzi, piuttosto che le loro teste.
 
Faccio per prenderla, ma lei fugge via spaventata un attimo prima che io possa riuscirci. Imprecando sotto voce le corro dietro e l’acciuffo per i capelli; dopodiché, senza curarmi dei suoi continui strilli e piagnistei, me la carico sulle spalle.
 
«Fottuti mocciosi», mugugno fra i denti. «Fottuto uccellino e fottuto me che mi sono lasciato convincere… per i Sette Inferi, vuoi star zitta?!», le grido contro, con l’unico risultato di farla piangere persino di più. Mi passo una mano sul volto, i nervi a fior di pelle e le dita che fremono dalla voglia di chiudersi attorno alla sua gola. L’ammazzo. Giuro che adesso l’ammazzo.
 
“Tutto ciò che vorrete!”.
 
Il pensiero di Sansa che mi giura e spergiura che se avessi riportato la mocciosa dalla madre avrebbe fatto tutto ciò che avessi voluto mi fa salire un brivido lungo la schiena, e l’immagine del suo corpo nudo che si stringe al mio si fa largo fra i miei pensieri con prepotenza. Il respiro mi si spezza in gola all’immagine delle mie dita che scorrono sopra di lei – dentro di lei.
 
Ha promesso, no? L’ha detto lei. Non può tirarsi indietro. L’ha detto e adesso deve farlo, dannati gli dèi.
 
Il suo sguardo spaventato mentre Joffrey mi ordinava di fotterla mi ritorna in mente, tagliente più di cento lame di Valirya, e il mio cuore sussulta di rabbia e disgusto. Ce l’ho servita su un piatto d’argento l’occasione di farla mia una volta per tutte, la ragazzina Stark. Basterebbe un solo schiocco di dita e potrei fotterla in tutti i modi possibili in cui un uomo può fottere una donna, e avrei persino tutto il diritto di farlo. Ed io voglio farlo, dannazione, ma non così. Non in questo modo. Non se lei non è d’accordo. Perché io non sono Gregor. Sono un assassino, un cane ed un ladro, ma non uno stupratore.
 
Eppure…
 
«FOTTUTI GLI DÈI!» Un male lancinante al polso mi distrae da quei pensieri. Mi divincolo con uno strattone dalla cosa che mi ha morso e la bambina cade a terra con un tonfo. Sul mio polso adesso spicca un grosso cerchio tratteggiato di rosso, lì dove quella fottuta mocciosa ha affondato le zanne. Scuoto la mano cercando di scacciare via il dolore e con furia mi dirigo verso il punto in cui la bambina è caduta: la trovo stesa a terra, con un grosso bernoccolo sulla fronte e le guance rigate dalle lacrime, svenuta. Sono tentato di rifilarle un calcio dritto in mezzo ai denti e farlo passare per un incidente, ma lascio perdere solo perché rischierei di ammazzarla sul serio – e poi chi lo sente l’uccellino?
 
La carico sul dorso di Straniero, bestemmiando. Perlomeno adesso la finirà di lamentarsi.
 
Arrivo al villaggio dopo qualche ora. Le persone che mi scorgono passare con la mocciosa svenuta sulla sella mi guardano inebetiti, come se fossero incerti sul da farsi, e si scambiano sussurri nervosi. Mi viene da ridere quando incontro i loro occhi acquosi e sfuggenti. Provateci pure a fermarmi. Una sola parola, vermi, e sarò lieto di avere una scusa per tagliarvi la gola uno ad uno.
 
«Oh… oh, l’avete trovata! L’avete trovata!», è la voce squillante della donna di prima a stonarmi le orecchie. Tiro le redini e lei non mi da nemmeno il tempo di scendere da cavallo che prende in braccio la figlioletta e le bacia le guance, gli occhi e la fronte, piangendo di gioia e ringraziando gli dèi. Io reprimo a stento un conato di vomito e corruccio la fronte. Non mi sembra siano stati gli dèi a salvare il culo di tua figlia, dannata idiota. «Grazie, sir! Grazie, grazie, grazie!».
 
«Non sono un sir», ribatto, con una punta di fastidio nella voce. «E adesso dammi la ricompensa che mi avevi promesso».
 
Provo una soddisfazione quasi infantile quando il sorriso che le andava da un orecchio all’altro si spegne di colpo. Boccheggia un po’, stralunata, ed io roteo gli occhi e stringo le labbra impaziente.
 
Giuro che se mi ha detto una stronzata…
 
«Siete qui!», poso lo sguardo su un’altra figura molto più piccola e aggraziata. Il mio cuore manca un battito quando incontro il sorriso sincero ed emozionato che Sansa Stark mi sta rivolgendo. C’è qualcosa di diverso nei suoi occhi, un sentimento che prima d’ora non aveva mai illuminato il suo viso in mia presenza. Con lo stomaco stretto in una morsa, realizzo che si tratta di gioia. «Sapevo che sareste tornato!».
 
«”Sapevo che sareste tornato”», le faccio il verso, scendendo da cavallo. «Certo che sono tornato. Cos’è, speravi che ci restassi secco a causa di qualche moscerino Finiscila e fai in modo che la troia paghi la ricompensa che mi aveva promesso, piuttosto che perder tempo».
 
Lei mi guarda con fronte corrugata e labbra imbronciate, la gioia che aveva solcato il suo viso è svanita nel nulla. L’ho offesa. Meglio così. Non voglio che mi creda uno di quei suoi sir del cazzo. Lei rivolge uno sguardo dispiaciuto alla donna, e quella si guarda attorno con disperazione e nervosismo. Le mie dita scattano d’istinto sull’elsa della spada in un muto avvertimento: se provi a scappare sarà l’ultima cosa che farai.
 
Intuendo l’antifona, un sospiro rassegnato lascia le sue labbra sottili. «Mi dispiace, mio signore. Vi ho mentito. Non ho soldi con me, né argento… ma vi prego, capitemi, mia figlia—».
«Non me ne fotte un cazzo di tua figlia!» L’avvicino con velocità, le narici dilatate e la voglia matta di ucciderla. Lo sapevo, cazzo. Lo sapevo che erano tutte stronzate! Questa lurida puttana! Ucciderò lei e la sua mocciosa! Sguaino la spada e lei soffoca un grido terrorizzato, stringendosi al petto la figlia. Prima che possa colpirla, però, l’uccelletto mi si para davanti.
«No!», urla, spingendomi indietro. «No! Non uccidetela, pagherò io per lei!».
«Sta’ zitta, uccelletto. Hai già troppi debiti sopra la testa per potertene permettere degli altri» Faccio per scostarla, ma lei di nuovo mi spinge indietro.
«No! Per favore, no!», mi prega. I suoi occhi si posano sulla figura della donna. «Lei… lei ci offrirà un posto per la notte per ricompensarci e del cibo! Dopotutto non abbiamo ancora un posto dove stare ed io non ho intenzione di dormire di nuovo fuori e al buio! Per favore...».
Il suo sguardo è fisso sul mio, così come quello della donna-bugiarda. Entrambe mi guardano supplicanti, gli occhi lucidi di lacrime e le labbra tremolanti. I passanti mi lanciano occhiate fugaci e indignate, qualcuno di loro bisbiglia di chiamare le guardie. No, cazzo. Non chiamerete proprio nessuno.
«Questa tua gentilezza ti farà uccidere, lo sai, vero?», rinfodero la spada, reprimendo a fatica un grugnito di stizza. «Bene, allora».
 
Sansa tira un sospiro di sollievo e lo stesso fa la donna accanto a lei. Non dice nulla, ma mi guarda con occhi colmi di delusione quasi a volermi dire: “Perché devi sempre essere tanto crudele?”. Serro i pugni lungo i fianchi, costringendomi ad avanzare dietro la donna che mi lancia occhiate fugaci e timorose e ci fa segno di seguirla. Ci avviamo verso quella che ha tutta l’aria di essere una locanda da cui provengono schiamazzi e canzoni stonate. Con un cenno del capo, intimo all’uccelletto di alzare il cappuccio del mantello e lei ubbidisce.
 
«La mia casa è in condizioni pessime, miei signori, ed il cibo è anche peggio. Tuttavia conosco il proprietario di questa taverna: sono certa che vi lascerà alloggiare senza farvi spendere un soldo quando saprà cosa avete fatto per me. Se volete seguir—» L’afferro per un braccio e mi chino verso di lei, il mio volto a pochi centimetri dal suo. 
«Prova ad ingannarci o a combinare casini, donna, e ti prometto che sarà quella tua dannata mocciosa a rimetterci la testa. Sono stato chiaro?».
 
Lei annuisce terrorizzata e per un istante sono certo che stia per scoppiare a piangere. La lascio di scatto, certo che farà come le ho detto, e lei corre all’interno della locanda. L’uccelletto si volta con rabbia verso di me, gli occhi assottigliati in due fessure azzurre e i pugni serrati lungo i fianchi, e mi scocca un’occhiataccia.

«Perché dovete sempre essere tanto odioso?! Stava solo cercando di aiutarci!».

Io mi avvicino, minaccioso, ma lei non si ritrae: i suoi occhi sono ghiaccio che brucia e la voglia matta di baciarla mi consuma dall’interno, rendendomi persino più irritato di prima. Digrigno i denti, il mio viso è così vicino al suo che basterebbe un solo passo per premere le mie labbra sulle sue... e solo gli dèi sanno quanto vorrei poterlo fare.

«Ringrazia che non l’abbia squarciata in due, ragazzina. Ci sono tante cose che detesto a questo mondo ma i bugiardi sono fra i primi della lista, pensavo di avertelo già detto. Adesso smettila di cinguettare, tira più su quel cappuccio ed entra».
 
Sulle sue labbra rosate danzano una decina di risposte, tuttavia non un suono esce dalla sua bocca. Si volta di scatto, impettita, ed entra in fretta e furia all’interno della locanda. Con le dita che mi tremolano di rabbia e desiderio, la seguo: una stanza stantia e piena di tavoli colmi di gente ubriaca mi si para davanti. Se non fosse per il fatto che ormai è troppo tardi per cercare un altro posto dove stare, me ne andrei di corsa. Non mi piace questa gente: so come sono le persone ubriache – io lo sono per la maggior parte del tempo – e so anche che una ragazzina come Sansa Stark non è adatta ad un luogo del genere. D’istinto le poso una mano sulla spalla, in un chiaro avvertimento a tutti coloro che la stavano osservando come se fosse stata un dolce, e godo nel vedere quei loro volti pallidi contrarsi in una smorfia.

Toccatela e vi ammazzo uno per uno.
 
Sansa non parla, nonostante sia evidente che non si senta a suo agio, e più per la voglia di farle dispetto che per altro rafforzo la mia presa su di lei, che arrossisce senza ritegno. Un sorriso sghembo mi incurva le labbra. È proprio una di quelle verginelle che si imbarazzano per la minima cazzata.
 
Davanti a noi, la troia di prima bisbiglia qualcosa all’orecchio di quello che ha tutta l’aria di essere il proprietario della locanda. Lui ci squadra, la troia sussurra un’ultima cosa al suo orecchio; lui annuisce, osserva con evidente paura la mia cicatrice e deglutisce a vuoto, per poi fingere un sorriso di circostanza. «Siete i benvenuti, miei signori. Vi ringrazio per quello che avete fatto per Helga, la mia cara amica. Se volete qualcosa non dovete far altro che chiederla».
 
«Vino», rispondo. Sì, il vino è proprio quello che ci vuole. «Tanto vino. E del cibo e dei letti puliti. Muoviti».
 
Lui annuisce, scambia un’ultima occhiata con la troia di prima e poi torna dietro il bancone a dare ordini ai servi. Helga si avvicina a noi, lo sguardo basso e imbarazzato. La mocciosa che tiene fra le braccia non si è ancora svegliata, ma respira molto profondamente. Di sfuggita, noto che ha lo stesso naso della madre.
 
«Ora io vado. Non potrò ringraziarvi mai abbastanza per aver salvato mia figlia».
«Siamo lieti di essere stati d’aiuto», replica Sansa, accarezzandole un braccio con delicatezza. Io roteo gli occhi. Lieta lo sarai stata tu che non hai fatto un cazzo. «Buona fortuna a voi e vostra figlia, e grazie per averci procurato un luogo dove dormire».
«Mi pento solo di aver fatto troppo poco. Buonanotte, miei signori.» Si congeda – finalmente – la troia bugiarda. Sono ancora tentato d’ucciderla, le mie dita accarezzano l’elsa della spada con voluttà, ma scaccio subito via quell’idea: non devo causare casini o arriveranno le guardie.
 
L’uccelletto va a sedersi presso un tavolo dal legno consumato dalle termiti e che non é apparecchiato. Dopo alcuni minuti passati in completo silenzio, il tizio grasso che stava dietro al bancone porta un otre pieno di vino e dello stufato che puzza di cipolla e di pesce. L’odore è disgustoso ma, a differenza dell’uccelletto che si limita a giocherellarci col cucchiaio, riesco a mandarlo giù.
 
«Non fare tanto la schizzinosa. Con molte probabilità sarà l’ultima cosa che mangerai per un bel pezzo».
«Ha un odore orribile…» Si lamenta lei, e all’improvviso mi ricordo che io detesto le persone che si lamentano.
«Cosa credevi? Che avremmo mangiato torte al limone e dolcetti al miele?», mando giù un po’ di vino. Perlomeno, questo è buono. «Non sei molto furba tu, nevvero?».
Le sue labbra si assottigliano così tanto da divenire un sottilissimo filo rosato. «Smettetela. Non avete il diritto di parlarmi così!».
«Ho il diritto di avere una ricompensa per aver salvato quella mocciosa, però. “Tutto ciò che vorrete”, ricordi?», mi pento subito di averlo detto. Volevo evitare questo discorso, e invece eccolo spuntare di nuovo assieme ad un terribile calore al basso ventre. Non so se sia dovuto al vino, ma ciò che è certo è che darei un braccio per strapparle i vestiti di dosso. Mando giù un altro sorso, poi sbatto il calice sul tavolo e mi piego verso di lei. «… O forse hai dimenticato?».
 
Se non fossi certo del contrario, direi che quella che ho di fronte è una statua di cera. Sansa è sbiancata di colpo, tutto il suo corpo si è irrigidito come pietra, le sue dita trotterellano con insistenza sulla superficie del tavolo. È assurdo e moralmente sbagliato, eppure questa situazione non fa che eccitarmi ancora di più. È colpa del vino, mi ripeto. Devo smetterla di bere questa roba.
 
«Allora, uccelletto? Non cinguetti più?».
«I-Io non ho dimenticato» Pigola lei, il suo labbro inferiore tremola. «Cosa… cosa volete che faccia?».
 
Voglio che ti spogli e che mi consenta di farti mia, proprio qui su questo tavolo che sa di muffa e polvere. Voglio baciarti e fotterti fino alla fine dei tempi, sapere che sapore hanno le tue labbra. Voglio te, uccelletto. Voglio solo te.
 
Riempio il suo calice di vino, poi glielo porgo. «Tieni», lei mi guarda senza capire. «Bevi».
 
 
 
 
«B-Bere?».
«Sì, uccelletto, bere. Quella cosa che fai quando hai sete. Puoi farlo?».
«I-Io sì, sì, posso ma…».
«E allora prendi questo cazzo di bicchiere e scolatelo tutto in un sorso».
 
Sono confusa e non mi do alcuna premura di nasconderlo. Che significa tutto questo? Vuole farmi bere del vino? Perché? Si tratta di una trappola? Vuole farmi ubriacare per farmi del male? No, no… lui non mi farebbe mai del male, lo so bene, eppure non riesco proprio a capire dove vuole arrivare.
 
«Allora?! Vuoi mantenere questa promessa, sì o no?», la sua voce raschiante come ferro battuto mi fa sussultare. Lui non sembra molto felice della cosa. «Ti ho già detto che odio i bugiardi, mi pare… sei una bugiarda oltre che una scema, uccelletto?».
«Non sono una bugiarda», con dita tremanti mi costringo ad afferrare il calice di vino. Se bevuto con lentezza fa meno male, diceva la mia septa, ma lei finiva comunque con l’ubriacarsi ogni volta. Io non farò come lei. Rimarrò sobria, come si addice ad una vera lady. «Berrò, se è questo che desiderate».
 
Prendo un grande respiro e mi costringo a bere: il vino scende veloce nel mio stomaco, lasciando una lunga scia calda dietro di sé, e con sollievo realizzo che non è poi così disgustoso. Il mio sguardo si posa sulla figura di Sandor Clegane ed il mio cuore perde un battito quando incrocio i suoi occhi: c’è un non so che di penetrante nel modo in cui mi guarda, quasi di famelico. Sotto la luce delle lanterne, la sua cicatrice sembra assumere i colori del sangue. Prendo un altro bicchiere, poi un altro e poi un altro ancora finché la testa non mi gira a tal punto che credo di svenire. Quando poso il calice ormai vuoto, lui mi rivolge un sogghigno sarcastico.
 
«Tutto qui? Non riesci a berne dell’altro?» Domanda in un sussurro. Uno strano calore al petto mi fa tremare le ginocchia e le dita, lo stomaco mi si chiude in una morsa. Scuoto la testa: non posso berne dell’altro. È fuori discussione.
«La mia septa diceva che—».
«La tua septa è morta, ragazzina. Bevi altro vino se non vuoi fare la sua fine» La sua voce è dura e crudele e per un momento mi ritrovo ad odiarlo per questo. Non voglio bere altro vino, non può obbligarmi. Perché non può semplicemente lasciarmi in pace?
«Perché volete che ne beva così tanto? Che piacere ne traete?» Sbotto ad un tratto, stufa di questa situazione. Lui mi rivolge un ghigno canzonatorio, mi si avvicina e mi prende il mento tra le dita: la sua stretta è forte e le mie guance si tingono di rosso. All’improvviso sento caldo dappertutto: nella schiena, nelle gambe, nella testa e nel basso ventre, e l’unica cosa che vorrei fare e correre a nascondermi per la vergogna. Ma cosa mi prende?
 
«La tua septa non ti ha mai spiegato perché gli uomini bevono tanto, ragazzina?».
 
Sì che l’ha fatto. Mi aveva detto che gli uomini bevono per stare meglio e per non sentire il freddo, che bevono quando vogliono far baldoria e quando vogliono dimenticare qualcosa, ma sono altre le parole che lasciano le mie labbra.
 
«No. Non l’ha fatto», rispondo, per il puro gusto di contraddirlo. Le mie labbra sono secche. Le lecco per umettarle, socchiudendo gli occhi ora diventati improvvisamente pesanti. «Perché lo fanno, mio signore?».
 
 Il suo viso si fa più vicino al mio e l’odore del vino e del sangue mi investe in pieno. Le sue dita possenti si posano sui miei capelli, attorcigliandosene una ciocca attorno, ed un brivido mi sale lungo la schiena. Con sgomento, mi accorgo che non si tratta di un brivido di paura. La sua mano sinistra risale lenta lungo il mio collo, il respiro mi si mozza in gola e il mio cuore batte così forte da far male. Sospiro, assuefatta da tutti gli odori e le immagini che mi circondano, mentre il volto deturpato del Mastino si avvicina di più al mio. Le parole lasciano le mie labbra prima che possa fermarle. «Cosa state facendo?».
 
Lui spalanca gli occhi di colpo, si allontana da me come scottato, gli occhi grigi pieni di muto terrore e la fronte aggrottata. Si alza in fretta e furia avviandosi verso il bancone, poi sale di sopra senza dire una parola. Non faccio in tempo a capire cosa sia accaduto che lui è già sparito, lasciandomi qui da sola con un calice di vino tra le dita ed uno strano senso di disorientamento nel petto.
 
Meglio così, no? Stava per baciarti, dopotutto.
 
Una parte di me, quella ancora lucida, annuisce a quel pensiero ma ad un tratto gli occhi grigi del Mastino mi si parano dinanzi, pieni di rabbia e di qualcos’altro che non gli avevo mai visto addosso, e lo stomaco mi si annoda in una morsa. Posso ancora sentire il calore delle sue mani che mi accarezzano il braccio, il cuore che mi batte così forte da far male, il calore al bassoventre che brucia come fuoco. Per una ragione a me sconosciuta, mi viene da ridere mentre tutto attorno a me inizia a girare e ad apparire sfocato. Provo ad alzarmi in piedi ma le ginocchia cedono prima che possa riuscirci. La situazione è così disperata che non riesco proprio a trattenere le risate. Dèi, se mi vedesse mia madre!, penso, ma al suo ricordo il sorriso che mi incurvava le labbra si tramuta in una smorfia d’angoscia. Un singhiozzo mi scuote le spalle ed io affondo il volto nel tavolo. La testa mi gira, gira, gira in un caleidoscopio di suoni, ricordi ed immagini, e le lacrime mi bagnano le guance.

«Perché piangi, dolcezza?», alzo lo sguardo ed incontro quello d’un uomo che non conosco, con zigomi alti ed un sorriso sbilenco che gli va da un orecchio all’altro. Vedo doppio e un po’ sfocato, tuttavia riconosco che quegli occhi non sono quelli del Mastino. Vorrei urlare e scappare via, ma la mia testa è troppo pesante e le mie gambe non collaborano. Lui mi tira con violenza verso di lui, facendomi perdere l’equilibrio, e le sue mani sono improvvisamente ovunque: sui fianchi sulle cosce e sul seno. Non riesco a reagire, la testa mi gira troppo e attorno a me è tutto sfocato e nebuloso. Dov’è il Mastino? Perché non è qui? Voglio andare a casa. Dov’è mio padre? Dov’è Robb? Perché mi lasciano tutti da sola? «Ti farò dimenticare tutto io, carina. Non piangere, vedrai che passerà tutto».
 
Solo quando le sue labbra viscide premono con violenza sulle mie ed il sapore amaro dell’aglio e del vino mi inonda la bocca, riesco a trovare la forza necessaria per allontanarmi e gettare un urlo. Evidentemente riesco ad attirare l’attenzione di tutti i presenti, perché all’improvviso nella locanda c’è un gran fermento e tutto gira ancora di più. L’uomo mi lascia di colpo, il suo sapore nauseante è ancora nella mia bocca, ed io faccio appena in tempo a capire cosa sta succedendo che cado seduta su una panca, troppo scossa per restare in piedi. La nausea mi sale alla gola così acida da farmi rimettere quel poco di zuppa che ho trangugiato poco prima. Ora, invece di un semplice mal di testa ho un terribile mal di testa.
 
Un tonfo sordo rimbomba nella sala. Alzo lo sguardo: il tizio di poco prima è steso a terra con la mascella spaccata e le mani tremanti, continua ad urlare e piagnucolare ma il gruppo di uomini che gli è accanto non osa fare nulla per aiutarlo. Mi rendo conto che la loro attenzione è rivolta a qualcos’altro, o meglio qualcun altro. Quando lo sento parlare – «Pulite subito questo schifo» – comprendo che si tratta del Mastino.

«Dieci minuti, ragazzina. Ti ho lasciata da sola per dieci fottuti minuti e guarda che cazzo hai combinato!» Dice, prendendomi per i fianchi e caricandomi sulle sue spalle. Le lacrime mi salgono agli occhi tutte assieme e mi lascio andare in un pianto liberatorio che gli bagna la cotta di ferro.
 «M-Mi dispiace, è… è… è tu—tta colpa m—ia».
«Puoi scommetterci che è colpa tua! Ora dovremo andarcene. Presto arriveranno le guardie per colpa di tutto questo casino e… e piantala di piangere!».
 
Ci provo, ma l’idea di dover di nuovo dormire all’aperto mi riempie d’un’angoscia così devastante da farmi lacrimare ancora di più. Singhiozzo che mi dispiace, che non era mia intenzione causare tutti questi problemi, ma l’unica risposta che ottengo da parte sua è quella che se non la smetto di frignare mi colpirà così forte da farmi stare zitta per sempre. Solo dopo qualche lunghissimo minuto riesco a calmarmi un po’ e ragionare con lucidità. La testa sembra scoppiarmi. Ad un tratto arriviamo nel punto in cui avevamo lasciato Straniero, gli montiamo in groppa ed in fretta ci dirigiamo lontano dal villaggio: non so dove siamo diretti, forse a Fairmarket che è il luogo più vicino a Riverrun e dove ci sono meno possibilità di incontrare soldati dei Lannister, ma al momento sono troppo esausta per pensarci.
 
Sembrano passare interi giorni prima di arrivare in quella che ha tutta l’aria di essere una grotta dove poterci riparare per la notte. Non so che ore siano, ma il cielo è ancora scuro e l’unica luce è quella della luna che illumina il bosco ed i nostri visi. Il Mastino mi dice che sono una ragazzina inutile e che porta solo guai, poi si slaccia il mantello e me lo tira addosso dicendomi di indossarlo se non voglio morire di freddo. Faccio come mi dice e, attraverso la stoffa, il suo odore di vino e sangue mi riempie le narici; un odore a cui ormai sono affezionata e che mi fa sentire, in un certo modo, al sicuro.
 
Scende un silenzio che pare di marmo. La sbornia è andata via, adesso resta solo un terribile mal di testa. Sono io a prendere la parola per prima, e la mia voce risuona ancora un po’ cantilenante e instabile.
 
«Perché prima siete scappato via?» Solo adesso mi rendo conto che questa domanda è molto impertinente e non adatta ad una lady. Lui ricambia il mio sguardo e nei suoi occhi leggo smarrimento e incertezza, come chi si trova di fronte ad un bivio e non sa che strada percorrere.
«Che te ne frega? Non mi sembra gradissi molto la mia compagnia, comunque» Ribatte infine, ma è evidente che ho colpito un nervo scoperto. Per un istante rimango in silenzio, ancora imbarazzata per essere stata tanto impertinente, ma l’attimo dopo le parole lasciano le mie labbra prima che possa fermarle.
«Vi sbagliate», sussurro, ed il calore al basso ventre ritorna più forte di prima quando ripenso alle sue dita che scorrono sulla mia pelle. «Io non disprezzo affatto la vostra compagnia».
 
Nonostante l’oscurità, sono certa di veder balenare un lampo di sorpresa nel suo sguardo imperscrutabile. Il Mastino si volta verso di me, mi guarda per un tempo che pare infinito – come se volesse capire se sto dicendo la verità o meno – e poi torna a guardare altrove.
 
«Va’ a dormire, uccelletto. Sei ancora ubriaca».
«No!», salto in piedi, ancora un po’ traballante. «Perché dovete comportarvi così? Perché prima vi comportate in un modo e… e poi—».
«E tu perché non riesci a tenere chiusa la bocca? Cosa vuoi che me ne importi se la mia compagnia ti aggradi o meno? Io voglio solo prendere il mio fottuto oro e andarmene. Non mi piacciono le ragazzine, soprattutto quelle come te che non fanno altro che procurarmi guai».
 
A differenza delle altre volte, le sue parole mi colpiscono come un pugno in pieno petto. Un groppo alla gola mi impedisce di parlare, di cercare una nota di menzogna nei suoi occhi, e all’improvviso mi sento così ferita da non riuscire quasi a respirare. Le lacrime mi pizzicano gli occhi ma la tristezza è troppa persino per piangere. Non riesco più a sostenere il suo sguardo. Con l’ultima briciola di fierezza che mi è rimasta gli do le spalle e mi allontano. Non mi farò vedere da lui in questo stato. Non gli darò questa soddisfazione.

«Dove credi di andare?», mi urla dietro lui. Io accelero il passo. «Vuoi farti sbranare dai lupi, forse?!».
«Lasciatemi in pace! Andate via!» Urlo in risposta, la voce spezzata dall’angoscia. Non ho idea di dove sto andando, né perché mi senta così male se ripenso alle parole che mi ha rivolto. È un assassino, mi dico, un bruto che uccide per divertimento e che non prova sentimenti per nessuno, ed io lo odio. So di odiarlo. Devo odiarlo. La testa mi scoppia. Tutto gira, gira, gira… persino mettere un piede davanti all’altro risulta difficile.
 
Lo odio. Voglio che vada via, che non torni mai più. Lo odio, lo odio, lo odio!
 
Il respiro mi si mozza in un gemito strozzato quando le sue dita mi afferrano un braccio facendomi turbinare verso di lui. La luce della luna illumina il suo viso ma le ombre nascondono la parte bruciata del suo volto, i suoi occhi luccicano d’ira e di qualcos’altro, qualcosa che non riesco a capire. Mi strattona in avanti ed io punto i piedi nel terreno per non cedere, gli grido contro di lasciarmi in pace, che non voglio più vederlo e che lo odio, ma lui non demorde e rafforza la presa sulle mie braccia.
 
«Lasciatemi! Non voglio più vedervi! Chiamerò le guardie, loro vi uccideranno e…».
«E poi cosa, uccelletto? Ti prenderanno e taglieranno la testa anche a te per aver ucciso Joffrey!».
«Io non ho ucciso Joffrey! Siete stato voi a farlo!».
«Sì, e sono certo che la cosa ti ha recato tanto dolore, nevvero? Perché fai tante storie? Che cazzo te ne frega di quello che penso di te?! Tu vuoi solo tornare dalla tua dannata madre e sposare uno di quei finocchi in armatura che ti piacciono tanto!».

Mi districo dalla sua stretta con uno strattone deciso, le lacrime appese alle ciglia che minacciano di cadere da un momento all’altro. La testa non smette di girarmi, il battito del mio cuore è così forte da rintronarmi nel cervello.
 
TuTum.. TuTum… TuTum…
 
«Sapete? Credevo che ci fosse qualcosa sotto quel soprannome che tanto vi piace darvi, che foste più di un semplice assassino e che almeno voi… che almeno voi foste diverso da Joffrey e da tutti gli altri! Ma mi sbagliavo…», non riesco più a trattenere le lacrime. Lui mi osserva con fronte aggrottata, gli occhi grigi fissi sui miei, ed io mi mordo forte l’interno guancia. «Siete proprio come tutti gli altri: egoista e bugiardo. Se solo aveste pensato che qualcuno in questo mondo può volervi bene, che non tutti credono che voi siate un mostro solo a causa della vostra faccia, forse voi… forse—».
 
Le sue labbra premono sulle mie con prepotenza, le sue dita si stringono attorno alle mie braccia con forza ed il suo corpo si preme contro il mio quasi con dolore. Mi bacia con disperazione, come se non aspettasse altro da tempo, e all’improvviso tutta la mia rabbia, la paura e la tristezza che mi stringevano il petto si destano per lasciare il posto ad un’euforia violenta e scalpitante. La sua barba mi solletica le guance, la sua lingua ha il sapore del vino e del ferro, e all’improvviso non è più Sandor Clegane il Mastino colui che mi sta baciando, ma Sandor Clegane l’uomo che mi ha salvata da Approdo del Re, che mi ha aiutata quando ero in pericolo e che mi ha teso una mano quando ero sola contro tutti.

Per un attimo cedo al bacio, rispondendo con timidezza, finché all’improvviso lui si allontana di getto come se si fosse scottato. Mi dà le spalle, il suo fiato è pesante e strascicato, ed il mio cuore batte così forte che sono certa che persino lui possa sentirlo. Non capisco cosa sia successo, non lo realizzo… la mia testa gira troppo, tutto il mio essere, anima e corpo, sembrano andare a fuoco. Un sospiro lascia le mie labbra.
 
«La promessa che mi avevi fatto prima che recuperassi la mocciosa», la voce di Sandor Clegane è un rantolo che si perde nell’oscurità della notte, ma io riesco ad udirla comunque. «Considerala mantenuta», si volta verso di me. I suoi occhi incontrano i miei, grigio contro azzurro, ed il dorso della sua mano mi sfiora una gota con la stessa gentilezza con cui mi aveva asciugato il sangue dalle labbra ad Approdo del Re. «… uccellino», mormora a denti stretti. Trattengo il respiro e chiudo gli occhi, certa che stia di nuovo per baciarmi, ma non accade niente. Quando li riapro, lui è già lontano.
 
Mi sfioro le labbra, il sapore della sua lingua è ancora nella mia bocca. Le mie guance si tingono di rosso ed il mio cuore perde un battito, mentre tutto di me sembra andare a fuoco.

Non volevo che quel bacio finisse.
 




- Note dell’Autrice
  1. La canzone all’inizio del testo è Sweet child o’ mine, dei Guns n’ Roses.
  2. Per il titolo ho utilizzato una canzone dei The Civil Wars, Poison&Wine, che reputo perfetta per questo capitolo.
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Eeeee ce la fece! :,D
Ciao a tutti! Avete passato bene le vacanze? Mi auguro che le vostre siano state più produttive delle mie, che le ho passate tutte a letto e davanti al pc. Ahaha
Per questo capitolo ho messo più tempo del solito nel pubblicarlo perché volevo che fosse il più perfetto possibile. L’ho fatto revisionare da una ragazza bravissima ,
Amy Dickinson -la quale inoltre ringrazio moltissimo sia per il sostegno che mi sta dando per questa fanfiction e sia per essere sempre tanto gentile con me -, e ho cercato di correggere tutti i possibili errori.
Sandor ha finalmente ceduto al desiderio di baciare Sansa, e lei adesso inizia a porsi un bel po’ di domande al riguardo. Spero come al solito di essere rimasta IC (a proposito: ho adorato descrivere Sansa ubriaca XDD)

Ci rivediamo al prossimo capitolo, grazie mille ancora a tutti coloro che mi seguite e lasciate un segno del vostro passaggio. Siete l’amore. Grazie, grazie e grazie ancora!
   
 
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