Capitolo
19
Brandelli
di solitudine
Orrore
e dubbio confondono i suoi pensieri affannati
E
dal profondo l’Inferno gli si agita dentro
Poiché
l’Inferno ha dentro di sé
L’Inferno
attorno a sé
E
non c’è passo che valga ad allontanarlo
Dall’Inferno
che in lui alberga.
(Milton,
Paradiso Perduto)
Nessun
timore. Nessuna emozione, nessun riflusso di quel dolore disperato che l’aveva
incatenato per due giorni e due notti, fino alla parziale conclusione, aveva
percorso il cuore di Auguste, nell’istante in cui aveva allungato la mano
dinnanzi a sé, sospingendo per l’ultima volta l’uscio appena accostato che
riparava da sguardi indiscreti l’interno della dimora di Lucien, ingrato
sepolcro aperto al pubblico.
Si
morse nervosamente il labbro, avvertendo per un poco il sapore aspro ed acuto
del proprio sangue.
Eppure,
non vi è sangue che tenga, quando nelle proprie vene non scorre altro che veleno
e rancore; non vi è sofferenza utile a espiare la colpa, alleviando la
consapevolezza della propria bestialità.
Non
vi è rimpianto nel cuore di chi ha consacrato la propria anima alla più cupa
dannazione, spogliandosi di ogni residuo d’umanità e gettando in pasto ai cani
la propria coscienza nell’attimo stesso in cui ha stretto l’arma in pugno con
gli occhi iniettati di una follia che, indefessa, segue il proprio tragico corso
senza conoscere vincoli né rimpianti.
Non
può essere ricettacolo di un amore assoluto e libero da condizionamenti dettati
dall’odio, l’animo di colui che maledice l’uccisore, per poi ripulire il sangue
versato con altrettanto sangue.
E
questo non cancellerà quel che è stato, non mi salverà dall’abisso trasudante
fiele nel quale sto annegando, non mi dispenserà dal disprezzo e dall’odio che
si deve all’assassino.
Ad
Auguste de
Non
sono l’angelo vendicatore, non sono l’eroe che vendica l’amato ucciso: sono la
belva ferita che si pasce della distruzione dei propri stessi assassini; e non
sarei degno neppure di pronunciare il nome di Lucien, se quell’atavica ipocrisia
che regola il mio atteggiarmi fra altrettante maschere di circostanza non mi
riempisse la bocca.
Auguste
si osservò tutt’intorno, smarrito: lo sguardo assente non indugiò più di qualche
breve istante sui volti che incrociava, non s’impresse abbastanza a lungo da
identificare le ombre che fluttuavano dinnanzi a lui. Non gli
importava.
In
silenzio, contemplò la stanza per l’ultima volta; l’androne immerso nel buio,
così ampio, ai suoi occhi, da infondergli un fatale senso d’instabilità. Seguì
il triste tremolio della fiammella in cima al cero che ardeva nella penombra,
dinnanzi alla bara aperta. Ma nessuna, nessuna delle sensazioni che l’avevano
pervaso soltanto una sera prima, nel momento in cui aveva rimesso piede in
quella casa, attraversava in quel momento la sua mente ormai svuotata, immobile,
scevra da ogni implicazione; soltanto un brivido di freddo che gli attanagliava
il petto in una morsa gelida e gli s’incuneava nelle ossa, diffondendosi nel
resto del corpo in un fremito d’orrore che lo scuoteva fino alle
estremità.
È
così. Non vi è rimorso, non vi è rimpianto, non vi è in me la disperazione che
mi spingerebbe a gettarmi ai piedi della cassa e darmi la morte con lo stesso
pugnale attraverso cui ho creduto di poter se non altro placare la mia sterile,
deleteria brama di vendetta. E questo, se possibile, è il tormento peggiore che
possa patire.
L’amore
per Lucien non ha bilanciato l’odio verso coloro che ti hanno privato di ciò che
amavi più di ogni altra cosa al mondo.
Non
è un’equazione complessa, Auguste: lo slancio che ti porta ad impugnare le
insegne dell’odio, semplicemente, agisce su di te con maggior intensità rispetto
a tutto ciò che dovrebbe condurre le tue azioni ad un fine positivo.
Desolatamente, è tutto qui, e prima ne prenderai coscienza, prima imparerai a
convivere con ciò che sei diventato. O che sei sempre stato.
Auguste
distolse bruscamente lo sguardo dalla fiammella che gli ardeva in fondo alle
iridi e serrò le palpebre con vigore, impedendo al leggero madore impigliato fra
le ciglia sottili di tramutarsi in una fragile lacrima sugli occhi che
bruciavano.
E
ciò che egli maggiormente avvertiva come un angosciante paradosso non era il
dolore inafferrabile che gli ribolliva nel petto sotto una cappa d’indifferenza,
smorzato dalla furia degli eventi ed occultato sotto il cono d’ombra del proprio
straniamento, quanto il rimescolio di sensazioni ovattate che rifiutava di
essere catalogato con semplicità sotto l’appellativo di “sentimento” o
“sensazione”. Era di più: era una prospettiva, una patina che velava la realtà
dinnanzi ai suoi occhi, un modo alienante di esistere.
Auguste
deglutì a fatica, avvertendo la familiare consistenza di una stilla di pianto
scorrere impercettibile lungo la guancia, granello di sabbia innocuo solo in
apparenza e prossimo a divenire valanga. E, facendo appello al proprio coraggio,
insinuò lo sguardo oltre il lungo cilindro di candida cera che si consumava con
molle ed ineluttabile intensità, simile al lento stillicidio che scavava
voragini di palpitante angoscia sul suo cuore, e si costrinse a proiettare la
propria visuale sulla cassa lignea che ospitava ed avrebbe racchiuso per
l’eternità il corpo senza vita di Lucien.
Arriveranno
presto. Vengono, chiudono la bara, e poi…
Auguste
trasalì, il cuore scalfito in superficie dalle parole che percepiva confuse
intorno a sé.
Nell’indifferenza.
Tutto si consumerà nell’indifferenza, nell’ozioso, consolatorio distacco che
lentamente sta trascinando anche me, seppure recalcitrante a riconoscerlo
appieno.
È
davvero così riduttivamente semplice? È la mia stoltezza a non permettermi di
accettare serenamente che, non appena tutto sarà compiuto, ogni brandello che
resta della mia coscienza non sarà che fumo negli occhi, ancora per un po’,
prima di dissolversi nel progredire dei giorni? È… è normale. Tutto
assurdamente, tragicamente “normale”. È forse così? Non vi è
nient’altro.
La
mia stella polare smette di brillare, cessa d’indicare la via, e il marinaio
prosegue nel suo viaggio incurante di ciò, nell’ingenua consapevolezza a priori
che nulla sia mutato nel cielo sopra di sé.
Deglutendo
a fatica, Auguste calò lo sguardo su Lucien. Il volto candido, sfiorato appena
dalla danza inquietante del pallido lume, gli apparve rischiarato da uno
statuario splendore nel chiaroscuro di luminescenze ed ombre fuggevoli. Carezzò
con il proprio sguardo le labbra delicate soffuse di un tenue barlume rosato, le
dita morbidamente intrecciate sul petto, il bavero rialzato che, sorretto dalla
voluminosa cravatta, celava con discrezione la ferita mortale che gli aveva
perforato la gola.
Sei
bello. Sei tanto bello che il pensiero di vederti deporre sotto la nuda terra da
braccia sconosciute, protetto da un guscio gelido, e di non vederti mai più,
potrebbe rendermi preda di una furia cieca e distruttrice, di una follia che mi
spingerebbe a gettarmi su coloro che fra qualche istante ti strapperanno
definitivamente anche alla mia vista.
I
miei occhi si cullano e s’ingannano in questi ultimi istanti, ed io m’illudo di
poter ininterrottamente accarezzare con le mie facoltà visive l’armonia del tuo
viso d’avorio, di confondere in eterno realtà e sogno perdendomi nella curvatura
impalpabile delle tue ciglia, nel velluto dei tuoi capelli corvini, nella tua
immagine impressa dinnanzi a me, e mi sforzo d’ignorare che, tempo qualche
istante, sarò privato anche della puerile, effimera, irragionevole
illusione.
Il
suo estatico torpore fu dissolto dal muto palesarsi dinnanzi a sé di due figure
che lentamente si accostarono al suo fianco, di fronte al feretro scoperto:
Monsieur e Madame Mirand, i genitori di Lucien.
E
così, il momento è giunto. Il momento in cui… devo salutarti,
Lou.
Auguste
sobbalzò impercettibilmente. Scorse Emmanuel Mirand, il volto sciupato
atteggiato in un luttuoso contegno, abbandonare il braccio della moglie e
muoversi verso di lui. Un lieve sfioramento sul gomito gli ricordò che il suo
compito era concluso. Chinò il capo, mentre il cuore gli tormentava furiosamente
il petto.
Emmanuel
accennò al portone d’ingresso con un vago gesto del capo, ed Auguste annuì in
una lieve scrollata di spalle, il volto pallido e smarrito, intercettando per un
istante lo sguardo di Rose Mirand aleggiare alle spalle del marito con fare
inquisitore, carico di un risentito disappunto, per poi addolcirsi con fare
sottilmente complice nel posarsi su di lui.
Forse,
posso ancora contare su un alleato.
La
signora Mirand potrebbe rivelarsi l’unica persona in grado di tenere in scacco
gli impulsi irragionevoli di suo marito ed alleviare gli effetti deleteri del
dolore di un padre che non ha mai accettato le scelte di un figlio
rivoluzionario fino alla morte. Ed ora che Lucien non c’è più, Rose è una donna
infelice: amava suo figlio e desiderava fosse libero; ha anteposto la felicità
di Lucien persino nel momento in cui vivere in accordo con la libertà del cuore
ha significato per lui accogliere sulle proprie spalle il fardello del pericolo
e di una posizione arrischiata. Rose è simile a Lou: conosceva bene suo figlio,
certo sa degli accordi fra me ed Emmanuel e ha compreso tutto.
Ma
che senso ha, ora?
Auguste
attese una manciata di secondi, lo sguardo che schizzava nervoso dal portone
semichiuso al volto impenetrabile della signora Mirand. Imboccò furtivamente
l’uscita diretta sul viottolo che costeggiava
l’abitazione.
-
Che notizie mi porti, Auguste?
Il
giovane sollevò lo sguardo privo d’espressione; senza indugio, le dita tremanti,
cercò all’interno del mantello ed estrasse il pugnale.
- È
vostro, Monsieur Mirand – mormorò con voce asciutta, controllando il fremito
d’angoscia che gli stringeva la gola.
Il
padre di Lucien spalancò gli occhi. Auguste non riuscì a cogliere nel suo
sguardo nessuna sfumatura condiscendente nei suoi riguardi: nessun guizzo
d’umanità per il pazzo che, nel momento in cui vi era in gioco la vita, aveva
trascinato Lucien con sé nel baratro, fino al misero epilogo che, per un caso
sciagurato, era toccato soltanto ad uno di loro.
Eppure,
una volta mi voleva bene; era gentile con lo strano ragazzo che stravedeva
Lucien.
Ma
io non merito nulla di tutto ciò; non merito nessuna forma d’indulgenza. Perché
si tratterebbe in ogni caso di una bugia.
-
Cosa diavolo significa? – Emmanuel Mirand soppesò fra le mani l’arma che gli era
stata restituita – Parla chiaro con me, Auguste, perché non ho alcuna intenzione
di tollerare ancora a lungo le tue commedie.
-
Significa che ho fatto come voi mi avete detto – Auguste lo fronteggiò con
espressione dura – E, come finalmente avrete inteso, non è servito a nulla. A
nulla, perché vendicarvi in contemporanea di chi fisicamente ha vibrato il colpo
e di colui che, inconsapevolmente, ha condotto Lucien alla morte, non vi
restituirà vostro figlio.
-
Tu…?
Auguste
serrò le palpebre: le sue parole sferzanti, della cui intrinseca indiscrezione
si era avveduto soltanto un istante dopo averle pronunciate, avrebbero con ogni
probabilità sortito in Emmanuel, di lì a poco, una reazione violenta. Era pronto
ad incassare il colpo senza replicare.
-
Proprio io – proseguì – Sono ciò che voi avete prodotto quando mi avete messo in
mano un coltello. Ma non l’ho fatto per voi e neppure per Lucien. Lucien non mi
avrebbe mai… Persuaso ad uccidere. Posso però dire… Che l’ho fatto per me stesso e nulla di più. Nessuno di
noi lo desiderava veramente, ma io non ho considerato nulla di tutto
ciò.
Auguste
tacque, sconcertato dal gelido impatto delle parole che fluivano dalle sue
stesse labbra, stille di veleno.
E
non vi è nulla su cui vale la pena ragionare, Emmanuel, poiché significherebbe
assumere con leggerezza su di sé la licenza d’impazzire dietro assurdi
ripiegamenti, girare in tondo senza approdare a nulla.
Guardami:
ciò che vedi dinnanzi a te, padre, non è nient’altro che ciò che tu stesso hai
plasmato con le tue mani, ciò che deliberatamente hai voluto fare di me. Hai
creato il mostro, Emmanuel, e la tua folle creatura è sfuggita alla tua
supervisione. Volevi usarmi come un’arma priva di anima, e la tua sfortuna,
contro ogni umana aspettativa, è che ce l’hai fatta per davvero. Hai voluto il
sicario, l’assassino, il vendicatore: cosa puoi fare, ora, se non ingegnarti a
convivere pacificamente con il rancore ed il debito crudele che ci lega a doppio
filo?
Emmanuel
lo misurò lentamente fino alla punta dei capelli, per poi proiettare il proprio
sguardo oltre la sua persona, quasi fosse divenuto evanescente. Auguste arretrò
di un passo.
-
Dunque, l’hai fatto veramente – mormorò Emmanuel, ed Auguste fu certo di
scorgere negli occhi del padre di Lucien il più cocente, spassionato disprezzo,
disprezzo verso tutto ciò che era: cospiratore, assassino,
vigliacco.
-
Volete forse denunciarmi?
-
Se avessi voluto farlo, credimi, avrei agito tempo addietro. Sarebbe stato
meglio se mi fossi liberato di te prima che attirassi la disgrazia su mio
figlio.
Auguste
strinse le palpebre in un impulso di dolore e di collera impotente. Va’ all’inferno, avrebbe voluto
gridargli, va’ all’inferno e restaci,
maledetto bastardo! Perché non sei meno responsabile di me della morte di
Lucien. Perché mi avresti estromesso dalla sua vita, fosse dipeso da te, con i
suoi sogni, per quanto ingannevole e deleterio fosse ciò che io incarnavo per
lui, e ti saresti battuto per impedire a tuo figlio di vivere come desiderava,
in nome delle vostre fottute paure.
-
Eppure, non farò nulla di tutto ciò. Non l’ho fatto prima, non lo farò in futuro
– Emmanuel gli si fece più vicino – Non posso impedirti di entrare in chiesa e
partecipare al suo funerale, ma, dopo stasera, desidero che tu sparisca dalla
nostra esistenza e non ti ripresenti più. Mia moglie insiste nel voler scoprire
cosa veramente sia accaduto a nostro figlio, capisci, ma tu terrai la bocca
chiusa, e con questo spero vivamente che non mi faccia pentire di aver desistito
dal proposito di gettarti a marcire in prigione. È tutto.
Auguste
annuì con cieca rassegnazione, scosso dal repentino, violento impulso di
allontanarsi da quella strada, da quel luogo, da quella gente: era tutto ciò che
gli restava di lui, insieme ai ricordi che ogni istante di più gli facevano
pesare il mero fatto di essere ancora vivo. Era la gabbia di lacrime che
l’avrebbe inseguito dovunque egli si fosse recato.
-
Ora vattene, Auguste de
Sparisci.
Ed
io me ne andrò, monsieur Mirand, come desiderate voi. Ma in me non svanirà il
ricordo straziante, né in voi la consapevolezza.
Senza
aggiungere altro, Auguste imboccò la stretta via che l’avrebbe condotto
fisicamente lontano dal suo incubo, il volto allucinato, i pensieri impigliati
in qualche remoto angolo della sua mente svuotata e confusa. La strada, umida e
fangosa per le ultime tracce di pioggia, irriducibili dinnanzi al calore del
sole, scorreva sotto i suoi passi quasi senza che egli ne avvertisse
l’impatto.
Il
rimpianto, unico ed infido compagno, solitario residuo del suo amore disperato,
avrebbe circoscritto le trame della sua esistenza, scolpito nella sua mente con
la forza erosiva dello scalpello che intacca la resistenza del marmo, come il
nome di Lucien sulla candida pietra sepolcrale.
Auguste
socchiuse mestamente gli occhi, fessure gravide di languore che luccicavano sul
volto livido, per poi portare tristemente i propri passi oltre l’angolo della
via.
Era
finita. Tutto era compiuto, eppure la consapevolezza non aveva arrecato in lui
un solo spiraglio di sollievo.
Un
impatto violento lo fece trasalire bruscamente, e la repentina intensità
dell’urto gli serpeggiò addosso, arrestando i suoi passi in un precario
equilibrio, mentre la mano cercava tentoni una rientranza sulla parete cui
potersi provvisoriamente appigliare per non incespicare sui suoi stessi passi e
ritrovarsi con la faccia nella polvere. Auguste sospirò flebilmente, il respiro
affannoso, portando distrattamente la mano a sfiorare il petto dolorante nel
punto in cui quel qualcosa o qualcuno l’aveva urtato con forza. Fissò lo sguardo
dinnanzi a sé.
Che
diavolo…
-
Perché non guardi dove vai? – proruppe collericamente l’incauta figura che gli
era piombata addosso, un istante dopo aver ripreso stabilità sulle proprie gambe
facendo leva sul suo soprabito.
Sollevò
lo sguardo. La massa disordinata di setosi capelli biondo scuro celava
parzialmente alla vista un viso minuto dai tratti gradevolmente irregolari. I
grandi occhi affilati dalle iridi di cobalto luccicavano orgogliosi,
incorniciati da lunghe ciglia mirabilmente scure.
Per
un istante, i due si squadrarono in volto con fare
interrogativo.
- …
Auguste?! – sussultò il più giovane.
L’interpellato
inarcò impercettibilmente il sopracciglio.
In
persona. E… Potrei dire di te le stesse identiche cose, Fernand.
Tacquero.
Il velo opaco del silenzio era calato come un gelido sipario sul volto di
Fernand, adombrato dalle tracce inconfondibili di una notte insonne, la fronte
corrugata che tradiva l’ineffabile processo logico in atto nella mente: restare
fermo e ancorato in quel misero riquadro lastricato all’incrocio fra le due vie
deserte ed affrontare lucidamente lo spettro delle proprie incertezze, oppure
allontanarsi con fare sdegnoso?
In
silenzio, Auguste fissò il proprio sguardo alle spalle del ragazzo, verso un
breve scorcio di cielo mattutino impregnato di uno slavato chiarore e inquadrato
fra le sagome delle abitazioni svettanti. Nubi d’organza sottile filtravano i
fievoli raggi dorati che si frantumavano dinnanzi ai suoi occhi in un pulviscolo
luccicante, producendo un curioso contrasto con la figura in ombra di Fernand,
muta ed indecifrabile di fronte a lui. L’espressione altera del bel volto era
stemperata dalla venatura di lieve estenuazione che gli circondava le orbite e
dal tremore che gli impacciava le labbra.
-
Auguste, io…
Il
giovane mosse qualche passo confuso, le sopracciglia aggrottate in una ragnatela
di fulminei, convulsi pensieri, tanto che Auguste fu sfiorato per un istante
dall’idea che egli non desiderasse altro se non allontanarsi al più presto
dall’uomo che soltanto una sera prima aveva approfittato di un semplice pretesto
per rivoltarglisi contro come un gatto selvatico sorpreso a pochi palmi dal suo
potenziale assalitore.
Non
ebbe il tempo necessario a addurre improvvisate scusanti, che la mano di
Auguste, tempestiva, gli attanagliò il polso sottile in una presa che di certo
non sortì in lui l’effetto rassicurante che avrebbe desiderato
infondervi.
Un
raggio improvviso riversò uno spiraglio di luce oltre il largo cornicione
aggettante di un palazzo, facendosi largo oltre l’intrico di nubi olivastre che
percorrevano l’aria satura di vapore ed illuminando i capelli arruffati di
Fernand di una tenue aureola in controluce.
Auguste
non avvertì la brezza pungente fustigargli il viso accaldato e dissipare il
gelido madore che gli aveva inumidito la fronte durante la patetica resa dei
conti con Emmanuel Mirand. Percepì soltanto il battito sostenuto di Fernand
infuriare nelle vene dei polsi, la pelle fredda sotto le sue dita. Corrugò la
fronte. L’avrebbe abbracciato, forse, l’avrebbe pregato di dimenticare quanto
era accaduto, se questo fosse stato utile a farlo stare meglio e se soltanto
egli stesso non difettasse a tal punto nella volontà di porre rimedio ai propri
errori.
-
Sei freddo – mormorò assorto, sciogliendolo dolcemente dalla sua
morsa.
Lo
vide buttare distrattamente lo sguardo sull’impronta bianca e rossa che, per un
istante, gli spiccò netta sul polso, le labbra percorse da un fugace sorriso,
prima che le sopracciglia scure gli si contraessero in una piega angosciata. Il
suo volto s’irrigidì nuovamente in un’espressione tesa.
Fernand
sembrava smarrito, turbato, la mente che arrancava nel sintetizzare
repentinamente nuove informazioni, fin quando non realizzò di poter accantonare,
per il momento, il timore assillante che Auguste avesse davvero posto a
repentaglio la propria vita.
-
Stai bene, Auguste? – esordì, la voce malferma.
Auguste
trasalì. Il ragazzo gli artigliò le spalle, cingendolo in una stretta spasmodica
colma d’inquietudine e malcelato sollievo.
-
Fernand… – le braccia di Auguste ricaddero rigide lungo i
fianchi.
Serrò
le palpebre, un impulso doloroso e indecifrabile che no, non voleva saperne di
tramutarsi in sollievo.
Fernand
non lo odiava per quel che gli aveva fatto: non aveva fuggito irosamente il suo
sguardo, non gli aveva rinfacciato l’offesa. Fernand aveva temuto in silenzio
per lui, quando Emilie gli si era precipitata in casa mettendolo convulsamente
al corrente di com’era scomparso nella notte in compagnia di due sconosciuti ai
quali lo univano ignote trame, e una pistola stretta nel pugno – lui! Auguste,
che feriva piuttosto con le parole e con la dura, spiazzante razionalità dei
gelidi occhi grigi; il cui solo pensiero della fredda impugnatura dell’arma
stretta fra le dita era in grado di farlo trasalire, di fargli franare la terra
sotto i piedi, di trasmettergli quell’alienante sensazione di
capogiro.
L’aveva
percosso e umiliato, eppure in quel momento a Fernand pareva non importare altro
che l’esserselo ritrovato integro dinnanzi agli occhi.
Cosa
diavolo aveva fatto, quella notte? Quale spirale autodistruttiva lo induceva a
fuggire qualunque conforto?
Non
fu un abbraccio affettuoso, circonfuso di calore. Le mani di Fernand erano
rigide, strenuamente aggrappate alle sue spalle, il corpo tremante, i nervi a
fior di pelle.
Il
volto di Auguste si rilassò in un sorriso stanco, le dita corsero a sfiorare
istintivamente lo zigomo di Fernand percorso da una leggera escoriazione nel
punto in cui l’aveva colpito.
Fernand…
Auguste
serrò le palpebre, le membra pervase da un fervido languore che la mente si
sforzava d’incanalare in ogni fibra del suo corpo, alla ricerca di un fragile
appiglio da contrapporre alla disperazione; ogni sua percezione era concentrata
su quei soffici capelli irrimediabilmente scompigliati che gli accarezzavano il
collo.
-
Fernand, io… Mi dispiace – sussurrò.
-
Ti dispiace…?
La
reazione lucida di Fernand esplose fulminea. Per un istante, Auguste si ritrovò
costretto, suo malgrado, ad indietreggiare di qualche passo, preso alla
sprovvista dal violento strattone per mezzo del quale il giovane l’aveva
allontanato da sé. Immobile, fissò il volto di Fernand contorto in
un’espressione accigliata, le guance chiazzate di rosso, i frementi occhi
azzurri che bruciavano su di lui come spilli arroventati. La mano chiusa a pugno
vibrava stretta contro il petto.
Vuoi
colpirmi di nuovo, Fernand? Fallo ancora, se è ciò che desideri, ma poi
dimentica. Per favore.
Il
ragazzo dischiuse appena le labbra per dire qualcosa, i tratti del viso percorsi
da una profonda agitazione, le narici dilatate come un giovane levriero pronto a
lanciarsi sulla preda. Poi, inaspettatamente, il risentimento e l’apprensione
sfumarono sul suo volto sotto il tepore rasserenante di un crescente
sollievo.
-
Sei proprio stronzo – gli soffiò.
Auguste
sollevò gli occhi al cielo, l’angolo della bocca incurvato in un mezzo sorriso
sbilenco.
-
Preferirei passare direttamente alle novità, se non ti
dispiace.
-
Le novità? – Fernand gli scoccò uno sguardo eloquente – Queste, dovresti
riferirmele tu. Puoi spiegarmi almeno che cosa diavolo ti sta passando per la
testa?
Come
da copione.
Auguste
deglutì nervosamente. Distolse lo sguardo, cercando di guadagnare tempo alla
ricerca di una risposta che giustificasse in maniera quanto più esauriente le
sue mosse. Sospirò, contrito: non voleva parlarne, non voleva ritrovarsi con le
spalle al muro, com’era avvenuto nell’alienante, patetico confronto che aveva
visto Raphäel e Dorian coalizzati e decisi a strappargli di bocca rivelazioni
dalla portata insidiosa di un’arma a doppio taglio. Dorian, già: quel piccolo
serpente l’aveva messo alle strette nel momento in cui era più vulnerabile, e
solo per miracolo era riuscito a non tradirsi. Dorian si era limitato a rivelare
ai propri occhi l’altro volto di Auguste: un angosciante labirinto i cui meandri
vorticosi da altro non erano costituiti se non da miriadi di cassetti che al
loro interno celavano ad occhiate indagatrici nuove maschere, bugie, mezze
rivelazioni, segreti rivestiti da barriere di carta, un altro e un altro
ancora.
Non
Fernand, ora, non di nuovo, essere sorpreso in quello stato, oltre la coltre
nebbiosa che occultava i suoi passi, il suo mal architettato teatrino ed i suoi
schermi fuorvianti. Non in quel modo e non in quel
momento.
-
Cos’è successo stanotte, Auguste? – incalzò il più
giovane.
I
denti candidi scintillarono fra le labbra tirate di Auguste, dischiuse in un
sorriso forzato e sofferto. Allungò una mano sulla spalla di Fernand in una
presa falsamente rassicurante. Il ragazzo trasalì al suo tocco come punto da uno
strale arroventato.
Resisti,
Auguste: resisti ora, e potrai farlo in qualunque
momento.
- È
tutto a posto ora, Fernand – tagliò corto – Ho sistemato tutto: non vi è nulla
da temere; non nell’immediato, se non altro.
-
Non tergiversare.
-
Se davvero vuoi i particolari – sul volto teso di Auguste comparve un breve
luccichio di spazientita indignazione – puoi sempre interpellare il tuo amico Raphäel: sono certo che saprà
ragguagliarti al meglio.
-
Non è mio amico – si affrettò a ribattere Fernand con voce
gelida.
-
Eppure avete tanti di quei punti in comune che una vostra eventuale
collaborazione mi fa quasi paura – lo sguardo di Auguste assunse un’impronta
duramente sarcastica – Volete agire, volete la rivoluzione, volete il sangue del
tiranno e dei suoi cani da guardia: volete tutto e lo volete subito. È tutto per
voi. Ed io ho persino seguito i tuoi accalorati suggerimenti - pensavo proprio a
te, Ferdinand, alla linea di lotta da
te a lungo propugnata, quando ho disposto la fornitura di fucili e munizioni
commissionando il furto. Ho accettato, perché sono una fottuta testa
calda.
Ferdinand:
l’aveva volutamente apostrofato con il suo nome di battesimo, quasi a voler
sancire la gravità delle proprie affermazioni.
Il
ragazzo sbatté le palpebre, trafitto dall’impeto delle parole di Auguste, ma la
sua attenzione fu subito riscossa da una risata tagliente.
-
Sarebbe stato divertente, Fernand, se tutto fosse andato a buon fine, non credi
anche tu? Rivoltare contro il duca le sue stesse armi, quelle che in origine
erano destinate a lui!
-
Ed ora? – Fernand lo fissò in volto, disorientato.
-
Nulla – Auguste si ricompose – Non se n’è fatto nulla.
Lentamente,
Auguste portò la mano a sollevare delicatamente il volto di Fernand fino a
dirigere il suo sguardo su di sé, le dita che indugiavano distratte in un
impercettibile sfioramento lungo il contorno fragile della mandibola. La sua
espressione si addolcì.
-
Non sono arrabbiato con te, Fernand – gli sussurrò gentilmente, modellando il
proprio viso in un’espressione che potesse apparire vagamente
serena.
Fernand
sembrava confuso, stordito, la mente annebbiata dinnanzi all’andirivieni
incessante di caotiche sensazioni che gli era stato riversato addosso con fare
convulso, fumo negli occhi.
-
Auguste… – il giovane annuì debolmente, l’ombra di un sorriso vagamente
accennata sul viso delicato.
Auguste
lo fissò senza dire nulla, assorto, il volto privo d’espressione, un grumo di
tristezza ancorato al petto che si scioglieva gradualmente, allentando la sua
morsa man mano che lo sguardo di Fernand indugiava benevolo su di lui, privo di
asperità, per la prima volta, di sfumature ostili, indecifrabili o diffidenti.
Lo vide allungare cautamente una mano verso di lui.
-
Stai piangendo – mormorò Fernand, sfiorandogli il viso nel punto in cui una
lacrima rovente gli rigava la pelle.
Auguste
scosse la testa, come a volersi liberare in un fulmineo battito di ciglia di
quell’effetto improvviso.
-
Dici? – sottrasse di scatto il proprio volto al tocco di
Fernand.
Serrò
dolorosamente le mascelle, prima di chinare il capo ed abbattersi sconfitto sul
ragazzo.
Scosso
da sussulti, le braccia allacciate intorno a Fernand, la fronte premuta contro
la consistenza ruvida della giacca. Il viso sprofondato nell’incavo della
spalla, perché no, non gli avrebbe offerto uno spettacolo tanto
patetico.
Fissò
distratto l’alone biancastro che le sue lacrime avevano lasciato sulla stoffa
scura, insieme alla cipria con la quale aveva tentato, con pessimi risultati, di
occultare il livido bluastro sul proprio volto.
Un
damerino dal viso ben rasato e incipriato che con fredda noncuranza si reca al
funerale della persona che egli stesso ha contribuito a portare alla tomba, il
volto duro ed impassibile dinnanzi a chi, non del tutto a torto, lo addita quale
vero responsabile: il ritratto dell’ipocrisia.
Scrutò
interrogativo il viso di Fernand oltre il velo caliginoso che gli ottenebrava la
vista, i lineamenti affilati che si confondevano dinnanzi a lui in un
caleidoscopio di lacrime e mutevoli luminescenze. L’ovale pallido gli apparve
come lo schizzo appena abbozzato di un ritrattista frettoloso che con rapide
pennellate ne aveva descritto i contorni. E Fernand sembrava tanto piccolo ed
esile, stretto contro il suo corpo, benché egli, Auguste, non lo sovrastasse
eccessivamente.
Era
crollato per la seconda volta, la seconda dacché Lucien era morto, una muta resa
fra le braccia di una persona nella quale aveva intuito un flebile anelito di
comprensione. Com’era avvenuto con Ambrosie, quell’orribile notte, sulla soglia
della stanza in cui l’unica persona che egli amava era stata uccisa. Ambrosie,
fiera e labirintica razionalità che si sforzava di celare al proprio interno gli
impulsi più irrazionali della passionalità; e Fernand, orgoglio disperato che si
dibatteva fra passioni imperscrutabili e discordanti, opponendo un fervore
dirompente, quasi sconsiderato, al gelo che irradiava dentro di lui un cuore
ferito.
Auguste
allentò la propria stretta, costringendosi a non fuggire lo sguardo. Tirò su col
naso.
-
Il padre di Lucien ha acconsentito a malapena che io assista al funerale,
nonostante detesti la mia presenza. Non poteva impedirmelo – sibilò con voce
atona – Implicitamente, mi ritiene responsabile della sua morte. Hanno compreso,
Fernand. Hanno compreso tutti; ed io sono l’unico che si sforza… Di non
capire.
Tacque,
prima che le sue stesse parole lo spingessero a barcamenarsi in direzioni in cui
non desiderava addentrarsi. Per quanto ancora sarebbe rimasto un segreto, il
fatto che lui e Lucien erano amanti? Forse non era ancora il momento. E se
Emmanuel Mirand avesse già subodorato qualcosa, con ogni probabilità, non si
sarebbe limitato a scacciarlo. O forse, a suo tempo poteva aver quanto meno
sospettato, preferendo poi tacere fino alla fine nel timore che tutto ciò
potesse gettare discredito su suo figlio, sedotto dal demonio che l’aveva
lasciato affondare con sé nell’abisso.
-
Che cosa, Auguste? – Fernand parve alterarsi – Chi può nutrire un’idea
simile?
Auguste
scosse il capo, strofinandosi gli occhi congestionati col dorso della
mano.
-
Non servirà parlare, stavolta. È tutto finito.
Il
giovane lo stringeva ancora a sé, le dita che scorrevano fra i capelli
arruffati. Nella sottile penombra che il bavero rialzato proiettava sul suo
volto, Auguste intravide lo sguardo di Fernand luccicare fremente, la scura
gradazione cobalto dell’iride vibrare imperiosa sul volto
arrossato.
-
Non è finita. Abbiamo bisogno di te.
Auguste
sgranò gli occhi per un istante, interdetto: era l’ultima affermazione che
avrebbe giurato potesse fuoriuscire dalla bocca di
Fernand.
-
Ricordi… La sera dell’ultimo dell’anno – riprese il ragazzo con voce pacata,
perso nei propri pensieri, mutando drasticamente discorso non appena ebbe
compreso che non sarebbe riuscito a cavare da Auguste una parola di più – Ancora
non saprei dire, quella sera, chi fosse più ubriaco fra me e Dorian. Hai pensato
tu a trascinarci fuori di lì, quando ormai non ero nemmeno in grado di reggermi
sulle mie gambe. È logico pensare che tu fossi l’unico sobrio, là
dentro?
Auguste
sorrise sbigottito: Fernand aveva troncato improvvisamente la discussione e
stava certamente cercando di confonderlo nel momento in cui proseguire su quella
scia avrebbe comportato sempre più il rischio d’inoltrarsi per sentieri
pericolosi.
Dove
ha deciso di colpire, stavolta? Dove vuole arrivare?
Che
voglia soltanto… Distrarmi, almeno per qualche istante, con ricordi
inoffensivi?
-
Ricordo, Fernand – la mano di Auguste scivolò distrattamente su una ciocca
ondulata dell’amico.
Poi,
un groppo improvviso gli strinse la gola, spezzandogli il respiro. Arrestò il
flusso dei propri pensieri.
Possibile
che…
-
Io… – biascicò il ragazzo – Non credevo…
Auguste
riprese il controllo. Beffardo, considerò in tutta tranquillità di poter
accarezzare con mano, in un ineffabile gioco di sguardi, la confusione e il
turbamento che affioravano sul volto di Fernand.
Pensò
a quanto sarebbe stato bello, in quel momento, relegare le proprie azioni in una
sorta di paradosso onirico, una prospettiva in cui, eccezionalmente, un gesto
avventato da parte sua non avrebbe compromesso i precari equilibri fra lui e
Fernand, ripercuotendosi negativamente su eventi futuri.
Sarebbe
tanto, troppo semplice…
-
Hai capito, Fernand – gli prese dolcemente il mento fra due dita – Se è quel che
intendo. Un ricordo sfumato di labbra sconosciute. Questo –
sussurrò.
Auguste
sentì il tremore delle sue membra, le palpebre spalancate per la sorpresa, le
gote che avvampavano. Percepì il respiro fresco di Fernand accarezzare
dolcemente le proprie labbra fino a morire in un soffuso
sfioramento.