Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: dimest    12/01/2015    3 recensioni
Viviamo in un’era in cui non esistono mostri, dove la democrazia e la Repubblica sono state spazzate via da un’economia liberista e la nostra quotidianità è stata posseduta dall’etica del lavoro: se non lavori, non puoi considerarti parte di questa società.
Per chi vive in questo Paese, non c’è via di fuga. Non c’è libertà di parola, non c’è libertà di stampa; ogni informazione è boicottata da questi Titani dello Stato e la gente ne ha paura. Una fottuta paura.
La libertà che crediamo di possedere è solo un'illusione; viviamo nella mera convinzione che le nostre decisioni possano influenzare il nostro futuro.
Da qualche tempo però la speranza si sta ridestando in tutti noi. Questo è possibile solo grazie a chi non si è piegato di fronte alla terribile realtà di cui siamo vittime, loro che combattono contro questi Titani dell’economia; loro che si fanno chiamare “jiyu no tsubasa”, le “ali della libertà”.
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Pov Eren. Coppia: LevixEren
Genere: Angst, Azione, Dark | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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Capitolo 01

 
< Eren. >
Dal tono di voce assunto non deve essere la prima volta che mi chiama, tuttavia scelgo ugualmente di ignorarla. Non ho né la voglia né le forze sufficienti per sopportare un’altra splendida giornata, figuriamoci ascoltare rimproveri di cui non mi curo affatto, specialmente se la scorsa notte sono rimasto sveglio fino a tardi.
< Eren. > chiama nuovamente Mikasa, assestandomi una gomitata al braccio.
< Che vuoi Mikasa? > le domando con fare scocciato, stringendomi nell’abbraccio del mio caldo cappotto.
< Siamo quasi arrivati. > m’informa lei, guardandomi apprensiva.
Apro di malavoglia gli occhi, mettendoci qualche secondo ad abituarmi alla luce grigia del mattino mischiata a quella elettrica del treno e sbadigliando rumorosamente, lisciandomi i ciuffi ribelli sulla nuca ed ignorando totalmente di essere in un luogo pubblico ed affollato. La metro non è certo un posto salubre, e le persone a me intorno non sono certo più sveglie di me, ma rimane comunque maleducato mostrarsi così rilassati. Infatti, la signora di fronte a me schiocca la lingua, riservandomi un’occhiata di puro disappunto. Alzo le spalle: cavoli suoi.
< Sei rimasto nuovamente alzato fino a tardi? > domanda la mia amica, continuando a fissarmi.
Annuisco distrattamente, poi infilo l’i-pod nella tasca dello zaino e mi alzo, deciso a stroncare il discorso sul nascere. Non è una novità che rimanessi sveglio fino ad orari impossibili, talvolta facevo anche qualche nottata in bianco; succede da qualche anno a questa parte e Mikasa avrebbe dovuto farci l’abitudine…
< Sai che dovresti riposare di più o finirai per collassare, e non ti aiuta dormire durante le lezioni. >
… O quasi.
Grugnisco sollevando gli occhi al cielo e reprimendo la voglia di rigettarle in faccia tutto ciò che mi sta passando in testa, ma decido di ignorarla ancora una volta: non mi va di iniziare una discussione di mattina presto, finirei sicuramente per esagerare, poiché non sono abbastanza lucido da ponderare le parole; non che da “sveglio” riesca sempre a regolarmi.
La voce metallica risuona per tutto il vagone, annunciando l’immediata fermata ed avvertendoci dell’aprirsi delle porte alla nostra sinistra. Una moltitudine di gente, studenti ed operai seguiti da qualche sorvegliante, si riversa fuori sul pianerottolo ghiacciato, dove altri attendendo di salire. Il respiro mi si condensa ancora prima di poter mettere un piede fuori dal vagone, l’aria gelida m’investe il viso con una prepotenza tale da costringermi a rintanare il viso nel colletto del cappotto, scacciando gran parte della stanchezza. Non devo attendere molto prima di ricongiungermi con Mikasa, dopodiché ci avviamo verso il piazzale 104 dove, ad attenderci, c’è già la maggior parte della nostra compagnia. Pochi minuti dobbiamo aspettare affinché anche Ymir con Christa, Annie con Berthold e Reiner ci raggiungano.

Nel tragitto verso la scuola ascolto poco e nulla della conversazione: Armin si riferisce ad un compito in classe, Ymir, con un braccio a circondare le piccole spalle di Christa, sorride sorniona assicurandosi l’eterno aiuto della ragazza, Jean, invece, continua ad imprecare a denti stretti mentre Marco tenta inutilmente di calmarlo. Solita routine.
Poi, all’improvviso, urto qualcosa con il braccio e la botta è sufficiente a riportarmi alla realtà; mi volto con cipiglio stizzito, già pronto a rimproverare l’idiota che mi ha accidentalmente colpito, ma prima di poter aprire bocca, lo sguardo fermo del ragazzo mi paralizza sul posto. C’è qualcosa di brutalmente magnetico nei suoi occhi grigi e nell’espressione quasi assente; restiamo a fissarci pochi istanti, infine lui procede senza scusarsi o proferendo parola. Continuo ad osservarlo fin quando non lo vedo svoltare l’angolo, seguito da altri quattro ragazzi della sua (probabile) stessa età. Sembravano avere venti anni o poco meno, l’abbigliamento era simile a quello di qualsiasi altro studente eppure non avevano zaini con loro e non si stavano dirigendo verso alcun luogo che, solitamente, frequentavamo noi. Scarto subito l’idea dell’università giacché il campus si trova in tutt’altra prefettura e gli studenti alloggiano nei dintorni per evitare i mezzi di trasporto.

< Eren? > la voce di Mikasa mi distoglie da futili pensieri. Alla fine poco importa chi fossero e da dove venissero. Probabilmente li avrei incrociati ancora con indosso un cartellino da operaio, cosa comune di questi tempi.
Lascio andare un sospiro e mi affretto a raggiungere il mio gruppo, nel petto sento espandersi una strana ma piacevole eccitazione, come se mi trovassi di fronte ad una sorta di cambiamento nella mia monotona vita.

 

Alla fine la novità che avrebbe dovuto dare una svolta alla quotidianità si è rivelato essere il compito in classe di matematica che avevo totalmente rimosso; dunque stamattina Armin si riferiva a questo test, e meno male lo avevo come vicino di banco, almeno ora posso sperare di aver preso un cinque anziché un tre.
Sbatto la testa sul banco non appena la professoressa esce dall’aula e gli studenti si alzano dai loro posti cominciando a chiacchierare animatamente tra loro.
< Come vi è andata? > domanda Marco, spostandosi verso di noi.
< Al solito temo. > rispondo con una punta di frustrazione e nessuna voglia di alzare la testa. Armin si limita ad un abbreviativo “bene” prima di confrontarsi sulle varie risposte del compito.
Mi dissocio dalla discussione.
Ogni volta mi prometto di impegnarmi maggiormente nello studio, di fare qualche esercizio per conto mio, e puntualmente finisco per scordarmi l’effettiva data della verifica nonostante sapessi bene di averne fissata una al mese per tutto il periodo scolastico.
< In parole semplici ha risolto sì e no un esercizio. > ironizza Jean, appoggiandosi a Marco.
< Duole dirtelo ma ne ho completati correttamente quattro… Gli altri sono da verificare, ma ho sicuramente fatto meglio di te. > rimbecco con tono arrabbiato, alzando lo sguardo dal banco.
< E chi ti dice che io ne abbia risolto bene così pochi, Jeager? >
< Perc- >
Il frastuono di un’esplosione a pochi metri dalla scuola distoglie l’attenzione di tutti da qualsiasi attività stessero facendo. Dopo i primi attimi di smarrimento, ci accalchiamo ai vetri delle finestre per scorgere cosa realmente stia succedendo, ma gli alti edifici che si frappongono tra noi e le industrie, dove probabilmente si è scatenato l’incidente, ci impediscono di vedere. Il fumo si eleva alto e tutt’attorno si è addensata come una nuvola rossastra a coprire la zona circostante. Nell’aula alcune mie compagne squittiscono di paura, altri invece formulano varie ipotesi sull’accaduto mentre continuano a sollevarsi sulle punte dei piedi, tentando di intravedere tratti del paesaggio.
< È qui… La Ribellione. > sussurro, fremente di eccitazione.
Lo so… Non posso sbagliarmi. Tutti sanno quanto siano sicure le industrie, gli imprenditori vi danno un’eccessiva importanza perché questo possa essere classificato come un comune incidente; qualcuno deve per forza averle danneggiate.
Armin sgrana gli occhi, Mikasa invece mi afferra immediatamente il braccio intuendo le mie intenzioni. Mi conosce troppo bene.
< Eren? >
Non la sento: la sua voce, la sua stretta… nulla.
Non sento nessuno a parte il sangue ribollirmi nelle vene ed il cuore pompare più velocemente del solito.
Con un gesto veloce mi libero della sua presa e corro velocemente attraverso il corridoio, giù per le scale, fino al cancello della scuola. Attorno a me ci sono altri studenti che, presi dal panico, cercano di fuggire da una parte all’altra; gli insegnanti ed i supervisori tentano di calmarli e fermarne quanti più possibile, io però sono troppo veloce per loro. Scavalco la cancellata con un balzo ed appena tocco il marciapiede dall’altra parte, mi dirigo velocemente verso il fumo. Devo arrivare là prima della polizia, prima delle autopompe, prima di qualsiasi altro, ma soprattutto prima che se ne vadano.
Scatto veloce per le vie del centro, senza fermarmi né rallentare; sono inarrestabile, come un lupo affamato che caccia la sua preda. Mikasa e gli altri probabilmente mi stanno seguendo.  

Più mi avvicino alle fabbriche, più le strade s’intasano.
La gente si riversa fuori dagli edifici per avvicinarsi al luogo e prestare i primi soccorsi, ben sapendo che chiunque fosse stato trovato nei paraggi dell’accaduto sarebbe stato arrestato, ma si può fermare chi vuole solo assicurarsi che i propri cari stiano bene e non siano feriti?
Nella calca, mentre sento spingere e tirare avanti ed indietro, intravedo il ragazzo di questa mattina, quello contro cui avevo sbattuto; lui si scorge a malapena, l’espressione imperscrutabile sul volto mezzo coperto dal cappuccio della felpa, cammina facendosi trasportare dalla folla che si allontanava dalle industrie, ma senza farsi sballottare.
Fifone.
È l’unico giudizio che possa esprimere nei suoi riguardi, eppure il suo non è lo sguardo di chi fugge per paura.
Fifone!
Mi ripeto: poco importa l’espressione sul suo viso o il suo atteggiamento fiero, sta solo evitando di prendersi una multa quando ci sono persone in difficoltà a meno di un centinaio di metri da noi.
Distolgo gli occhi e riprendo a correre.
Quando finalmente riesco ad arrivare sul luogo dell’esplosione, la polizia è già qui assieme ai pompieri ed ai paramedici. Le fiamme sono altissime, l’aria terribilmente calda ed irrespirabile per via delle polveri che ti penetrano nei polmoni; gli operai scampati alla morte siedono sul marciapiede fissando il vuoto, il viso annerito dalla cenere. Il loro è lo sguardo di chi crede di trovarsi in un incubo.
A terra vi è qualche telo bianco a ricoprire chi, invece, non ce l’ha fatta. Non rimango a fissarne i cadaveri bruciati o mezzi mutilati, è una scena di cui non voglio rammentarmi.
I poliziotti cercano di documentare l’accaduto con le poche prove che riescono a raccogliere, mentre radunano coloro che non sono né vittime né addetti alla sicurezza. Come se in questo caos generale possano ripristinare un po’ d’ordine. Qualcuno grida, invoca il nome di chi lavorava nell’edificio, piange… tuttavia il suono di questo macabro spettacolo sembra solo un fastidioso ronzio alle mie orecchie.
< No… mi sbagliavo. > mi ripeto nella testa. Non possono essere state le Ali della libertà a ridurre questo posto un ammasso di macerie.
Sento una mano artigliarmi il braccio e la voce di Mikasa chiamarmi con urgenza; nemmeno il suo familiare tono di voce riesce a distogliere il mio sguardo dalle fiamme. L’adrenalina in corpo scema in un istante ed il vuoto è riempito dalla bellezza di queste brutali lingue di morte. Il loro calore attecchisce sulla pelle, mi penetra dentro: è una sensazione nuova dovuta al fatto di non aver mai dovuto fare i conti con un pericolo (con un evento) simile.
Poi tratti di una conversazione tra due poliziotti riporta ogni cosa alla normalità, e la causa di questa tragedia raggiunge le mie orecchie ovattate, la prova che testimonia il vero colpevole dell’attentato: un funzionario del Governo è stato coinvolto nell’incendio. È stato dichiarato morto.

Le ali della libertà sono state qui, il funzionario deceduto è il loro marchio.
La consapevolezza di ciò mi attanaglia il petto, forte come un pugno in viso.
Ora ogni fibra del mio essere è impegnata a dare un significato al perché abbiano coinvolto anche gli operai.
   
 
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