Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Clairy93    12/01/2015    7 recensioni
[Seguito di “Mi avevano portato via anche la luna”]
Trieste. 1950.
La guerra è terminata ma quella di Vera Bernardis è una battaglia ben più difficile da superare. E’ sopravvissuta all’abominio dei campi di concentramento, è divenuta un’acclamata scrittrice e ora ha una famiglia a cui badare.
Ma in certi momenti quel numero inciso sulla sua carne sembra pulsare ancora e i demoni del suo passato tornano a darle il tormento.
Situazioni inaspettate sconvolgeranno il fragile mondo di Vera ponendo in discussione ogni cosa, anche se stessa.
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Mi avevano portato via anche la luna'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A




Arrivata a Trieste, la sera era già calata da un pezzo e sono subito andata alla ricerca di un posto dove passare la notte.
Non ho dormito molto.
Anzi, credo di non aver quasi chiuso occhio.
Non riuscivo a smettere di pensare.
Mi sentivo entusiasta per aver compiuto un’azione impulsiva, così insolita dallo scorrere pacato della mia quotidianità.
Ma allo stesso tempo avvertivo un peso sullo stomaco, un logorante senso di colpa per aver lasciato Tommaso e dato retta a Bianca.
Ho compiuto centinaia di chilometri per ritrovarmi in una stanzetta fatiscente, con le lenzuola impregnate di umidità e gli schiamazzi di uomini brilli al piano di sotto.
E tutto questo per cosa? Per inseguire un qualche sogno di gioventù?
Fatto sta che dopo ore a rigirarmi tra le coperte, non ho retto più la stanchezza. Sono crollata e, fortunatamente, anche i pensieri hanno taciuto.

Dischiudo le palpebre e scorgo fasci di luce filtrare dai pesanti tendaggi. Decido quindi di porre fine a questa folle nottata.
Indosso una camicetta che abbino al mio tubino beige, un poco di colore sulle guance e sono pronta per scendere nella sala da pranzo.
Appendo il soprabito allo schienale e mi accomodo sullo sgabello.
Posato sul bancone, trovo il listino. Lo leggo almeno una decina di volte prima di decidermi, e al fine opto per un semplice cappuccino.
Il barista mi porta anche un cornetto caldo, omaggio della casa, ma il mio stomaco si rifiuta di ingerire qualsiasi cosa che non sia liquida.
Approfitto però per chiedergli come raggiungere il centro città.
Seguendo le indicazione dell’uomo, esco dall’ostello e mi dirigo in fondo alla strada dove un cartello segnala la fermata dell’autobus.
L’attesa è breve. Pochi minuti e il mezzo si arresta proprio di fronte a me. Faccio scorrere la porta un poco cigolante e mi accomodo su uno dei sedili disponibili.
Il tragitto è piuttosto movimentato. Sono sballottata in continuazione e mi risale alla gola uno sgradevole sapore di caffè.
Provo a concentrarmi su un punto preciso, fuori dal finestrino.
Noto qualche bandiera americana issata sugli edifici, proprio come quando ho lasciato Trieste. In un primo momento mi sorprende, poi ragionandoci mi rendo conto che la città è ancora sotto il controllo degli alleati.
Dopotutto sono passati solo un paio d’anni, è per me che sembra trascorsa un’eternità.
Nel frattempo tengo attentamente il conto delle fermate, abitudine che ho appreso a Roma dove muoversi con i mezzi pubblici è indispensabile.
E se non ho sbagliato, la mia destinazione dovrebbe essere proprio questa.
Scesa dall’autobus mi servono giusto pochi secondi per orientarmi. Riconosco il palazzo dalle finestre ovali, l’insegna della drogheria all’angolo e con sicurezza imbocco Via Rossetti. Tutto appare invariato, quasi familiare, come se fino a ieri fossi passata di qui. Sarà perché anni fa ho percorso questa strada tante, tantissime volte.
Eppure mai ricordo di aver provato una sensazione come questa, non appena raggiungo il viale alberato che conduce alla Caserma Vittorio Emanuele III.
Il cuore batte forte, troppo forte.
Ricordi riaffiorano con inaspettata delicatezza.
Rivedo due giovani, vicino alla ringhiera, stretti uno all’altra. Sono così maledettamente ingenui. Ed innamorati. Lei sfila dalla bocca di lui la sigaretta, lui con un balzo la acciuffa, la stringe e nasconde il viso tra i suoi capelli. Ridono.
Distolgo lo sguardo e ammiro al centro del cornicione lo stemma del reggimento.
“Fedele. Sempre.”
Con le gambe che tremano e lo stomaco in subbuglio, mi avvio verso l’ingresso. Attraverso l’ampia piazza d’armi, delimitata dagli imponenti corpi di fabbrica. Ma di fronte a tanta maestosità, all’improvviso mi sento indifesa e istintivamente mi stringo nel cappotto, sollevando il bavero, come potesse offrirmi un qualche conforto.
L’atrio è esattamente come ricordavo: la stessa quiete, la sobrietà delle pareti, scandite dalle fotografie degli eroi di guerra, e quel grattare del pennino sulla carta.  
Mi avvicino alla scrivania e dall’altra parte un uomo pienotto e dagli occhi cadenti, mi rivolge un’occhiata incuriosita.
“Buongiorno. Sono Vera Bernardis...”
“Bernardis? Lo sa, il suo cognome non mi è nuovo…” mormora tra sé, grattandosi la nuca stempiata.  
All’improvviso il suo sguardo accigliato si rischiara.
“Bernardis! Ora ricordo! Lei era la compagna del Sergente Filippo Bassani.”
Il mio mesto sorriso sarebbe più che sufficiente per accorgersi che non ho voglia di parlarne.
Ma lui non demorde.
“Al funerale sono venuto a porgerle le condoglianze di persona, rammenta?”
“A dire il vero, no.”
Non ricordo granché di quella giornata, come se non l’avessi vissuta in prima persona. O forse, nei mesi successivi la mia mente ha solo tentato di rimuovere gli attimi più terribili di quel periodo.
“Non importa.” l’uomo al fine sembra comprendere il mio disagio “Mi dica, come posso aiutarla signorina Bernardis?”
“Sto cercando il Tenente Massimo Riva. E’ in caserma?”
“No signorina.”
“E saprebbe dirmi dove posso trovarlo?”
“Mi spiace. Non abbiamo più notizie del Tenente Riva da mesi ormai.”
Mesi.
“Non avete proprio idea di dove abiti? Avrà lasciato un recapito, un indirizzo!”
“Purtroppo no. L’abbiamo visto in caserma qualche volta. Poi d’un tratto è scomparso. Non sono nemmeno sicuro si trovi ancora a Trieste...”
Mi ci vuole qualche secondo per capire che rimanere qui ferma a fissare l’uomo alla scrivania, non farà apparire magicamente un indizio su dove si trovi Massimo.
Così ringrazio, ed esco.
Percorro ancora una volta questo sconfinato cortile. Ad ogni maledetto passo mi sento sempre più insignificante. E stupida.
Devo fermarmi. Gli occhi si velano, sbatto le palpebre freneticamente ma bruciano da impazzire. Copiose lacrime scivolano lungo il mio viso e, come le mie speranze, si disperdono a contatto con il suolo.

Cammino, per quelle che penso siano ore, guidata dal mormorio delle onde.
Questo mare che tanto mi è mancato, di cui ho avuto una logorante nostalgia, nemmeno lui riesce a darmi conforto.
Ma cosa mi aspettavo? Tornare e ritrovare tutto come prima?
Guarda il mare Vera. Osservalo bene. Nemmeno lui, nel suo moto apparentemente perpetuo, è rimasto uguale. Ogni onda è unica a modo suo, mai identica a quella prima, sempre imprevedibile.
Sono trascorsi due, lunghi anni.
Ho detto chiaramente a Massimo di non provare niente. Come biasimarlo quindi, se avesse voluto cominciare una nuova vita nella quale poter liberarsi del peso della mia presenza.
Intanto, per colpa di queste scarpe, i piedi mi fanno un male insopportabile.
E un inquietante brontolio, mi ricorda che è da ieri sera che sono a stomaco vuoto.
Sarà anche il rimorso più grande della mia intera esistenza, ma non per questo ho intenzione di morire di fame.  
Entro in un panificio.
Una stridente campanella annuncia il mio ingresso. I due clienti che mi precedono e la signora alla cassa mi rivolgono una rapida scorsa.
Mi avvicino al bancone, attirata dalle golosità esposte di là del vetro.
“Come posso aiutarla signorina?”
Gli occhi scuri e vivaci di una donna dagli arruffati boccoli argentei, si posano su di me portandomi a sorriderle di rimando.
“Un pezzo di focaccia per favore.”
Lei però mi osserva con leggera apprensione.
“Sa che il miglior rimedio per scacciare la tristezza, sono i dolci?” bisbiglia, sporgendosi un poco dal bancone “Abbiamo sfornato uno strudel che è una meraviglia!”
D’acchito non so come reagire alla sua affermazione. Per un attimo credo stia solo provando a rifilarmi il suo dolce.
Ma se fosse davvero così lampante il mio malessere? Dopotutto il fatto che io non sia mai stata un portento nel dissimulare, è noto.
Perciò mi sento di credere nell’onestà di quella singolare signora, forse perché incrociando i suoi occhi mi sento pervadere da un’inspiegabile senso di benessere.
“Prendo anche un pezzo di strudel allora.”
La panettiera mi sorride di sottecchi.
Pago, ringrazio e mi dirigo verso l’uscita.
“Signora Riva! Come sta?”
Punto i piedi a terra.
Mi volto rapida verso l’anziano cliente che si è appena rivolto alla panettiera.
“Signor Ruggero!” risponde allegramente lei “Non la vedevo da un po’!”
Ha detto Riva.
Come il cognome di Massimo.
E se avessi frainteso?
Potrei aver sentito male. Potrebbe essere stato uno scherzo della mia immaginazione, ancora scompaginata dagli eventi di questa giornata.
“Ha bisogno di qualcos’altro signorina?”
Mi domanda la panettiera, osservandomi alquanto incuriosita.
Forse perché la sto fissando come se avessi visto un fantasma?
“…Sì. Io…volevo sapere…se per caso conosce un certo Massimo Riva.”
“Certo! E’ mio nipote.”
Lei risponde con una tale ovvietà, come fosse la cosa più normale di questo mondo.
Ma non lo è per me. E tutto ciò non fa che ingigantire in maniera inquietante quel senso di pesantezza al petto.
E’ uno sforzo immane anche il solo formulare una frase senza balbettare.
“Sarebbe c-così gentile da dirmi d-dove posso trovarlo?”
“Lavora con mio marito, nella nostra tenuta di campagna. Una mezz’ora da Trieste.”
La donna si accorge però che quella che per lei può sembrare una normale risposta, ha fatto scattare qualcosa in me, come una molla che ha risvegliato dal torpore ogni più piccolo angolo del mio animo.
Il suo sguardo si addolcisce.  
“Posso sapere chi è lei?” mi chiede.
“…Un’amica.”  
Ma la mia non può essere la reazione di una semplice amica.
E dall’occhiata ammiccante della signora, sembra aver già inquadrato la situazione abbastanza chiaramente.
Si allontana dal bancone e mi si avvicina.
“Ascolta. Per me non è un problema portarti da mio nipote. Puoi venire con me, ho la macchina.”
“Lo farebbe davvero?”
“Ma certo! Tra un’ora e mezzo finisco di lavorare. Fai un giro qui attorno nel frattempo. Ci vediamo fuori dalla panetteria.”
Annuisco.
E sorrido.
Sorrido raggiante, senza più controllo. Non riesco a smettere, come se i miei lineamenti fossero paralizzati! 
Forse perché mi sto rendendo conto che se non mi siedo all’istante, la possibilità che io svenga sul pavimento è molto alta.



Angolino dell'Autrice: Miei carissimi torroncini glassati al cacao! Come state? Ne approfitto per farvi ancora tanti auguri di un sereno 2015!
Spero il capitolo vi sia piaciuto e ci tengo a ringraziarvi per il vostro immenso supporto. Cosa voglio da questo nuovo anno? Instaurare un legame sempre più stretto con voi. Grazie di tutto!
Vi lascio come sempre la mia pagina Facebook se volete farci un salto -->  https://www.facebook.com/pages/Clairy93-EFP/400465460046874?ref=hl
Un bacione e buon proseguimento di settimana!

Clairy.
   
 
Leggi le 7 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Clairy93