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Autore: Subutai Khan    12/08/2003    2 recensioni
Come una persona spietata, con il potere datogli dalla sua carica, può schiacciare due scarafaggi che lo disturbano?
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Generale Summers, faccia come le ho detto”.
“Ma…presidente…”.
“Insomma, cazzo. Sono o no il presidente di ‘sta fottuta nazione? Ho o no il controllo più totale sulla vita di ogni singolo cittadino, lei incluso? Posso o no decidere un’azione militare quando più mi aggrada?”.
“Certo, ma…”.
“Ma un cazzo. Faccia come le ho ordinato o la prossima volta che ha da dirmi qualcosa dovrà usare un piccione viaggiatore dalla prigione. Stevenson, chiudo”.
Interrompo la trasmissione con un pugno sullo schermo.
Qua si mette in discussione la mia autorità. Qua mi si prende sottogamba. Qua è pieno di codardi.
Cristo santo. Che cazzo ho fatto di male per meritarmi dei sudditi tanto inetti?
Joshua Stevenson, presidente dello Stato Libero di Honduras. Democraticamente eletto, ed altrettanto democraticamente dittatore assoluto. Alto, grasso, con un pessimo vizio per i sigari cubani. Classica palla di lardo di mezz’età laida e maleducata. L’identikit perfetto del puttaniere.
Mestiere che svolgevo, non senza un certo successo, prima di candidarmi alle elezioni. Vinte a man bassa con promesse populiste e tanta, tanta aria fritta. Mi è bastato andare in televisione, fare un paio di proclami su come avrei sconfitto la fame e la povertà, che da queste parti sono più diffuse delle occhiaie dopo una notte di baldoria, ed eccomi seduto sullo scranno.
Il giorno della mia vittoria è stato il più appagante della mia vita: vedevo gli elettori affluire come tante belle pecorelle, con un genuino sorriso di fiducia stampato in faccia. Tante, simpatiche, divertenti teste di minchia che non sapevano in che mani stavano per mettersi. Alla sera, durante le maratone mediatiche per vedere chi avrebbe vinto, me ne stavo in panciolle su una poltrona di pelle imprestatami da quella bravissima persona di nome Mendoza. Che poi sia il più grande spacciatore di droga del Sudamerica è un fatto ininfluente.
Quel povero deficiente di Galvèz, che invece di darsi alla demagogia come me aveva impostato un serio programma elettorale…cosa che, lo ammetto con tranquillità, io non sarei mai in grado di fare…ha preso una tale mazzata che ha preferito darsi alla macchia ed emigrare in Mongolia. Non sentiremo il suo nome da queste parti ancora per molto, molto tempo.
Il 96,2% delle preferenze. Un trionfo. Un’apoteosi. Mai, nella pur lunga storia dello Stato Libero di Honduras, qualcuno aveva ottenuto un consenso così alto.
26 luglio 2006: l’incoronazione avviene nella piazza principale di Tegucigalpa. Orde oceaniche di peones acclamano il loro nuovo dominatore. Mi sono sentito potente, forte, mai così realizzato.
Ma non voglio annoiarvi con la mia storia.
Ora ho un’importante questione da risolvere.
Ci sono due giornalisti, Gabriel Navarra e Francisco Rios, che hanno scoperto qualcuno dei miei piccoli segreti. Piccoli segreti come le cene settimanali con Mendoza, Salazar e tutta la cupola mafiosa del continente. Piccoli segreti come l’intenzione di far passare in Parlamento, con l’ausilio di mezzi non esattamente leciti, la proposta di immunità completa e totale per me e per il mio entourage in caso di accuse di falso in bilancio, di riciclaggio di denaro sporco, di appropriazione indebita ai danni dello Stato. Il tutto, ovviamente, all’oscuro delle masse cittadine. Piccoli segreti come le ingenti mazzette che ho preso da varie società degli USA e del Canada per far costruire nel nostro bel paesello inquinantissimi e rumorosissimi stabilimenti chimici, fonderie, acciaerie. Com’è logico che sia, queste multinazionali hanno manodopera a costo quasi zero, dato che con dieci dollari qui si vive quasi un mese.
Tutte queste belle cosucce devono rimanere impantanate, insabbiate, nascoste. E quei maledetti rompicazzo amano farsi i fatti degli altri, in questo particolare caso i miei, e sbandierarli sul loro giornalaccio da quattro soldi.
Ho pure provato ad essere buono: ho provato a far chiudere loro baracca e a liquidarli con una corposa fuoriuscita, ma i tizi si sono aggrappati a cavilli legali vecchi di secoli, risalenti all’epoca dei vicerè spagnoli, per salvarsi il culo. Era ormai troppo tardi per intervenire e far abrogare quelle leggi, sarebbe stato troppo chiaro che lo facevo solo per colpire loro ed il ritorno di immagine negativa sarebbe stato catastrofico.
Vabbè, almeno una soddisfazione me la sono tolta. Ho allestito una bella purga di staliniana memoria e ho fatto eliminare tutte le possibili talpe, oltre a quei faccia da culo che avevano ottenuto lavoro nel palazzo presidenziale tramite raccomandazioni e trucchetti del genere. Odio chi fa il disonesto, tranne quando sono io.
Se mai dovessi uscire pulito da ‘sta faccenda un casino del genere non deve succedere più. Mai più. Dio guarda giù una volta, alla seconda si trova uno spettacolo migliore e ti piscia in testa con tanti saluti alla famiglia, in particolare alla sorella.
E quindi ho due stronzi da sistemare.
Fuori luogo usare dei killer privati, palese l’assassinio di stampo politico.
Avrei potuto optare per il vecchio barbone assetato di whisky che vende la sua anima al diavolo, o a chi c’era in sede in quel momento, in cambio di un pasto, di un letto meno sporco del cartone dove dorme di solito e di un paio di bottiglie. Ma non è nel mio stile.
Io sono per le cose plateali, sceniche, di quelle che ti si imprimono in testa a fuoco lento.
E così me ne sono venuto fuori con questa idea mica male.
Solo che quel coglione del generale non vuole collaborare.
Anzi, adesso lo richiamo.
“Summers”.
“Stevenson. Allora generale, ha riflettuto?”.
“Presidente…”.
“Ancora indeciso? Non devo essere stato troppo chiaro, prima. Le ho dato degli ordini. Mi dia un solo motivo valido che le permette di disubbidirmi senza finire davanti alla forca”.
“Sarà una strage”.
“Ho detto valido”.
“Sta scherzando? Non voglio avere sulla coscienza un fatto simile”.
“Forse no, ma dubito che voglia avere sulla coscienza la sua famiglia. Sa, gli incidenti succedono”.
“Cosa ha fatto a Helen ed ai ragazzi?”.
“Nulla per ora. Se però non prende una decisione chiara entro dieci minuti, dato che all’ora M ne mancano dodici, sarà vedovo”.
“…”.
“La richiamo più tardi. Stevenson, chiudo”.
Fanculo, mollaccione. Perché il generale Mantilla è in vacanza a Bali e devo fare affidamento su ‘sto imbecille? Se ci fosse stato lui…e patapim e patapam, e patapim e patapam, in dodici secondi netti quello che chiedevo sarebbe stato pronto.
A questo punto non posso far altro che aspettare e sperare.
Apro un cassetto della mia imponente scrivania, rovisto un po’ e tiro fuori un cofanetto argentato. Da lì estraggo un cubano che mi procura un orgasmo solo a vederlo.
Accendino, sigaro in bocca.
Ahhhhhhhh, il paradiso è qui, lo vedo, lo sento, lo tocco.
Nella nebbia che ormai pervade la stanza posso solo guardare lo schermo nero.
Passano parecchi minuti. La fonte della mia artificiale gioia emette le ultime volute di fumo.
Finalmente l’apparecchio dà segni di vita.
“Stevenson”.
“Summers. Presidente, ci ho pensato”.
“Mi dica, generale”.
“Farò come mi ha chiesto”.
“Oh, finalmente. Le costava tanto essere ragionevole?”.
“La prego, non mi faccia pentire della follia che sto per compiere”.
“Nessuna follia. Sono una bella promozione e la prossima villeggiatura estiva nella mia villa privata”.
“Sì, ok. Summers, chiudo”.
Altro che villeggiatura, avrei dovuto schiaffarti nella segreta più profonda del cosmo e mangiare la chiave. Maledetto stronzo.
Vabbè, almeno si è convinto.
Che ore sono? Consulto il mio Rolex placcato d’oro.
Se ‘sta baracca non è indietro risultano le 13:42. Tre minuti all’ora M.
Spero per il culo del generale che niente vada storto.
Oh, ma che bel rumorello marcondirondirondello.
13:45. L’ora M.
M come Massacro.
Mi alzo dalla poltrona in preda ad un fremito di curiosità insopprimibile.
Mi affaccio alla finestra e vedo una colonna di fumo a circa un chilometro da qui.
Uhm…sì, più o meno la sala conferenze è là. La posizione c’è, ed anche la distanza mi sembra quella giusta. Non ho mai posseduto un gran senso della distanza.
Chissà che male per quei poveri giornalistucci. Erano tutti pompati per i loro quindici minuti di gloria, in cui avrebbero dovuto spifferare ai loro colleghi tutti i miei innocenti segretucci.
Già, avrebbero dovuto.
Peccato abbia deciso che una camionetta dell’esercito, guidata da un giovane sergente ubriaco come non mai, doveva andare a sbattere contro il palazzo.
E perché tutto ‘sto casino, allora? Beh, succede quando le suddette camionette sono cariche d’esplosivo.
Oh, che brutti incidenti capitano a volte nel mondo.
Certo, nessuno metterà in dubbio che la fatalità c’entri poco o nulla in un caso del genere, ma così facendo mi sono guadagnato un buon margine di credibilità. Organizzerò i funerali di stato in pompa magna per tutti i morti che non saranno pochi, visto che quella di Navarra e Rios si preannunciava come la conferenza stampa più infuocata del decennio; spergiurerò fino allo sfinimento che si è trattato di un caso fortuito; pagherò ingenti, per modo di dire, somme alle famiglie delle vittime e me la caverò a relativo buon mercato.
E poi ho ottenuto l’effetto deterrente che volevo: sono curioso di vedere quando spunterà fuori il prossimo coraggioso ficcanaso che tiene alla pellaccia.
Con questa spettacolare azione mi sono guadagnato almeno altri tre anni di dittatura. Non male per un ex-puttaniere.
Danzo con la grazia di un elefante zoppo per la sala rettangolare, piccolo centro del mio grande potere, e canto con la mia voce da usignolo gracchiante qualche vecchia canzone insegnatami dai miei nonni materni quando ero poco più di un lattante.
Raramente sono stato così felice.
Certo, non è la prima volta che ammazzo qualcuno: le varie ragazze che, all’epoca, tentarono di divincolarsi dalla mia ingombrante presenza; qualche scagnozzo che voleva fare il doppiogioco; un paio di rivali che si contendevano il mio territorio. Ma mai mie balde ed intraprendenti azioni hanno avuto la cassa di risonanza che darò di mio pugno a quanto successo oggi.
Sono talmente su di giri che il pensiero di dover ricevere il rapporto del generale Summers non è una prospettiva così grama.
Riguadagno un aspetto presentabile, aspetto che i miei rotoloni di lardo mi permettano di respirare come si conviene ad un presidente e mi risiedo sulla poltrona. Oh, accidenti, non ho mai ringraziato Mendoza per l’ennesimo regalo.
Dovrò rimediare, non mi piace passare per maleducato.
“Stevenson”.
“Summers”.
“Allora generale? Ho sentito un botto all’ora prestabilita. Tutto bene?”.
“Signore, ecco…”.
Cazzo.
“Qualche problema?”.
“Abbiamo scoperto troppo tardi che Navarra e Rios non erano alla sala conferenze”.
“Come troppo tardi? Ma porca puttana, io pago fior di quattrini quei coglioni dei servizi segreti e questi mi piantano in asso quando più mi servono?”.
“Sono costernato, presidente”.
“Vada a farsi fottere, generale. Con le sue scuse mi ci pulisco il culo. Trovate quei due stronzi e sgozzateli come delle capre. Stevenson, chiudo”.
Sudorazione eccessiva. Mi capita sempre quando do fuori di matto.

Solo molto tempo più tardi Stevenson scoprirà che il generale Summers aveva mentito per non si sa quale ragione. Appena riceverà sulla sua scrivania il rapporto del generale Mantilla, il suo mastino più fidato, sul tradimento di Summers Joshua Stevenson, presidente dello Stato Libero di Honduras, darà in escandescenze come non mai. Salirà sulla sua macchina privata, si recherà al Ministero della Difesa e di suo pugno strangolerà il generale Tony Summers, responsabile della difesa nazionale. Peccato che ci saranno altri due giornalisti, della stessa testata a cui appartenevano i compianti Navarra e Rios, nascosti e pronti a riprendere tutto.
La notizia giunse in ogni angolo del globo, suscitando sdegno e schifo.
In quella occasione niente servirà a salvare Stevenson dal linciaggio. Una folla inferocita farà irruzione nel palazzo presidenziale, gli darà fuoco ed appenderà il corpo del suo amato presidente fuori dal balcone principale.
Il posto di Stevenson verrà preso dallo stesso Mantilla. Dalla padella alla brace. Il nuovo presidente si rivelerà ancora più spietato del suo predecessore e non esiterà a trasformare lo Stato Libero di Honduras nella Dittatura di Honduras, di nome e di fatto. Peraltro solo Mendoza, che ha sempre avuto un occhio di riguardo per le vicende di quello staterello, saprà mai che tutto questo era un elaboratissimo piano dello stesso Mantilla per fare le scarpe al suo datore di lavoro.
Non c’è mai fine allo scempio.
   
 
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