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Autore: Aries K    17/01/2015    2 recensioni
Quando la giovane Emily Collins mette piede nel collegio più cupo e spaventoso di Londra non sa che la sua vita sta per cadere in un mondo oscuro fatto di sangue e creature che credeva vivere solo nei suoi incubi. Quando pensa che la sua esistenza non possa cadere più in basso di così incontra William Delacour, figlio della temibile preside Jennifer Delacour. William -così enigmatico e onnipresente in quel convitto esclusivamente femminile- nasconde un segreto che sembra coinvolgere anche la giovane. I due non potranno che avvicinarvi anche se, non molto lontano da loro, qualcuno cova una centenaria vendetta che sembra non volersi compiere...
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sedicesimo Capitolo








La stanza dell’infermeria aveva la tapparella abbassata, l’unica luce presente era quella che proveniva dall’esterno quando io, Nicole e William (che aveva bussato senza ricever risposta all’ufficio Delacour) emanammo non appena spalancato la porta. Come se avesse percepito la nostra presenza, Jamie mugugnò volgendo la testa prima a sinistra e poi a destra; dunque si svegliò accorgendosi di noi.
“Dillo che ti sei buscata il raffreddore solo per poter dormire oltre l’orario de risveglio.” Questo è stato il buongiorno da parte di Nicole. Jamie fece una smorfia, issando sul materasso.
“Buongiorno anche a te, Nic. Emily, William.”
“Come va?”, le domandai sedendomi sulla sedia accanto al letto.
“Credo che la febbre mi sia scesa, l’infermiera ripasserà tra poco”, sbadigliò.
William fece alzare la tapparella e la luce del sole colpì Jamie al volto; un pulviscolo di polvere, invece, sembrava danzare davanti agli occhi assenti di Will. Mi costrinsi a non rimanere ad osservare i suoi tratti tesi e disorientati e porsi il sacchetto a Jamie. Lei lo accettò senza sapere cosa fosse, così, quando sciolse il nodo, per poco non sbiancò più di quanto non lo era per via della malattia.
“Questo devi proprio spiegarmelo!”
“E’ solo un po’ di cibo”, mormorai scrollando le spalle. William si voltò di scatto, sembrava tornato sul pianeta terra.
“Dai, Jey-Jey, non fare troppo la difficile. Non mi sembra che ti abbiano portato la colazione a letto”, mi difese Nicole.
-“E certo!”, sbottò, allora, l’altra, -“perché io conosco le regole di questo istituto cosa che, a quanto pare, voi ignorate. Non possono mica portarmi la colazione a letto, non è un albergo. E cito parole della Galdys.”
“Eppure anche questo è sbagliato”, s’intromise William che, senza essermene accorta, si era messo di fronte al letto di Jamie con le mani intrecciate alle sbarre di acciaio della spalliera.
“Non mi sembra corretto lasciare senza colazione una ragazza malata solo perché non può presentarsi nella mensa o solo perché può ignorare la sveglia ufficiale. Insomma, mi sento in dovere di scusarmi per la severità di mia madre.”
Naturalmente, come spesso accadeva, la gentilezza e il modo con cui si caricava sulle spalle l’eccessivo rigore della Delacour, lasciò tutte interdette.
“Oh, ma è giusto così”, farfugliò Jamie, sforzandosi di sorridere, -“davvero.”
“No, non è giusto così”, sospirò lui, tornando dinanzi la finestra. Di nuovo, perso nella sua mente.
Poi doveva aver visto qualcosa o qualcuno attirare la sua attenzione perché rizzò le spalle, sconvolgendo i lineamenti in un’espressione di sollievo ed impazienza.
“Ora perdonatemi, ci vediamo all’ora del pranzo”, si congedò sbrigativo. Prima di oltrepassarmi con la sua falcata si chinò all’altezza del mio orecchio e mi sussurro che era arrivata sua madre e che sarebbe andato a chiedere spiegazioni, in caso lei sapesse qualcosa.
Lo seguii con lo sguardo colmo d’angoscia fin quando non scomparve oltre la porta. La mano di Nicole venne immediatamente a stringermi il ginocchio, quanto incontrai i suoi occhi mi fece ben intendere che non era quello il momento di pensare a quella faccenda.
Parlammo con Jamie per un tempo che ci parve infinito, ci azzittimmo solo quando entrò l’infermiera per misurarle la febbre e portarle una zuppa calda. Nemmeno a farlo apposta – due minuti dopo- trillò la campanella dell’ora di pranzo. Baciammo Jamie sulla fronte accaldata mentre faceva smorfie rivolte alla minestra che aveva un insolito colore giallo su cui galleggiava una pastina fina e apparentemente cruda.
Non che sul nostro tavolo ci attendeva qualcosa di diverso, s’intende.
L’atmosfera nella sala era ancora più smorta e triste di quando era piena di tutte le alunne. Pensai a quelle a casa con i propri genitori, poi pensai a Nic che aveva dovuto insistere per rimanere con me e Jamie, dunque pensai a noi, e a quelle sedute con noi.
Lungo il tavolo degli insegnati c’era la Galdys ,il solito professore di cui ignoravo il nome dal momento che non insegnava in nessuno dei miei corsi e, poco più in là, ritto e con gli occhi bassi, c’era William.
“Sarà un pranzo che ricorderai.”
La voce di Camille mi fece sussultare; ero talmente presa a guardare dalla parte opposta che avevo persino dimenticato la sua fissa presenza al tavolo, proprio davanti a me.
Aggrottando la fronte stavo giusto per chiederle che cosa intendesse dire –non che me ne potesse importare- quando la porta si spalancò; la Delacour che trascinava una ragazza. E quella ragazza era…
“Jamie?”, strillò Nicole, facendo scivolare il cucchiaio nel piatto che, incontrandosi con il brodo, provocò una serie di schizzi lungo tutta la tavola.
La preside trascinava la mia amica che sembrava si stesse sorreggendo in piedi solo per miracolo, ma questo non sembrava un dettaglio rilevante per lei. Jamie aveva lo sguardo allarmato, la bocca socchiusa e gli occhi rossi. Quando la Delacour arrestò il proprio cammino l’afferrò per le spalle e la fece girare verso di noi.
Dopo, Jennifer Delacour sollevò un braccio in modo che tutti potessero vedere cosa teneva nel pugno chiuso.
“Sei una lurida p…”
“No, non voglio crederci”, sussurrai interrompendo le parole che Nicole stava rivolgendo ad una trionfante Camille. Perché quello che la preside stava sollevando con sdegno ed esasperazione era il fazzolettino pieno di cibo.
-“Bisogna rispettare le regole. Se tutte facessero come le pare, che rispettabile istituto sarebbe?”, sogghignò Camille, poggiando il mento sulle dita delle mani intrecciate, i gomiti piegati sul tavolo.
“Questo che ho in mano si chiama furto”, esordì Jennifer guardandoci una per una, lasciando per ultimo il mio viso. Non sapevo quale emozione si potesse cogliere dalla mia espressione ma io mi percepivo prossima ad un vero e proprio pianto. Non potevo chiudere la bocca perché, altrimenti, avrei fatto rimbombare lo sbattere dei miei denti per tutta la sala e, come se non bastasse, stavo iniziando a sudare freddo.
“Custodire del cibo è proibito. Una delle regole dell’istituto è quella di cibarsi per sopravvivere e non per provare un effimero piacere”, tuonò, riponendo in basso la mano.
“La signorina Sandford aveva questo sotto il cuscino. Ciò significa che non solo qualcuno si è introdotto nelle cucine rubando, ma ha anche avuto la briga di fare questo atto di carità totalmente irrispettoso verso qualcuno che…”, lanciò un’occhiata velenosa a Jamie, “non ha nemmeno avuto la coscienza di rifiutare.”
Jamie allargò gli occhi senza smettere di tremare.
“Signorina Collins.”
Nell’esatto istante in cui mi fece cenno di raggiungerla al centro della stanza sentii la terra mancarmi sotto i piedi. Attraversai il lungo tavolo e mi parai di fronte alla preside che strizzò il contenuto del cibo sotto i miei occhi. Attraverso la stoffa del fazzoletto si vide una poltiglia multicolore fatta di mele, salame e pane. Poi la gettò a terra.
“Non posso permettere un incoraggiamento simile, da quando lei ha messo piede in questo collegio sembra che anche le altre si siano prese la libertà di agire secondo i propri impulsi, non curanti del rigore che hanno sempre dimostrato di possedere. Anche le ragazze più rispettabili.” I suoi occhi andarono a piantarsi su alcune compagne di un tavolo lontano da noi, queste –peccatrici di chissà quali crimini- abbassarono lo sguardo. Oltre il colletto di una ragazza intravidi il chiaro segno di una frustata.
“Miss Delacour”, tossicchiò la Galdys alle nostre spalle. Ora si era alzata e con tre falcate ci raggiunse, gli occhi sporgenti che rischiaravano una luce strana e malsana. Queste situazioni , pensai disgustata, dovevano divertirla.
“Accennerei anche l’episodio avvenuto poco prima delle vacanze natalizie con la signorina Belfiore.”
Miss Delacour fu quasi compiaciuta di quel promemoria, tant’è che carezzò la spalla della collega.
“La professoressa Galdys mi ha riportato alla memoria un episodio triste dovuto alla vostra spietata elemosina vittimistica. La professoressa Belfiore venne nel mio studio a criticare il mio metodo educativo”, fece una smorfia contrariata che le deformò per un attimo i tratti severi e perfetti, -“ha messo bocca nel mio ruolo di educatrice, sconfinando dal suo rispettabile incarico. Sosteneva che voi ragazze potevate imparare dai vostri errori senza essere punite; potevate crescere e maturare anche senza nessuna guida da parte mia. Le ho detto che se tutto questo le provocava un disagio poteva anche trovare un altro istituto in cui insegnare.
Probabilmente non la rivedrete mai più, in queste mura.”
Afferrò nuovamente Jamie, conducendola davanti a me. Fu quello il momento in cui ci guardammo per la prima volta negli occhi.
“Per fortuna ci sono ancora persone non compromesse da chissà quali idee rivoluzionare, come la signorina Leeigthon. Quindi lei mi conferma di aver visto la signorina Collins nascondere il cibo nel proprio baule per poi portarlo alla signorina Sandford durante la visita?”
“E’ così, Miss Delacour.” La sua voce suonava meccanica alle mie orecchie, seppure, nel profondo, scorsi una nota di realizzazione.
La guardai cercando di riprodurre sul mio viso tutto l’odio, tutta la rabbia che provavo verso di lei in quel momento. Tuttavia dovetti ritornare a guardare Jamie perché il viso di impertinente di Camille mi avrebbe fatto perdere definitivamente le staffe.
“Jamie Sandford lei ha, dunque, ricevuto il cibo da Emily Collins?”
Chiusi gli occhi e strinsi le labbra perché sapevo che ciò che stava per avvenire avrebbe torturato Jamie per tutta la vita.
“No”, sibilò ed io riaprii di colpo gli occhi.
La Delacour alzò un sopracciglio e fece schioccare la lingua tre volte.
“No, no , no. Allora non ci siamo capite. Signorina Sandford, smettiamola con questa imbarazzante sceneggiata e confessi da chi ha ricevuto il cibo.”
“Sì, sono stata io!”, sbottai, senza premeditarlo, guardando Jamie con aria esasperata. Era così palese il fatto di esser finite in un vicolo cieco che sarebbe stato stupido e inutile opporsi all’evidenza.
In quel frangente vidi William coprirsi il volto con le mani.
“Ma io…”
Jamie dondolò sul posto, il colorito da bianco a giallastro, e, puntando mollemente la mano verso di me, cadde, svenuta a terra.
Nella sala ci fu un sussulto generale, eppure nessuno si azzardò a muovere un passo verso la mia amica.
Solo dopo aver metabolizzato lo shock, giusto un paio di secondi di sgomento dopo, il professore che era seduto alla tavolata venne in suo soccorso.
-“Chiamate il medico dell’istituto. Subito!” Sollevò Jamie come se fosse una bambola di pezza, le braccia che le penzolavano oltre il corpo. Il professore fece cenno alla Galdys di seguirlo – probabilmente per chiamare il dottore e l’infermiera- e uscirono dalla sala facendo sbattere bruscamente la porta. Il rimbombo si sostituì presto ad un silenzio angosciante; la Delacour non era nemmeno più accanto a me.
Il mio sguardo si perse fino a trovare gli occhi di William che sembravano richiamare la mia attenzione. Non sapevo cosa dirgli. Lui non sapeva cosa dirmi. Infatti rimanemmo a guardarci infiniti minuti, come due sconosciuti in imbarazzo per essersi scontrati. Allora distolsi l’attenzione da Will e guardai Nicole, che litigava con Camille. Tutte le teste della sala erano voltate verso quel teatrino… fin quando dalla cucina non uscì Jennifer Delacour. Percorse la distanza che la separava da me con una postura dritta, le braccia nascoste dietro la schiena, un sorriso da Gioconda.
Si sistemò dietro di me, un istante dopo aver individuato qualcosa di argentato nelle sue mani. Mi diede una spinta in avanti e il suo tocco mi sfiorò il collo, raggruppando i miei capelli in una coda bassa.
"Le cose storte possono sempre raddrizzarsi, basta prevenirne lo spezzamento.”
E poi, nel silenzio fatto di respiri trattenuti, risuonò nella mia testa un suono secco e metallico, avvertendo, all’altezza della nuca, una strana sensazione di freschezza… dovuta alla caduta dei miei capelli.
Gridai.
Piroettai su me stessa sfiorando con la punta del naso la forbice che saldamente teneva nella mano destra; lasciai che i miei occhi scendessero sul pavimento in cui giacevano, sparpagliati, i miei lunghi capelli castani. Istintivamente mi toccai la testa e constatai, con orrore, che la punizione che mi era stata inflitta mi aveva lasciato un taglio dove la chioma non arrivava a toccarmi le spalle.
Le braccia mi ricaddero mollemente lungo i fianchi mentre una sensazione di malessere mi fece accaldare il volto, abbassato per l’ennesima umiliazione pubblica, per l’ennesimo shock. Ero così sconvolta che corsi via, d’improvviso, attraversando la lunghezza della sala ad una velocità tale di cui, ancora oggi, non ne conosco la provenienza. Mi sentii così atterrita che credetti di poter collassare ancor prima di raggiungere e aprire la porta; cosa che feci con il corpo dal momento che le mie mani erano occupate a soffocare le grida che stavano risalendo lungo la gola pulsante.
Fu giunta nel bagno davanti allo specchio che, fissando una sconosciuta, mi resi conto di piangere e di aver mandato in frantumi l’unica promessa che avevo stretto con me stessa dalla morte dei miei genitori.




Passarono pochi minuti prima di sentire dei passi dissolvere il silenzio della camerata, occupato solo dal vago eco dei miei singhiozzi. Ero ancora in bagno, chiusa nella doccia e con le spalle contro il vetro opaco a lasciare che le ultime lacrime scorressero via dal mio viso.
Avevo l’infantile timore che, abbassando lo sguardo, potessi cogliere nelle macchioline di acqua sui palmi della mano i motivi per cui, adesso, non avevo ancora smesso di disperarmi. Perché hanno ragione tutti, tutti coloro che sostengono che nel momento in cui s’inizia a piangere per un motivo, poi, si continua per tutti gli altri. Ed io pensai a tutto ciò che mi era accaduto dal primo giorno cui avevo messo piede all’interno dell’istituto, dal distacco con la mia unica parente, al mondo sovrannaturale che avevo scoperto coesistere con il mio.
Furono dei colpetti al vetro a farmi cessare quei pensieri. Mi voltai lentamente vedendo una sagoma nera e frammentaria per colpa della trama del vetro, accucciata sui talloni. Capii subito fosse William, dunque mi morsi le labbra in preda ad un doloroso batticuore.
“Vai via, ti prego”, articolai con voce talmente roca da sembrare camuffata.
“Pensi davvero che io possa andarmene? Dopo quello a cui ho dovuto assistere? Come posso farmi perdonare, Emily?” Percepii la sua mano cercare di tirare via il sipario di vetro ma io, con le mie, lo tenevo chiuso, serrato.
“Di cosa dovresti farti perdonare? E’ stata tua madre a…”, lacerare la mia anima, il mio cuore, a farmi infrangere la promessa, a rendermi la vita un inferno più di quanto non lo sia, a punirmi tagliando l’unico stupido pregio che credevo di possedere e che avevo ereditato da mia mamma, -“lasciami sola.”
Avevo talmente tanto bene imparato a ricacciare le lacrime indietro –ad evitare di crollare davanti agli altri e non solo davanti a me stessa- che mi ero appena accorta di aver smesso di piangere. Eppure ne avevo una voglia tremenda, come un primordiale bisogno ed è per questo che iniziai a tirare pugni a destra e a manca, cercando di spezzarmi le nocche.
“Emily!”, lo sentii gridare mentre, cogliendo la mia momentanea follia, era riuscito ad intrufolarsi nella doccia.
“Fermati! Emily, fermati!”
Le mani di Will raggiunsero i miei pugni doloranti modellandoglisi intorno e, la pressione del suo corpo, mi costrinse a piegarmi ancora di più.
Una volta calmata allentò pian piano la presa, ma io avevo la testa volutamente in basso, girata in maniera innaturale verso le mattonelle avorio.
“Non vuoi guardarmi”, affermò, col fiatone.
“Non voglio che tu mi veda così”, sibilai, le corde vocali che tiravano, tiravano, quasi volessero spezzarsi per evitarmi la fatica di parlare. “Così, come? Distrutta? Sotto shock? Sei la persona più forte che io conosca.”
Mi conficcai le unghie nella carne delle braccia.
“Io? William, non prendermi in giro, non adesso…”
“Farei mai una cosa del genere?”, il suo alito caldo mi solleticò all’altezza della tempia sinistra, significava che anche lui si era chinato più del dovuto per essermi così vicino, -“hai dovuto affrontare così tante cose in così poco tempo. Come se non bastasse sono arrivato io a stravolgerti la vita, a trascinarti quasi con forza nel mio mondo…”
“E’ vero tu hai insistito ma io l’ho voluto”, lo interruppi, -“e avevo tanta paura, Will. Così tanta che ogni sera dovevo ripetere ad alta voce i perché continuavo ad esserti al fianco. E tutti i miei perché erano abbastanza forti da farmi rimanere nel tuo mondo. Non si può tornare indietro da una cosa simile.” E, quando richiusi bocca, mi vennero in mente le parole di Nicole scambiate sul pullman nel giorno della vigilia di Natale: “ed io non dimenticherò mai tutto questo” ,“anche se lo volessi, non potresti”, le avevo risposto.
“Appunto. Come fai a non capire che grande atto di coraggio e di amore tu abbia fatto? Qualcun altro avrebbe addirittura preferito la morte, che stare accanto ad una creatura come me”, lo disse e, per quanto quelle parole risuonarono come una certezza, mi fecero un male cane. Come se si stesse riferendo a qualcosa o qualcuno… sì, il suo tono di voce era così remoto che per poco non mi voltai a guardarlo.
“Perdonami”, ripeté, con un moto di compassione che mi fece stringere il cuore, abbastanza da farmi pizzicare gli occhi da nuove lacrime.
“Non puoi incolparti per i peccati di tua madre, smettila, ti prego, Will.”
“E allora guardami, usciamo di qui.”
Le sue braccia, che mi avvolgevano leggere, si scostarono; dunque mi ritrovai le sue dita all’altezza del mento, pronte a farmi voltare il capo. Con una dolce pressione del pollice mi obbligò a seguire il suo movimento, mentre, con il dito indice, mi carezzava la linea della mandibola.
E ci ritrovammo occhi negli occhi.
Le punte bionde dei suoi capelli erano schiacciate sulla fronte e distrattamente piegate verso sinistra; quell’involontaria acconciatura gli donava un aspetto da gentiluomo di altre epoche. Gli occhi – quegli occhi di colore diverso che mai avrei potuto imparare a resistere per più di qualche minuto- mi osservavano come se stessero fissando la stella più luminosa del firmamento.
“W-Will…”
“Shhh.”, mi azzittì, delicato,-“sei sempre tu, la mia Emily.”
“Sembro un maschio”, riuscii ad articolare sfiorandomi i capelli spezzati.
“Non essere sciocca. Sei sempre tu e sei bellissima”, ripeté, e approfittò del mio stato di torpore per sollevarmi senza preavviso.
Barcollai un istante prima di scendere il gradino della doccia, le gambe doloranti e formicolanti.
Mi lasciai cadere nelle sue braccia tirando su col naso, e non mi sentii tanto piccola come in quel momento.
“La permanenza è ancora lunga qui dentro”, mormorai contro la sua spalla, la voce ridotta ad un tremito per via di quell’improvvisa consapevolezza, -“ed io non penso di essere in grado di sopportare altro.”
William tacque poiché nemmeno la sua bontà poteva permettersi di dire che non mi sarebbe accaduto più niente, né una menzogna risollevarmi il morale.
Tutto ciò che fece fu abbassarsi per baciarmi sulle labbra.
Mi depositò piccoli baci sul labbro superiore per una, due, forse cinque volte prima di approfondire quei contatti in uno più appassionato. Viaggiai con le mani sulle sue braccia tese verso il mio corpo, accarezzai le sue spalle per poi risalire lentamente sul collo e disperdere le dita tra i capelli fini.
Era una strana sensazione quella che mi pervase, come uscire fuori e rientrare nel proprio corpo; forse, dopotutto, è un po’ così per chi cerca di sollevarsi nel pianto, e per chi ha un’anima che non riconosce più.





Con le ginocchia tremanti, la salivazione azzerata e le mani sudice di sudore iniziai un nuovo giorno, sorretta dal mio orgoglio feroce, salvatore della poca dignità che mi era rimasta.
Sfilare nei corridoi sotto gli occhi di persone che avevano il mio nome sussurrato con sdegno, ancora una volta, sulle labbra, si rivelò essere un’impresa più ardua del previsto.
“Che avete da guardare?”, ringhiava Nicole ogni qualvolta che un paio di occhi giudiziosi indugiavano più del dovuto su di me.
“Lasciale stare”, gli rispondevo, arresa.
“Neanche per sogno. Sono così piena di rabbia che con qualcuno devo pur sfogarmi.”
E allora, stringendomi nelle spalle, la lasciavo fare.
Di fronte all’entrata dell’infermeria Nic tentennò, tamburellando con le dita sulla maniglia della porta su cui aveva poggiato la mano.
“Solo una cosa, Emily”, disse guardandomi con rammarico, -“non farti vedere in questo stato da Jamie. Di solito per sollevare chi sta male bisogna anche fingere di stare bene, per favore.”
“Ma certo”, masticai, stirando un sorriso sulle labbra e aggiustandomi istintivamente i capelli…benché ci fosse davvero poco da sistemare.
“Non sono così terribili”, commentò la mia amica intuendo i miei pensieri.
Annuii.
“Un ultima cosa”, fece, prendendo respiro,-“hai intenzione di parlare con William, oggi? Credo che lui debba sapere. Subito.
“Sì, certo che gli parlerò. Ieri mi è stato impossibile.”
“Okay.”
Prima che Nic potesse abbassare la maniglia, la porta si spalancò di scatto, facendoci sobbalzare sul posto.
L’infermiera arretrò di un passo, dopo averci travolto con la sua prorompente stazza.
“Ah, siete voi”, fece, superandoci,-“la vostra amica si è appena svegliata. Non strapazzatela”, si raccomandò, e poi arrancò fino alle scale senza nemmeno lasciarci rispondere.
Quando entrammo c’era un lieve pulviscolo che ancora aleggiava nei pressi della tenda tirata, la scarsa illuminazione barbagliava sull’acciaio del letto, sulla lunga credenza e sulla pelle sempre più pallida di Jamie.
Questa mi vide e si tirò su di slancio.
“Non ci posso credere”, commentò, portandosi una mano a coprirsi la bocca, gli occhi che non riuscivano a staccarsi da quella massa informe dei miei capelli.
Tentai di fare dell’ironia ma la mia voce venne tradita da dei tremiti; così desistetti e mi lasciai cadere su una delle due sedie accanto al letto di Jamie.
“L’anno scorso è successo ad un’altra ragazza”, mormorò quest’ultima,-“mi dispiace così tanto.”
“Parliamo di altro, per l’amor del cielo!”, sbottò Nicole in un eccesso di nervoso; poi però si riprese con un colpetto di tosse e si sforzò di sorridere,-“voglio dire, su con la vita! I capelli ricrescono e tu tra un po’ di tempo ti alzerai da questo letto dei miei stivali e tornerai con il naso tra le pagine di un libro. Tranquille, no?”
Ci ritrovammo ad annuire.
Mentre i miei pensieri correvano da tutt’altra direzione, trascorsero una bella manciata di minuti, tanto che non mi accorsi di Nicole che stava aiutando Jamie ad alzarsi.
“Non riesco nemmeno a sorreggermi da sola per andare in bagno”, si lagnò Jamie, col viso sofferente.
Nicole le allacciò un braccio intorno alla schiena e ridacchiò.
“Quando me ne andrò voi due cadrete a pezzi, senza di me siete perse, amiche mie.”
M’irrigidii. Jamie ancora non sapeva che Nicole si sarebbe trasferita a breve; infatti, questa voltò di scatto la testa arruffata verso l’amica, guardandola stralunata.
“Che cosa vuoi dire? Oh, credo di aver capito”, sussurrò Jamie, realizzando poco a poco,-“era questa la notizia che dovevano darti i tuoi genitori? Che ve ne dovete andare?”
Nicole mi dava le spalle per questo non potetti vedere l’espressione del suo volto nell’accompagnare un desolato “sì, è così.”
Prima ancora che Jamie potesse ribattere o manifestare tutto il suo dispiacere, la porta dell’infermeria si aprì di colpo, strappando ad ognuna un grido.
William entrò di soppianto, gli occhi impazziti che scandagliarono tutta la stanza alla ricerca di…me.
“Emily, devi seguirmi!”
La sua mano mi afferrò il braccio –solo adesso rammento di come quest’episodio sia analogo a quello avvenuto mesi fa nella chiesa, ironia della sorte- e mi ritrovai ad incespicare dietro i suoi passi.
Puntai i piedi.
“Vuoi dirmi che succede? Perché sei così sconvolto?”
“Ho scoperto cosa è successo. Cosa sta per accadere.”
William aveva accostato il viso al mio, lo sguardo che m’implorava di non fare più domande e di seguirlo. Ma io, testarda e caparbia nel non voler più ricevere messaggi criptici, protestai:
“Beh, allora possiamo parlarne dopo. Perché anche io ho da dirti una certa cosa.”
“Emily…”
“Will, dav…”
“Mia madre vuole ucciderti!”, gridò scuotendomi per le spalle,-“mi hai sentito? Vuole ucciderti.”
Non so cosa mi passò per la testa in quel frangente –con quella rivelazione ancora in fase di metabolizzazione nella testa- ma mi voltai verso le mie due amiche che, come spettatrici indesiderate, erano rimaste pietrificate quanto me.
Le labbra di Jamie che mimavano un’esclamazione di terrore furono l’ultima cosa che vidi prima di venir trascinata via.
   
 
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