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Autore: Porrima Noctuam Tacet433    17/01/2015    1 recensioni
Sempre Geoffrey Martewall, ma attraverso occhi diversi.
Hector- "...aveva capito che c’erano ancora troppe ferite che il suo animo indomito tentava di sanare ogni giorno, troppa voglia di liberarsi da qualcosa."
Brianna-" Lo aveva visto dalle finestre e non aveva capito subito perché la paura l’avesse attaccata a tradimento, così all’improvviso. Poi la verità le si era rivelata in un modo così evidente che Brianna non aveva potuto continuare ad ignorarla."
Gant-"« Dovete sentirvi molto solo, sir. » gli aveva sputato addosso Gant, con una calma solo apparente.
Martewall aveva fermato il suo passo ma non si era voltato.
Jerome-"E sapeva anche che non avrebbe ascoltato il suo ordine.
Sembrava nato per essere diverso dagli altri, e, di conseguenza, per essere allo stesso tempo dannatamente irritante e dannatamente insostituibile."
Etienne-"Erano state poche le volte in cui aveva provato ad immaginare cosa pensasse.
Forse perché se c’era una cosa che Etienne detestava, era fallire. E da quel punto di vista, Martewall rappresentava un fallimento continuo."
Guillaume-" « Cercate solo… » disse, senza più voltarsi « Di non fare per orgoglio o paura la mia stessa fine. » "
...
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Geoffrey Martewall, Un po' tutti | Coppie: Geoffrey/Brianna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Filippo Augusto

Destino

Gli stivali piantati sulla terra brulla e resa sterile dalla sanguinosa battaglia sarebbero stati la prima cosa che i prigionieri avrebbero visto del loro supremo carceriere. Ed era giusto che fosse così.

Sentiva il sapore della vittoria sulla lingua, dietro alle labbra arricciate dalla soddisfazione. La guerra oramai era vinta. Gli inglesi, pochi e sparsi per tutta la pianura, vennero presto accerchiati dai francesi, disarmati, costretti in ginocchio e incatenati.

Vedeva tanti cadaveri di persone che aveva conosciuto, ma altrettanti uomini, fortunatamente, sorridevano nella sua direzione. Quel giorno sarebbe passato alla storia.

Filippo Augusto si guardava intorno e non vedeva altro che il suo riscatto verso la sorte che non aveva voluto favorirlo fino all’ultimo. Vedeva la grandezza della sua corona e della sua persona.

Ma  non fu l’unica meraviglia che vide.

In quel panorama di sconfitti arresi e vincitori orgogliosi, l’eccezione lo incuriosì.

L’elemento che rompeva l’equilibrio e la pace frenetica e sollevata di una guerra conclusa.

Lontano dal suo sguardo, un inglese aveva ancora la spada in mano. I francesi che lo avevano notato nella confusione lo avevano circondato e lui li affrontava, sopportando la fatica e avventandosi sui nemici come un’onda di tempesta sullo scoglio, instancabile anche se consapevole dell’ inutilità dei suoi gesti.

Oltrepassando i valletti che si accertavano delle sue condizioni, il re montò di nuovo sulla sella del suo cavallo oramai sfinito e lo costrinse al passo, raggiungendo il piccolo capannello di soldati francesi dall’aria timorosa. Quattro cavalieri lo seguirono all’istante, in silenzio.

In mezzo ai soldati dalle tuniche azzurre col fregio del giglio vi era un giovane uomo senza elmo, i lunghi capelli castani appiccicati al volto sporco di sangue e sudore, incrostati di terra. Le sopracciglia contratte dalla stanchezza incorniciavano due occhi chiarissimi di una freddezza assoluta contrapposta a un odio bruciante. Le dita erano serrate intorno alla spada, forti, il corpo pronto a staccare in qualunque direzione avrebbe potuto trovare un avversario. I tre soldati provarono a farsi avanti, uno con le corde e due con la spada. L’inglese mulinò la spada, elegante e preciso anche se ansante e spasmodicamente veloce, disegnando nell’aria un ampio semicerchio che solo per poco mancò la gola del primo soldato e il petto del secondo. I francesi grugnirono di rabbia, lanciando nel contempo un’occhiata ai due cadaveri sul terreno vicino a loro. Il primo era un loro compagno. Il secondo, con la tunica sporca di sangue e polvere, i capelli biondi sparsi intorno al viso libero dall’elmo, era lo sceriffo Derangale.

L’arrivo del re fu accolto con sollievo. I francesi osservarono guardinghi l’inglese, temendo di essere colpiti a tradimento e si allontanarono di qualche passo prima di inchinarsi.

Filippo Augusto li ignorò, osservando solo l’inglese che ricambiava con odio il suo sguardo, e con la coda dell’occhio riuscì a notare che uno dei suoi cavalieri stava infilando un dardo nella balestra. Alzò la mano per tranquillizzare tutti e riportò la sua attenzione esclusivamente sul giovane inglese, osservandolo attento, duro e severo.

« Capisci la mia lingua, inglese? »

Il giovane annuì una sola volta, freddamente e senza distogliere mai lo sguardo dal suo volto.

Filippo Augusto fece saettare per un momento lo sguardo alle sue spalle, là dove giaceva il corpo dello sceriffo, avvolto dal mantello cremisi.

« Non recheremo danno ai vostri morti. » affermò, « Né li offenderemo in alcun modo. » scandì in aggiunta, posando gli occhi ammonitori anche sui soldati, che annuirono convinti.

Jean Marc de Ponthieau aveva dei diritti sul suo nemico. Ma il re era abbastanza sicuro che gli avrebbe fatto avere degna sepoltura, appena lo avesse rivisto in mezzo alle piccole sortite mal organizzate che gli Imperiali tentavano prima di essere ancora costretti alla prigionia o alla fuga.

Lo sguardo dell’inglese ebbe un guizzo di dolore, e di incertezza mista a diffidenza. Al re il suo atteggiamento bastò per confermare i suoi sospetti. Quel cavaliere non stava continuando a combattere senza un motivo. Era una questione di rabbia e d’orgoglio, ma anche d’onore e protezione nei confronti dell’amico ucciso. Non si sarebbe arreso e non avrebbe mostrato un solo segno di vigliaccheria.

Il re, altero e rigido sul suo cavallo, lo squadrò dall’alto.

« Avete la mia parola d’onore. » disse, deciso. « Adesso gettate la spada. » e non poté fare a meno di sentire il rumore lieve dei dardi e del legno contro il metallo da dietro le spalle, là dove vigilavano i suoi cavalieri. E di compiacersi per questo.

L’inglese intanto seppelliva il dolore sotto strati d’odio e astio. La presa intorno all’impugnatura della spada si strinse invece che allentarsi.

« Non mi sono mai fidato molto dei francesi. » affermò il cavaliere, e con un guizzo fulmineo, la sua spada si sollevò assieme al braccio verso la direzione del re di Francia. Re Filippo non tradì una sola incertezza. Perché, forse a lui soltanto, l’inglese aveva in qualche modo lasciato intendere le sue intenzioni. Tutti i francesi si irrigidirono, i cavalieri puntarono le balestre su di lui e si frapposero tra lui e il re.

Filippo Augusto non lo vide fare un solo passo, un solo movimento. Non provava paura per la prigionia e forse, in quel momento di sofferenza non nutriva neanche uno spiccato timore della morte. Non aveva avuto intenzione di scagliarsi contro il sovrano fin dall’inizio, ma non avrebbe gettato la spada.

E Filippo continuava a sondare la sua anima sofferente e nascosta con lo sguardo.

Un soldato passò dietro la schiena dell’inglese e la lama del suo pugnale aderì alla gola del nemico, con uno strattone e un calcio tra la coscia e il polpaccio lo costrinse in ginocchio e il secondo gli bloccò le braccia dietro la schiena con le corde.

« Inchinati di fronte al nostro re, cane inglese!» gli sibilò vicino all’orecchio. Ora che il timore era passato credeva di potersi permettere gesti e parole del genere. Il sovrano non si stupì di sentire un soldato rivolgersi in quel modo a un cavaliere sconfitto, troppe volte aveva assistito a quell’ingiustizia. Ma i suoi occhi divamparono di un rimprovero duro e immediato.

« Rammenta che è un cavaliere, stolto! » lo redarguì. « E uno di quelli audaci. »aggiunse poi, più pacato e interessato.  

Per un secondo gli occhi dell’inglese si velarono di stupore.

Il soldato reclinò il capo dall’imbarazzo, chiedendo perdono.

Il re però non gli stava più rivolgendo alcuna attenzione. Si era nuovamente concentrato sul prigioniero.

« Siete Geoffrey Martewall? » chiese, aspettandosi già la risposta.

L’inglese annuì nello stesso modo freddo e determinato di poco prima.

« Lo immaginavo. »

Re Filippo Augusto posò poi lo sguardo sul corpo senza vita di Jerome Derangale e sulle mani di Martewall, sporche di sangue non suo. Il contegno di quest’ultimo macchiava l’aria di solenne tristezza. Nel momento in cui le iridi rifletterono nuovamente lo sceriffo si velarono di un sentimento indefinibile e sporcato di follia. La rabbia, a volte lucida e a volte cieca, era chiaramente parte integrante della sua tempra da vendicatore.

Il re spalancò per un momento gli occhi e aggrottò le sopracciglia con una smorfia di disappunto.

« Portatelo via. »

Quel giorno, l’Inghilterra si era macchiata di vergogna.

Re Filippo guardò Geoffrey Martewall un ultima volta prima che lo trascinassero troppo distante. Sapeva inquadrare le persone fin da subito e nel miglior modo possibile. Nel giorno in cui l’Inghilterra usciva disonorata da una guerra durata troppo a lungo, Filippo Augusto pensò al modo crudele in cui la vita costringeva alcuni uomini d’onore a pagare il prezzo dell’ingiustizia del mondo.

 

*

« La principessa Bianca mi ha raccontato del compito che vi ha affidato personalmente. »

Martewall annuì una sola volta alla sua constatazione, posando il gomito sul bracciolo dello scranno. Filippo lo stava scrutando con attenzione da diverso tempo. Gli abiti neri e sobri erano tipici di chi non voleva avere nessun tipo d’ostacolo nei movimenti, anche se la sua figura non mancava di una certa eleganza, la posa, per quanto si mantenesse rigida e imperscrutabile come la fermezza dello sguardo, celava una vena d’impazienza che non era sfuggita all’occhio attento del sovrano.

« Comprendo e approvo la sua decisione… » continuò, ma capì che l’inglese non aveva avuto dubbi su quello. « Anche se sono quasi sicuro che voi siate molto impaziente di tornare in patria. »

Martewall dovette annuire, cupo ma ardito.

« Lo sono. »

Il re sogghignò appena, nel vederlo così poco affabile.

« Lo immaginavo. »

Martewall sollevò lo sguardo e nei suoi occhi, per un momento, Filippo lesse sorpresa. Anche lui aveva ricordato l’ultima volta in cui gli erano state rivolte le solite esatte parole, dalla stessa persona. Ora il re non lo guardava dall’alto di un destriero, e non sentiva lo stesso disagio nel cavaliere inglese che percepiva in molte altre persone.

Geoffrey Martewall non provava timore nel stargli davanti, non provava soggezione. Solo un ferreo rispetto, ed era ciò che lo spingeva ad inchinarsi di fronte a lui. Tutto qui.

Si trovavano in una situazione diversa rispetto a quella vissuta quando Martewall aveva dovuto essere ospite dei Ponthieau. Guillaume gli aveva raccontato il modo ammirevole ed efficace  in cui il cavaliere aveva nascosto la rigidezza dei muscoli. Ma in quel momento, il barone non rischiava di rimanere intrappolato in una roccaforte francese dove la sua anima sarebbe stata logorata dall’angoscia e dal senso d’impotenza.

Anzi, probabilmente l’udienza con il re avrebbe aiutato i suoi conterranei. Re Filippo si augurò che fosse così.

« Per quanto riguarda la richiesta di Fitz Walter, la accolgo con piacere. » disse, riprendendo un discorso lasciato a metà poco tempo prima. Incrociò le dita davanti al mento, con un sorriso poco espansivo ma scaltro.

« Devo confessarvi che questi uomini attendono una richiesta come la vostra da tempo. L’Inghilterra sembra avere motivazioni più urgenti rispetto a quelle della Lingua d’Oca e dei suoi infedeli. » Filippo non riuscì, oppure non volle, trattenere una nota di stizza in quelle parole.

Geoffrey si fece se possibile ancora più attento, e probabilmente sapeva che i loro pensieri si stavano convergendo verso una sola direzione. Entrambi pensavano ad Adolphe de Gant.

E sapevano che non avrebbero dovuto entrare in argomento.

« è senz’altro così, maestà. » rispose Geoffrey, fingendosi inconsapevole delle riflessioni condivise. Nei suoi occhi si riflettevano decine di pensieri differenti. Filippo intuiva che pensasse al Falco, ma anche alla sua terra.

« Non ho toccato con mano le problematiche della Lingua d’Oca… » ammise Geoffrey, asciutto. « ma ho visto tante battaglie, e ben poche o forse nessuna difficile come quella che re Luigi sta portando avanti nella mia terra.»

Il sovrano sorrise, compiaciuto dalla risposta e dal sentire nominare così suo figlio. La parola re era stata pronunciata senza alcuna esitazione.

« Allora non vi trattengo oltre, sir Martewall. I vostri uomini avranno bisogno del loro Leone, e così mio figlio. »

Il cavaliere annuì con gratitudine, si alzò e si inchinò. Anche Filippo si era alzato per salutarlo onorevolmente.

Martewall era un mosaico contraddittorio.

Era estremamente difficile trovare tutti i pezzi dei suoi pensieri, metterli insieme. E quando ci si riusciva, si aveva la sensazione di non averne preso in considerazione qualcuno.

Ma ciò che c’era di buono era che, pur non avendo particolari doti diplomatiche, Martewall non lo annoiava. La profondità del suo essere e la sua incomprensibilità, le domande senza risposta, stimolavano la sua curiosità.

Il sovrano non metteva in dubbio che alcuni tratti del suo carattere fossero discutibili. Ma sapeva che Martewall non desiderava comprensione, forse per abitudine o per scelta, e non desiderava essere amato. Voleva solo combattere per i suoi ideali.

Sarebbero stati i fatti a parlare, per chi avesse voluto vedere e udire.

 

*

 

« Vi state rimproverando per ciò che è successo a Lincoln? » chiese Filippo Augusto, accarezzando le piume del  suo falcone sul collo ma rimanendo concentrato sul suo interlocutore.

Martewall lo osservò e non rispose.

« Ho solo avuto questa sensazione… » precisò il sovrano.

Geoffrey Martewall guardò il panorama collinoso e soleggiato, l’arco in mano e la faretra sulla spalla. Filippo Augusto aveva deciso di coinvolgere anche l’ospite straniero nella battuta di caccia col falcone che aveva organizzato.

Questo non aveva esattamente suscitato la gioia dei suoi feudatari, con l’eccezione dei Ponthieau, naturalmente, e dei compagni d’arme del Falco. Molti signori, ovviamente, credevano che fosse solo colpa degli inglesi se il loro principe non aveva messo le mani sulla corona d’Inghilterra. Ma siccome Martewall non pareva un incapace, sicuramente era qualcuno che non era stato abbastanza dedito alla causa, secodo loro.

« Mi preoccupa risultare di così semplice comprensione, sire. » disse a sorpresa Martewall, schietto e freddo come al solito. « Non penso che questo mi gioverà alla corte di Enrico. »

« Oh, non lo siete affatto, potete stare tranquillo. » rispose subito il sovrano, sicuro. « per questo ho sempre bisogno di chiedervi conferma dei miei sospetti, qualora ve ne siano. »

E con quest’ultima frase secca, il re pretendeva una risposta.

« Non nego ciò che avete intuito, sire. » rispose allora Martewall, guardando dritto davanti a sé con lo sguardo insondabile.

« Mi sento sempre così dopo una battaglia persa. Cerco il mio errore, qualcosa del nemico che ho sottovalutato o che non sono stato in grado di vedere. Ho bisogno di trovare qualcosa. »

Il re lo studiò per un lungo istante, prima di annuire.

« Capisco. » disse, pacato e riflessivo. « penso che se l’Inghilterra avesse avuto un re della vostra stessa tempra sarebbe stato un avversario molto più che temibile, contro cui il coraggio e la strategia non sarebbero bastate completamente. »

Martewall chinò il capo, ed era evidente quanto fosse rimasto colpito dal complimento inusuale e molto lusinghiero del sovrano, pronunciato con lucidità e raziocinio.

« Non penso di meritare queste vostre parole, sire. » si sentì in dovere di dire.

Filippo Augusto annuì con un gesto vago.

« Ditemi, sir… cosa avete pensato quando avete perso la battaglia di Bouvines? Anche allora avete cercato un vostro errore?» chiese, sinceramente curioso.

Martewall rimase in silenzio per un momento, prima di scuotere la testa.

« No. » rispose, freddamente. « Ero… sono assolutamente sicuro di aver fatto tutto ciò che dovevo, per quanto riguarda la strategia adottata. Non avrei potuto sceglierla io, mi sono dovuto adattare come molti altri. » 

« Almeno di quella disfatta quindi non vi ritenete responsabile. »

Martewall lo guardò negli occhi, con rispetto ma nessuna soggezione. Negli occhi aveva la certezza di star parlando con qualcuno che, almeno sul piano militare, poteva capire ciò che stava spiegando.

« No. Non di quella. Avevamo un re indegno e nessuna voglia di seguirlo. Abbiamo attaccato nel giorno del Signore. Non tutti erano d’accordo, io per primo, e questo è esattamente il genere di cosa che fiacca gli animi delle truppe. E in tutta sincerità, non ho mai visto di buon occhio l’alleanza con l’Imperatore. »

Re Filippo ghignò, ammirato. Non si aspettava niente di meno da lui, eppure in qualche modo Matewall riusciva ad essere sempre una sorpresa.

« Siete un grande guerriero. » ammise con un sogghigno che divenne in seguito più aspro. « Mi dispiacerebbe se un giorno io o mio figlio dovessimo avervi di nuovo come nemico. Il mio Falco mi ha donato un alleato onorevole e temibile… a cui, tra l’altro, è particolarmente affezionato… »

Martewall colse immediatamente l’avvertimento nelle sue parole, con un’occhiata fugace verso  Jean de Ponthieau, ignaro dei loro pensieri. Si incupì, irrigidendosi, un cambiamento che solo un osservatore esperto come il re di Francia avrebbe potuto cogliere.

Sapeva che Martewall non poteva dirgli nulla per ribattere alla sua ultima frase.

Se mai l’Inghilterra avesse, in futuro, di nuovo mosso guerra alla Francia, lui sarebbe stato dall’altra parte del fronte, a combattere per il suo popolo, senza rinnegare, tuttavia, in nessun caso il suo rispetto per la giustizia.

Filippo Augusto sapeva che il destino avrebbe fatto il suo corso. D’altra parte, non avrebbe mai pensato che il barone che aveva visto gareggiare al torneo con Sans-pitié sarebbe stato al suo fianco in quel momento di pace.  E sperò, senza troppa fiducia né illusione né dispiacere, perché  era un sovrano e non più un ragazzino incapace di essere lucido nelle sue constatazioni, che il fato non tirasse troppo i loro fili.

Che lascasse fare a lui il marionettista, senza aiuti né ostacoli.

D’altra parte, lo sapeva fare così bene…

 

 

Ed eccomi di ritorno, tardi, lo so e mi scuso.

Scusatemi per gli eventuali errori… sono un po’ distratta in questi giorni…

È un periodo un po’ pieno di cose da fare, ma facciamo un bel respiro, tra non molto sarà peggio.

Aaallooora… intanto, grazie per essere arrivati fino a qui! In secondo luogo, spiegherò la mia frase di prima. Sto traslocando, e vi assicuro che è più difficile di quanto si pensi, e io, pur essendo in un certo senso “ la piccola di casa” ho il mio bagaglio di lavoro anche senza la scuola… poooiii… esiste la possibilità che io per un periodo rimanga senza tempo o senza internet o senza entrambe le cose. Ad essere drastici, potrei sparire per un mesetto…

Eeee farò di tutto per pubblicare prima di andar via, non con un altro capitolo perché non ce la posso fare, ma, proprio per farmi perdonare ( sì, da te Wrong and Wright ; )) stavo pensando di pubblicare una storia missing moment che devo correggere e di aprire una tendina sul mio documento word degli appunti dopo averli sistemati un po’. Perdonata? ; ) : )

Mi dispiace moltissimo….

Grazie!!! Ciaao!

  
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