Filippo Augusto
Destino
Gli stivali piantati sulla terra brulla e resa
sterile dalla
sanguinosa battaglia sarebbero stati la prima cosa che i prigionieri
avrebbero
visto del loro supremo carceriere. Ed era giusto che fosse così.
Sentiva il sapore della vittoria sulla lingua,
dietro alle
labbra arricciate dalla soddisfazione. La guerra oramai era vinta. Gli
inglesi,
pochi e sparsi per tutta la pianura, vennero presto accerchiati dai
francesi,
disarmati, costretti in ginocchio e incatenati.
Vedeva tanti cadaveri di persone che aveva
conosciuto, ma
altrettanti uomini, fortunatamente, sorridevano nella sua direzione.
Quel
giorno sarebbe passato alla storia.
Filippo Augusto si guardava intorno e non vedeva
altro che
il suo riscatto verso la sorte che non aveva voluto favorirlo fino
all’ultimo.
Vedeva la grandezza della sua corona e della sua persona.
Ma non fu l’unica
meraviglia
che vide.
In quel panorama di sconfitti arresi e vincitori
orgogliosi,
l’eccezione lo incuriosì.
L’elemento che rompeva l’equilibrio e la pace
frenetica e
sollevata di una guerra conclusa.
Lontano dal suo sguardo, un inglese aveva ancora
la spada in
mano. I francesi che lo avevano notato nella confusione lo avevano
circondato e
lui li affrontava, sopportando la fatica e avventandosi sui nemici come
un’onda
di tempesta sullo scoglio, instancabile anche se consapevole dell’
inutilità
dei suoi gesti.
Oltrepassando i valletti che si accertavano delle
sue
condizioni, il re montò di nuovo sulla sella del suo cavallo oramai
sfinito e
lo costrinse al passo, raggiungendo il piccolo capannello di soldati
francesi
dall’aria timorosa. Quattro cavalieri lo seguirono all’istante, in
silenzio.
In mezzo ai soldati dalle tuniche azzurre col
fregio del
giglio vi era un giovane uomo senza elmo, i lunghi capelli castani
appiccicati
al volto sporco di sangue e sudore, incrostati di terra. Le
sopracciglia
contratte dalla stanchezza incorniciavano due occhi chiarissimi di una
freddezza assoluta contrapposta a un odio bruciante. Le dita erano
serrate
intorno alla spada, forti, il corpo pronto a staccare in qualunque
direzione
avrebbe potuto trovare un avversario. I tre soldati provarono a farsi
avanti,
uno con le corde e due con la spada. L’inglese mulinò la spada,
elegante e
preciso anche se ansante e spasmodicamente veloce, disegnando nell’aria
un
ampio semicerchio che solo per poco mancò la gola del primo soldato e
il petto
del secondo. I francesi grugnirono di rabbia, lanciando nel contempo
un’occhiata ai due cadaveri sul terreno vicino a loro. Il primo era un
loro
compagno. Il secondo, con la tunica sporca di sangue e polvere, i
capelli
biondi sparsi intorno al viso libero dall’elmo, era lo sceriffo
Derangale.
L’arrivo del re fu accolto con sollievo. I
francesi
osservarono guardinghi l’inglese, temendo di essere colpiti a
tradimento e si
allontanarono di qualche passo prima di inchinarsi.
Filippo Augusto li ignorò, osservando solo
l’inglese che
ricambiava con odio il suo sguardo, e con la coda dell’occhio riuscì a
notare
che uno dei suoi cavalieri stava infilando un dardo nella balestra.
Alzò la
mano per tranquillizzare tutti e riportò la sua attenzione
esclusivamente sul
giovane inglese, osservandolo attento, duro e severo.
« Capisci la mia lingua, inglese? »
Il giovane annuì una sola volta, freddamente e
senza
distogliere mai lo sguardo dal suo volto.
Filippo Augusto fece saettare per un momento lo
sguardo alle
sue spalle, là dove giaceva il corpo dello sceriffo, avvolto dal
mantello
cremisi.
« Non recheremo danno ai vostri morti. » affermò,
« Né li
offenderemo in alcun modo. » scandì in aggiunta, posando gli occhi
ammonitori
anche sui soldati, che annuirono convinti.
Jean Marc de Ponthieau aveva dei diritti sul suo
nemico. Ma
il re era abbastanza sicuro che gli avrebbe fatto avere degna
sepoltura, appena
lo avesse rivisto in mezzo alle piccole sortite mal organizzate che gli
Imperiali tentavano prima di essere ancora costretti alla prigionia o
alla
fuga.
Lo sguardo dell’inglese ebbe un guizzo di dolore,
e di
incertezza mista a diffidenza. Al re il suo atteggiamento bastò per
confermare
i suoi sospetti. Quel cavaliere non stava continuando a combattere
senza un
motivo. Era una questione di rabbia e d’orgoglio, ma anche d’onore e
protezione
nei confronti dell’amico ucciso. Non si sarebbe arreso e non avrebbe
mostrato
un solo segno di vigliaccheria.
Il re, altero e rigido sul suo cavallo, lo squadrò
dall’alto.
« Avete la mia parola d’onore. » disse, deciso. «
Adesso
gettate la spada. » e non poté fare a meno di sentire il rumore lieve
dei dardi
e del legno contro il metallo da dietro le spalle, là dove vigilavano i
suoi
cavalieri. E di compiacersi per questo.
L’inglese intanto seppelliva il dolore sotto
strati d’odio e
astio. La presa intorno all’impugnatura della spada si strinse invece
che
allentarsi.
« Non mi sono mai fidato molto dei francesi. »
affermò il
cavaliere, e con un guizzo fulmineo, la sua spada si sollevò assieme al
braccio
verso la direzione del re di Francia. Re Filippo non tradì una sola
incertezza.
Perché, forse a lui soltanto, l’inglese aveva in qualche modo lasciato
intendere le sue intenzioni. Tutti i francesi si irrigidirono, i
cavalieri
puntarono le balestre su di lui e si frapposero tra lui e il re.
Filippo Augusto non lo vide fare un solo passo, un
solo
movimento. Non provava paura per la prigionia e forse, in quel momento
di
sofferenza non nutriva neanche uno spiccato timore della morte. Non
aveva avuto
intenzione di scagliarsi contro il sovrano fin dall’inizio, ma non
avrebbe
gettato la spada.
E Filippo continuava a sondare la sua anima
sofferente e
nascosta con lo sguardo.
Un soldato passò dietro la schiena dell’inglese e
la lama
del suo pugnale aderì alla gola del nemico, con uno strattone e un
calcio tra
la coscia e il polpaccio lo costrinse in ginocchio e il secondo gli
bloccò le
braccia dietro la schiena con le corde.
« Inchinati di fronte al nostro re, cane inglese!»
gli
sibilò vicino all’orecchio. Ora che il timore era passato credeva di
potersi
permettere gesti e parole del genere. Il sovrano non si stupì di
sentire un
soldato rivolgersi in quel modo a un cavaliere sconfitto, troppe volte
aveva
assistito a quell’ingiustizia. Ma i suoi occhi divamparono di un
rimprovero
duro e immediato.
« Rammenta che è un cavaliere, stolto! » lo
redarguì. « E
uno di quelli audaci. »aggiunse poi, più pacato e interessato.
Per un secondo gli occhi dell’inglese si velarono
di
stupore.
Il soldato reclinò il capo dall’imbarazzo,
chiedendo
perdono.
Il re però non gli stava più rivolgendo alcuna
attenzione.
Si era nuovamente concentrato sul prigioniero.
« Siete Geoffrey Martewall? » chiese, aspettandosi
già la
risposta.
L’inglese annuì nello stesso modo freddo e
determinato di
poco prima.
« Lo immaginavo. »
Re Filippo Augusto posò poi lo sguardo sul corpo
senza vita
di Jerome Derangale e sulle mani di Martewall, sporche di sangue non
suo. Il
contegno di quest’ultimo macchiava l’aria di solenne tristezza. Nel
momento in
cui le iridi rifletterono nuovamente lo sceriffo si velarono di un
sentimento
indefinibile e sporcato di follia. La rabbia, a volte lucida e a volte
cieca,
era chiaramente parte integrante della sua tempra da vendicatore.
Il re spalancò per un momento gli occhi e aggrottò
le
sopracciglia con una smorfia di disappunto.
« Portatelo via. »
Quel giorno, l’Inghilterra si era macchiata di
vergogna.
Re Filippo guardò Geoffrey Martewall un ultima
volta prima
che lo trascinassero troppo distante. Sapeva inquadrare le persone fin
da
subito e nel miglior modo possibile. Nel giorno in cui l’Inghilterra
usciva
disonorata da una guerra durata troppo a lungo, Filippo Augusto pensò
al modo
crudele in cui la vita costringeva alcuni uomini d’onore a pagare il
prezzo
dell’ingiustizia del mondo.
*
« La principessa Bianca mi ha raccontato del
compito che vi
ha affidato personalmente. »
Martewall annuì una sola volta alla sua
constatazione,
posando il gomito sul bracciolo dello scranno. Filippo lo stava
scrutando con
attenzione da diverso tempo. Gli abiti neri e sobri erano tipici di chi
non
voleva avere nessun tipo d’ostacolo nei movimenti, anche se la sua
figura non
mancava di una certa eleganza, la posa, per quanto si mantenesse rigida
e
imperscrutabile come la fermezza dello sguardo, celava una vena
d’impazienza
che non era sfuggita all’occhio attento del sovrano.
« Comprendo e approvo la sua decisione… »
continuò, ma capì
che l’inglese non aveva avuto dubbi su quello. « Anche se sono quasi
sicuro che
voi siate molto impaziente di tornare in patria. »
Martewall dovette annuire, cupo ma ardito.
« Lo sono. »
Il re sogghignò appena, nel vederlo così poco
affabile.
« Lo immaginavo. »
Martewall sollevò lo sguardo e nei suoi occhi, per
un
momento, Filippo lesse sorpresa. Anche lui aveva ricordato l’ultima
volta in
cui gli erano state rivolte le solite esatte parole, dalla stessa
persona. Ora
il re non lo guardava dall’alto di un destriero, e non sentiva lo
stesso
disagio nel cavaliere inglese che percepiva in molte altre persone.
Geoffrey Martewall non provava timore nel stargli
davanti,
non provava soggezione. Solo un ferreo rispetto, ed era ciò che lo
spingeva ad
inchinarsi di fronte a lui. Tutto qui.
Si trovavano in una situazione diversa rispetto a
quella
vissuta quando Martewall aveva dovuto essere ospite dei Ponthieau.
Guillaume
gli aveva raccontato il modo ammirevole ed efficace
in cui il cavaliere aveva nascosto la
rigidezza dei muscoli. Ma in quel momento, il barone non rischiava di
rimanere
intrappolato in una roccaforte francese dove la sua anima sarebbe stata
logorata dall’angoscia e dal senso d’impotenza.
Anzi, probabilmente l’udienza con il re avrebbe
aiutato i
suoi conterranei. Re Filippo si augurò che fosse così.
« Per quanto riguarda la richiesta di Fitz Walter,
la
accolgo con piacere. » disse, riprendendo un discorso lasciato a metà
poco
tempo prima. Incrociò le dita davanti al mento, con un sorriso poco
espansivo
ma scaltro.
« Devo confessarvi che questi uomini attendono una
richiesta
come la vostra da tempo. L’Inghilterra sembra avere motivazioni più
urgenti
rispetto a quelle della Lingua d’Oca e dei suoi infedeli. » Filippo non
riuscì,
oppure non volle, trattenere una nota di stizza in quelle parole.
Geoffrey si fece se possibile ancora più attento,
e
probabilmente sapeva che i loro pensieri si stavano convergendo verso
una sola
direzione. Entrambi pensavano ad Adolphe de Gant.
E sapevano che non avrebbero dovuto entrare in
argomento.
« è senz’altro così, maestà. » rispose Geoffrey,
fingendosi
inconsapevole delle riflessioni condivise. Nei suoi occhi si
riflettevano
decine di pensieri differenti. Filippo intuiva che pensasse al Falco,
ma anche
alla sua terra.
« Non ho toccato con mano le problematiche della
Lingua
d’Oca… » ammise Geoffrey, asciutto. «
ma ho visto tante battaglie, e ben poche o forse nessuna difficile come
quella
che re Luigi sta portando avanti nella mia terra.»
Il sovrano sorrise, compiaciuto dalla risposta e
dal sentire
nominare così suo figlio. La parola re era stata pronunciata senza
alcuna
esitazione.
« Allora non vi trattengo oltre, sir Martewall. I
vostri
uomini avranno bisogno del loro Leone, e così mio figlio. »
Il cavaliere annuì con gratitudine, si alzò e si
inchinò.
Anche Filippo si era alzato per salutarlo onorevolmente.
Martewall era un mosaico contraddittorio.
Era estremamente difficile trovare tutti i pezzi
dei suoi
pensieri, metterli insieme. E quando ci si riusciva, si aveva la
sensazione di
non averne preso in considerazione qualcuno.
Ma ciò che c’era di buono era che, pur non avendo
particolari doti diplomatiche, Martewall non lo annoiava. La profondità
del suo
essere e la sua incomprensibilità, le domande senza risposta,
stimolavano la
sua curiosità.
Il sovrano non metteva in dubbio che alcuni tratti
del suo
carattere fossero discutibili. Ma sapeva che Martewall non desiderava
comprensione, forse per abitudine o per scelta, e non desiderava essere
amato.
Voleva solo combattere per i suoi ideali.
Sarebbero stati i fatti a parlare, per chi avesse
voluto
vedere e udire.
*
« Vi state rimproverando per ciò che è successo a
Lincoln? »
chiese Filippo Augusto, accarezzando le piume del suo
falcone sul collo ma rimanendo concentrato
sul suo interlocutore.
Martewall lo osservò e non rispose.
« Ho solo avuto questa sensazione… » precisò il
sovrano.
Geoffrey Martewall guardò il panorama collinoso e
soleggiato, l’arco in mano e la faretra sulla spalla. Filippo Augusto
aveva
deciso di coinvolgere anche l’ospite straniero nella battuta di caccia
col
falcone che aveva organizzato.
Questo non aveva esattamente suscitato la gioia
dei suoi
feudatari, con l’eccezione dei Ponthieau, naturalmente, e dei compagni
d’arme
del Falco. Molti signori, ovviamente, credevano che fosse solo colpa
degli
inglesi se il loro principe non aveva messo le mani sulla corona
d’Inghilterra.
Ma siccome Martewall non pareva un incapace, sicuramente era qualcuno
che non
era stato abbastanza dedito alla causa, secodo loro.
« Mi preoccupa risultare di così semplice
comprensione,
sire. » disse a sorpresa Martewall, schietto e freddo come al solito. «
Non
penso che questo mi gioverà alla corte di Enrico. »
« Oh, non lo siete affatto, potete stare
tranquillo. »
rispose subito il sovrano, sicuro. « per questo ho sempre bisogno di
chiedervi
conferma dei miei sospetti, qualora ve ne siano. »
E con quest’ultima frase secca, il re pretendeva
una
risposta.
« Non nego ciò che avete intuito, sire. » rispose
allora
Martewall, guardando dritto davanti a sé con lo sguardo insondabile.
« Mi sento sempre così dopo una battaglia persa.
Cerco il
mio errore, qualcosa del nemico che ho sottovalutato o che non sono
stato in
grado di vedere. Ho bisogno di trovare qualcosa. »
Il re lo studiò per un lungo istante, prima di
annuire.
« Capisco. » disse, pacato e riflessivo. « penso
che se
l’Inghilterra avesse avuto un re della vostra stessa tempra sarebbe
stato un
avversario molto più che temibile, contro cui il coraggio e la
strategia non
sarebbero bastate completamente. »
Martewall chinò il capo, ed era evidente quanto
fosse
rimasto colpito dal complimento inusuale e molto lusinghiero del
sovrano,
pronunciato con lucidità e raziocinio.
« Non penso di meritare queste vostre parole,
sire. » si
sentì in dovere di dire.
Filippo Augusto annuì con un gesto vago.
« Ditemi, sir… cosa avete pensato quando avete
perso la
battaglia di Bouvines? Anche allora avete cercato un vostro errore?»
chiese,
sinceramente curioso.
Martewall rimase in silenzio per un momento, prima
di
scuotere la testa.
« No. » rispose, freddamente. « Ero… sono
assolutamente sicuro di aver fatto tutto ciò che dovevo, per
quanto riguarda la strategia adottata. Non avrei potuto sceglierla io,
mi sono
dovuto adattare come molti altri. »
« Almeno di quella disfatta quindi non vi ritenete
responsabile. »
Martewall lo guardò negli occhi, con rispetto ma
nessuna
soggezione. Negli occhi aveva la certezza di star parlando con qualcuno
che,
almeno sul piano militare, poteva capire ciò che stava spiegando.
« No. Non di quella. Avevamo un re indegno e
nessuna voglia
di seguirlo. Abbiamo attaccato nel giorno del Signore. Non tutti erano
d’accordo, io per primo, e questo è esattamente il genere di cosa che
fiacca
gli animi delle truppe. E in tutta sincerità, non ho mai visto di buon
occhio
l’alleanza con l’Imperatore. »
Re Filippo ghignò, ammirato. Non si aspettava
niente di meno
da lui, eppure in qualche modo Matewall riusciva ad essere sempre una
sorpresa.
« Siete un grande guerriero. » ammise con un
sogghigno che divenne
in seguito più aspro. « Mi dispiacerebbe se un giorno io o mio figlio
dovessimo
avervi di nuovo come nemico. Il mio Falco mi ha donato un alleato
onorevole e
temibile… a cui, tra l’altro, è particolarmente affezionato… »
Martewall colse immediatamente l’avvertimento
nelle sue
parole, con un’occhiata fugace verso Jean
de Ponthieau, ignaro dei loro pensieri. Si incupì, irrigidendosi, un
cambiamento che solo un osservatore esperto come il re di Francia
avrebbe
potuto cogliere.
Sapeva che Martewall non poteva dirgli nulla per
ribattere
alla sua ultima frase.
Se mai l’Inghilterra avesse, in futuro, di nuovo
mosso
guerra alla Francia, lui sarebbe stato dall’altra parte del fronte, a
combattere per il suo popolo, senza rinnegare, tuttavia, in nessun caso
il suo
rispetto per la giustizia.
Filippo Augusto sapeva che il destino avrebbe
fatto il suo
corso. D’altra parte, non avrebbe mai pensato che il barone che aveva
visto gareggiare
al torneo con Sans-pitié sarebbe stato al suo fianco in quel momento di
pace. E sperò, senza troppa fiducia né
illusione né
dispiacere, perché era un sovrano e non
più un ragazzino incapace di essere lucido nelle sue constatazioni, che
il fato
non tirasse troppo i loro fili.
Che lascasse fare a lui il marionettista, senza
aiuti né
ostacoli.
D’altra parte, lo sapeva fare così bene…
Ed
eccomi di ritorno, tardi, lo so e mi scuso.
Scusatemi
per gli eventuali errori… sono un po’ distratta
in questi giorni…
È
un periodo un po’ pieno di cose da fare, ma facciamo un
bel respiro, tra non molto sarà peggio.
Aaallooora…
intanto, grazie per essere arrivati fino a
qui! In secondo luogo, spiegherò la mia frase di prima. Sto
traslocando, e vi
assicuro che è più difficile di quanto si pensi, e io, pur essendo in
un certo
senso “ la piccola di casa” ho il mio bagaglio di lavoro anche senza la
scuola…
poooiii… esiste la possibilità che io per un periodo rimanga senza
tempo o senza
internet o senza entrambe le cose. Ad essere drastici, potrei sparire
per un
mesetto…
Eeee
farò di tutto per pubblicare prima di andar via, non
con un altro capitolo perché non ce la posso fare, ma, proprio per
farmi
perdonare ( sì, da te Wrong and Wright ; )) stavo pensando di
pubblicare una
storia missing moment che devo correggere e di aprire una tendina sul
mio
documento word degli appunti dopo averli sistemati un po’. Perdonata? ;
) : )
Mi
dispiace moltissimo….
Grazie!!!
Ciaao!