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Autore: Nyktifaes    18/01/2015    4 recensioni
Dal primo capitolo:
[...]
“Saresti potuto restare in auto”, pensò Alice.
«No, voglio stare qui», mormorai.
Il piccolo casolare non era cambiato, in quegli anni. Le finestre del pian terreno lasciavano ancora intravedere la cucina malamente ridipinta di giallo e il bianco dei muri esterni era ancora candido, nonostante le intemperie. Un solo particolare fuori posto: i portelloni di una delle finestre del piano superiore erano sbarrati.
Strinsi i denti: Alice aveva appena suonato. Charlie, all’interno della casa, non era particolarmente contento di dover abbandonare la poltrona. [...]
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: New Moon, Successivo alla saga
Capitoli:
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Vento e Mare

Erano ben quattro giorni – stando a quanto riferito da Alice – che non cadeva una goccia d’acqua dal cielo. Una sorta di record storico, per la penisola di Olimpia. In compenso, il vento ululava senza sosta e travolgeva qualsiasi cosa si trovasse sul suo cammino. Probabilmente se ci fossimo trovati in città avremmo assistito a un’orchestra di persiane che sbattevano, cani che uggiolavano e strepiti infastiditi. Ma, essendo sulla scogliera, non v’erano imprecazione né suoni irritanti, solo lo sciabordio delle onde sugli scogli.
Lasciata Forks, avevamo proseguito per diversi chilometri, verso sud, seguendo l’autostrada 101.
Il suono del vento sul mare è forse uno delle musiche naturali più armoniose e voraci che esistano. Assolutamente perfetta. Più e più volte avevo tentato di ricrearla al pianoforte, specie durante i primi anni dopo la trasformazione – la noia era forte quasi quanto l’esuberanza per le capacità potenziate – senza mai riuscirci davvero. Ci ero andato vicino, ma la forza e l’eleganza delle onde erano impossibili da replicare. La rabbia, la bellezza, la potenza, la sofferenza e l’attesa del mare che si scaglia contro la roccia, poi si ritira e poi di nuovo s’infrange con più forza, ha bisogno di comprensione per essere ricreata.
In quel momento, lontano dal mondo e combattendo me stesso come le rocce respingono le rocce, sapevo di aver compreso. Avevo il mare dentro e fuori.
«Spiegami di nuovo cosa stiamo facendo», dissi.
Il vento coprì la mia voce, ma Alice sentì ugualmente.
«Tu non stai facendo nulla, io mi sto impegnando».
«A fare cosa, se posso saperlo?».
Avevo capito cosa stava facendo, potevo vederlo, ma continuavo a non afferrarne il senso.
«Cerco», mormorò, e continuò imperterrita a scavare nel buio del futuro, senza trovare nulla. Andava avanti così da quando avevamo terminato il colloquio con i licantropi: anche il nostro futuro era sparito. O meglio, per dirla giusta, era stato oscurato.
Li avevamo incontrati quella stessa mattina, dopo aver cancellato ogni traccia del nostro passaggio dalla casa a Forks.
Al confine, come ottant’anni prima, avevamo ristabilito la pace. Mi ero quasi dovuto scusare – quasi – e mia sorella con me. Avevamo parlato, loro avevano chiesto dell’assenza di Carlisle – il nostro capo, come l’aveva definito Sam, il loro alpha – e noi di Bella. Erano stati restii a raccontarci di lei, mi consideravano il suo assassino e, a dirla tutta, non avevano tutti i torti. Alice aveva avuto l’onere di trattenermi due volte durante l’incontro durato poco più di un’ora. La prima volta, quando le immagini del corpo della donna che sostenevo di amare erano tornate tra i pensieri dei lupi e, con loro, la sofferenza a stritolarmi le membra.
La seconda volta, Alice dovette proteggere i licantropi. Rievocando le immagini, avevano ripescato anche conversazioni lontane, le loro opinioni in merito alla gravidanza e al feto. Lo consideravano un errore, un abominio, una creatura pericolosa. Come me. Ma Bella lo amava, senza pensare a sé stessa e al suo destino, senza un perché logico, lei lo amava. Esattamente come amava me.
Nonostante ciò, volevano evitare che nascesse e avevano trovato un’unica soluzione: uccidere Bella. Forse, se avessero aspettato, il feto sarebbe stato troppo forte per essere fermato con facilità, il suo futuro sarebbe stato incontrollabile e imprevedibile. La gente del villaggio sarebbe potuta morire, le loro famiglie, i loro amici, e tutto perché un’umana si era fatta mettere incinta da un vampiro.
Sacrificare uno per molti, questo era stato il loro ragionamento. La vita di Bella era trascurabile, la protezione del loro prezioso villaggio indispensabile.
Avevo perso la ragione.
Quei bastardi sostenevano addirittura di essere protettori degli umani! Si riempivano la bocca di belle parole, ma erano pronti ad ammazzare una ragazza innocente solo per blando timore di un futuro ancora lontano.
Prima che riuscissi a scagliarmi contro di loro, prima ancora che Alice avesse il tempo di bloccarmi, mi avevano, senza volerlo, fatto avere l’unica ragione per cui Bella era ancora viva. Uno di loro, un loro fratello, Jacob Black, colui che per diritto di nascita li avrebbe dovuti guidare, li aveva abbandonati ed era scappato con lei. Era innamorato di Bella e non aveva permesso che venisse uccisa.
Avevo pensato che Jacob Black fosse il suo assassino, poi che avesse semplicemente assistito alla sua morte e, infine, mi ero ritrovato a scoprire che lui era stato il suo salvatore. Non una, ma due volte. Alice era arrivata a tale conclusione mentre Sam stava ancora tentando di mascherare il vero perché della loro fuga. Bella non sarebbe mai riuscita a sopravvivere da sola ma, con l’aiuto di un licantropo sì.
Avevano tergiversato sulle ragioni che avevano spinto Jacob a salvarle la vita, tuttavia anche Alice – che non aveva potuto sentire i loro pensieri – aveva intuito la verità. Non avevano voluto dirci dove fossero andati, temevano che volessi trovare Jacob per ucciderlo. Non sapevano della mia facoltà di leggere le menti – né sospettavano che Bella fosse ancora viva – ma era palese che avessimo capito. Pensavano che fossi geloso di Jacob, che volessi eliminarlo solo per i sentimenti che aveva provato per la mia ex fidanzata.
Non potevano essere più lontani dalla realtà. Non riuscivo nemmeno a elaborare il fastidio che, in condizioni normali, il sapere di un altro uomo interessato a lei avrebbe scaturito. Se quell’uomo le aveva salvato la vita – com’era tanto sicura Alice – allora io non potevo che essergli riconoscente.
No, se anche avessimo trovato Jacob Black, non avrei mai potuto fargli del male. Piuttosto, l’avrei ringraziato.
Ma questo, loro, non l’avrebbero capito, quindi Alice fu costretta a montare una giustificazione alle nostre intenzioni.
«La creatura che Bella portava in grembo potrebbe essere un problema anche per quelli della nostra specie», aveva detto. «Dobbiamo mantenere la segretezza e tenere un profilo basso, perché gli umani non si accorgano di noi. E non siamo certi che questa creatura, data la sua particolare natura, riesca a farlo. Lui è una nostra responsabilità, di mio fratello, di tutta la famiglia. Vogliamo assicurarci che non faccia del male a nessuno».
I licantropi erano più propensi all’idea che lo volessimo semplicemente perché era mio figlio e, da bravi esseri immondi ed egoisti, ora che avevamo saputo della sua esistenza, volevamo appropriarcene.
Non che ciò che creasse loro dei problemi, tutt’altro. Ma speravano che la cosa fosse morta già da tempo, uccisa da Jacob Black.
Comunque, non si fidavano di me e delle intenzioni nei confronti del loro vecchio fratello. Fu Alice, ancora una volta, a comprenderli senza che parlassero, e a farci trovare una via d’uscita.
«Siamo addolorati per la morte di Bella, se avessimo saputo ciò che stava passando saremmo tornati e l’avremmo aiutata, nonostante la fine del rapporto tra lei e mio fratello. Ma ora dobbiamo occuparci della creatura, non possiamo abbandonarla». Il modo in cui aveva liquidato i miei sentimenti, come se fossero solo un insignificante soffio di brezza che si spegne alla prima difficoltà, non mi era piaciuto. Ma sapevo che aveva dovuto farlo, perché credessero che non avrei mai potuto provare gelosia nei confronti di Jacob Black e ci dessero informazioni sulla loro fuga.
«Inoltre», aveva aggiunto «se dovessimo trovare Jacob, gli faremmo sapere che i suoi fratelli sentono la sua mancanza e che lo vorrebbero di nuovo con loro». Anche quelle parole erano un mezzo per ingraziarci i licantropi. Loro erano troppo pochi per riuscire a difendere il villaggio e, contemporaneamente, cercare Jacob. Vidi nei loro pensieri quanto quella proposta suonasse allettante e rincarai la dose.
«Sappiamo cosa si prova a essere separati, e anche per noi la famiglia è importante», avevo aggiunto.
Avevo ascoltato i loro tentennamenti per svariati minuti, attesi mentre rievocavano le parole degli anziani della tribù e provavano a convincersi che eravamo davvero mostri di parola, che potevano fidarsi di noi. Non ne erano certi, ma volevano farlo. L’idea di riavere Jacob Black con loro sembrava parecchio allettante ma, soprattutto, sapevano che ce ne saremmo andati. Se ci avessero aiutato, se ci avessero fornito le informazioni minime che possedevano, saremmo subito partiti e avremmo lasciato Forks, e la riserva.
Sam ci osservò a lungo, insieme al lupo che, dietro di lui, aveva mantenuto le sembianze animalesche.
Prima ancora che aprisse bocca, che realizzasse di aver preso una decisione, il futuro si schiarì ed io potei appropriarmi delle poche notizie che avevano.
 
Più i minuti passavano, più il mare si faceva audace contro gli scogli. Gli schizzi di salsedine arrivavano fino al promontorio, quindi fino ai miei capelli.
“Sto cercando”, aveva detto Alice. Accovacciata contro una sporgenza rocciosa, dava le spalle all’oceano. Lo sguardo vitreo, persa nei meandri di ciò che non è ancora accaduto.
«E hai trovato qualcosa, a parte il nulla?».
Sbuffò, ma si limitò a insultarmi mentalmente. «No, ma ho avuto l’ennesima conferma della mia tesi: ci sono due bui diversi, e quello di Bella è come il nostro».
Come il nostro, quindi causato non da una luce spenta, ma momentaneamente oscurata.
«Fantastico, perderai anche noi?», la derisi.
Mi osservò, riemergendo per un momento dal futuro. Inarcò un sopraciglio.
“Sei di buon umore. Come mai?”.
No, decisamente non ero di buon umore. Ma odiavo quella sensazione di assoluta immobilità interiore che mi aveva accompagnato per anni. Poi era arrivata lei, e tutto era diventato dinamico, si era colorato e aveva trovato un suo scopo. Ma lei era sparita, ed io ero piombato di nuovo nell’immobilità. Mi era stata gettata un’ancora, pensavo di poterla usare per riprendere il movimento, ma era troppo pesante e troppo naturalmente statica.
Staticità.
Apatia.
Immobilità.
Sinonimi di un unico grigio, freddo e compatto, lento e morto.
Tutto, fuori e dentro di me, rallentava. Il movimento forsennato delle onde si quietava, scorreva sempre più fiacco, arrivava alla barriera rocciosa, sommergeva le acque con altre acque, e poi si ritirava.
Il vento decelerava la sua collera, gemeva sempre più piano, sempre più piano, fino a fare di sé un sommesso sibilo.
Tutto perdeva di significato.
Ciò che provavo si stava assopendo, in un certo senso. Ogni singola emozione era potente e pronta ad esplodere, ma uno strato di polvere virtuale vi si depositava, istante dopo istante.
Odiavo tutto ciò, odiavo sentire il mio corpo e il mondo circostante rallentare e fermarsi, diventare un suono talmente ripetuto da rendere impossibile il riconoscimento delle singole note.
Lo odiavo, ma non trovavo un modo per evitarlo.
“No, non sei di buon umore”. Odiavo anche i sospiri mentali di Alice.
Scossi il capo, facendo in modo che qualche goccia schizzasse via dai miei capelli. E sperando che ciò bastasse a rimettere in moto qualcosa, al mio interno.
«Alice, siamo ad un punto morto».
Abbassò e alzò le palpebre, lentamente.
Basta.
«Hai ragione. Ed è colpa tua».
M’irrigidii, colto alla sprovvista. Colpa mia?
«Non sto facendo nulla, Alice».
«Appunto, non stai facendo nulla. Ci stiamo ripetendo», canticchiò, irosa. «E se tu non fai nulla, io non posso vedere nulla. È un circolo vizioso».
Strinsi le labbra quando mi resi conto di non capire cosa intendesse. Alice stava diventando troppo brava a nascondermi i suoi pensieri.
«I licantropi ci hanno detto dove cercare», continuò. «Ma sarebbe tutto dannatamente più facile se tu prendessi una decisione e mi permettessi di vedere».
«Io non devo prendere proprio nessuna decisione. Sono i licantropi a bloccare le tue visioni, per questo è tutto buio. Proprio come con Bella, no?», la provocai.
Mi fissò per lunghi istanti, poi volse il capo e spinse lo sguardo oltre, lontano dalla nostra realtà.
«È proprio questo che intendo: sei sarcastico, non credi davvero in ciò che stiamo facendo. Non pensi che Bella sia viva, quindi hai paura di cercarla».
«Non è vero! Io non penso che Bella non sia viva».
«Ma non sei sicuro che non sia morta, Edward. Nel tuo inconscio – e io lo so, dato che mi stai impedendo la vista – non sei convinto. Ora dobbiamo solo capire se la paura è il frutto o l’artefice di questa incertezza», soffiò.
«Io non ho paura». Ma seppi immediatamente di aver mentito.
Non ero intenzionato a farlo, perché davvero non sapevo di essere spaventato. Prima delle parole di Alice, non avevo riconosciuto la paura nei miei pensieri, nei muscoli impolverati e nei suoni ovattati.
No, non paura.
Nel mare lento, nel vento inconsistente e nelle mie emozioni atrofizzate.
La domanda giusta da porre era: di cosa avevo paura?
La risposta era altrettanto semplice: di tutto.
Di tutto e di niente.
Di Bella, di non riuscire a trovarla, del mostro, di quello che avrebbe potuto averle fatto – di quello che io le avevo fatto -, di non farcela, di non riuscire ad andare avanti, di non rivedere i suoi occhi cioccolato e di non sentire più il battito del suo cuore, del suo disprezzo. Della sua morte, della mia morte.
Alice si era voltata di nuovo e mi guardava. Teneva lo sguardo premuto contro il mio, indecifrabile. Anche i suoi pensieri erano indecifrabili, quasi nulli.
O forse era il panico a percepirli tali.
Di nuovo, fu lei a camminare fino a me, a prendermi una mano e a darmi conforto.
«Ti giuro che so ciò che vedo. So che Bella è viva, Edward. E so anche che se tu ora ti convinci che la vuoi trovare davvero, allora sarò in grado di fornirti ogni informazione per farlo», mormorò, prendendo una mia mano tra le sue.
 “Se non affronti ciò che ti spaventa, non riuscirai ad avere ciò che vuoi. Sei un uomo coraggioso, fratello. Non tradire la stima e l’affetto che provo per te”.
Alice, nonostante tutto, si fidava di me. Credeva in me.
Continuai a cercare nei suoi occhi qualcosa che anelavo, ma che lei ovviamente non avrebbe potuto dare: perdono.
Sapevo di non poter andare avanti così, di dover essere io a fare i passi avanti, a camminare da solo. Ma, in quel momento, unii entrambe le mani a quelle di mia sorella, e mi lasciai rassicurare dalla sua stretta e dal suo tepore.
«Ho paura», mormorai.
Sapevo che mi aveva sentito, nonostante avessi soffiato via quelle parole come un agonizzante. Le ripetei con più forza, perché odiavo sentire la mia voce così debole.
«Ho paura».
Alice si limitò ad annuire, senza rispondere.
«Ho paura di ciò che potrei trovare, dell’odio che potrebbe provare nei miei confronti. Ma sono stanco di aspettare e di lasciarmi travolgere dagli eventi. Se c’è anche solo una possibilità di trovarla, la troverò. E la supplicherò di perdonarmi. La rivoglio nella mia vita e, se lei me ne darà la possibilità, farò di tutto perché ciò accada».
Avevo bisogno di una scossa, di riprendere in mano la mia esistenza ed ero pronto a farlo. Non che la paura si fosse volatilizzata, c’era e ci sarebbe stata ancora, ma dovevo imparare a gestirla. Già una volta le avevo permesso di prendere il sopravento ed era finita che avevo smesso di vivere per sei anni.
Non mi sarei permesso di farmi ancora del male.
Alice aumentò la stretta sulle mie mani.
“Non sarà sola, lo sai”.
Tentava di figurarsi Bella con qualche anno in più, i capelli più lunghi e il volto più sottile. Un bambino, pallido e bellissimo, accanto a lei.
Ma Alice non aveva visto i ricordi di Sam. Non sapeva in che condizioni erano le sue ossa e il suo ventre dopo due sole settimane di gestazione. Se lei era viva, lui doveva essere automaticamente morto. Forse Jacob Black era riuscito a convincerla che la sua idea fosse una pazzia e l’aveva aiutata ad abortire.
Avrei dovuto aggiungere anche quella voce alla lista dei ringraziamenti.
«Prima troviamola, poi pensiamo al resto», risposi.
Lei sorrise e lasciò andare le mie mani. Era davvero convinta che potesse esserci un bambino paffutello ed incredibilmente pallido che aspettava suo padre.
«Ora che hai preso una decisione sarà tutto più facile».
Si sporse oltre il promontorio, osservando la roccia.
«Hanno detto che si sono diretti verso la costa, a sud. Se Bella stava male come dice Sam, non possono essere andati troppo lontano».
Saltò da una roccia all’altra, tenendo lo sguardo puntato sugli scogli.
La mente di Alice lavorava velocemente, ragionava e calcolava.
“Devono essere rimasti nelle vicinanze, almeno per un po’. Ci sono delle grotte naturali, lungo la scogliera…”
«Le insenature create dall’erosione sono troppo in basso e periodicamente sommerse dalla marea. Anche se fossero stati qui, non troveremmo più nulla».
Se c’era una cosa che però non comprendevo del suo piano, era il suo accanimento in quei luoghi. Perché cercare delle tracce vecchie di sei anni? Avremmo dovuto cercare lei, la sua posizione attuale, magari facendo delle ricerche. Non fissando l’oceano.
«Ricordami perché siamo ancora qui, però».
«Perché bisogna partire dall’inizio, per arrivare a qualcosa», rispose, senza distogliere lo sguardo dalla roccia.
«Vuoi partire da un indizio – che non troveremo – vecchio di sei anni?»
«Sì. Ora che hai preso una decisione, vedo con chiarezza. È la prospettiva sbagliata». Si tirò indietro e, con un balzo, mi tornò accanto. «Stiamo cercando dalla parte sbagliata», disse, voltandosi verso l’autostrada, seminascosta dagli alberi.
«Non ha senso, Alice. Perché? Se puoi vederci di nuovo, se dici che abbiamo preso una decisione, puoi vedere dove ci porterà. Cerca oltre, più lontano».
«No, ci vedo qui. Abbiamo bisogno di trovare qualcosa qui».
Sospirai. La forza che avevo sentito pochi minuti prima era fuggita via.
«Perché?».
«Manca ancora qualcosa. Serve un’altra decisione, o non troveremo proprio nulla».
Mi fece segno di seguirla.
«Andiamo, andiamo all’avventura!», esclamò, sarcastica.
Il fatto che quella frase sembrasse uscita da uno scadente programma per bambini non mi rassicurò.
«Come fai a dire che dobbiamo andare lì?», le chiesi, seguendola comunque.
Non si fermò davanti all’autostrada, ma proseguii, accelerando la corsa e inoltrandosi nella foresta.
«Ci vedo qui».
L’acqua aveva ripreso a sferzare la roccia, senza tregua, e il vento ululava forte alla nostre spalle.
 
Passammo il pomeriggio a perlustrare la foresta, osservando ogni singolo abete, inoltrandoci sempre di più nel cuore verde. Poi il sole calò, i raggi si fecero orizzontali e, per pochi minuti, fecero breccia nella coltre di nubi. La luce era riuscì appena ad oltrepassare la barriera delle fronde secolari, gettando ombre insolite e quasi calde nel sottobosco.
L’ennesimo crepuscolo luminoso.
Mi ero reso conto solo allora di quanto quel posto, non solo la donna che vi aveva abitato, mi fosse mancato.
Quindi il sole precipitò oltre l’orizzonte ed era si levò la luna.
La coltre di nubi non permetteva la vista delle stelle, rendendo il cielo un’opprimente cappa oscura. Perlomeno il vento aveva perso d’intensità.
Il “qui” di Alice iniziava a suonarmi quantomeno utopistico. Il fatto che non sapessi nemmeno cosa stessimo cercando non aiutava.
«Prima che tu dica quello che stai per dire, zittisciti. So cosa stiamo facendo: cerchiamo tracce del loro passaggio».
Soffiai fuori l’aria immagazzinata e le lanciai un’occhiataccia.
«E le cerchiamo tra le radici degli abeti?».
«Certo che no», alzò le spalle. «Ma una donna incinta non può essere trasportata su un albero, giusto?».
«Ovviamente. Ma non può nemmeno essere lasciata ai suoi piedi. E qui non c’è assolutamente nulla».
«Appunto. Quindi sono stati da qualche parte, qui, nella foresta».
Alice rallentò, per poi fermarsi. La imitai, osservandola. Iniziavo ad innervosirmi.
«Temo di dovermi ripetere: qui non c’è niente».
Scosse il capo. “Non qui, qui, Edward. Qui nel bosco”. E vidi disegnarsi tra i suoi pensieri l’immagine di una cascina, di una frotta o di una qualche piccola struttura isolata e abbandonata.
«Pensi che l’abbia portata in una catapecchia? Nelle sue condizioni?!», esclamai.
Scrollò le spalle. «Non penso avessero grandi alternative, o quello o niente. Ed io sono sicura che si tratti di un posto nel bosco, quindi non può essere altrimenti».
«Perché non me l’hai detto prima?».
“Perché di solito non hai bisogno che le cose ti vengano dette. Sei stato assorto per tutto il tempo”.
La guardai, e lei guardò me. Non sapevo che dire, cosa rispondere, perché a dire il vero non mi ero accorto di nulla. Avevo agito meccanicamente, seguendola e imitando i suoi gesti. Avevo osservato ciò che avevo intorno, riflettuto e contemporaneamente, senza rendermene conto, mi ero estraniato da tutto.
“Cosa c’era di tanto interessante nel tramonto?”.
Non dissi nulla, e lei non attese una risposta.
«Ho seguito l’odore del vento, all’inizio era assolutamente indistinguibile, ma come ci siamo addentrati nella foresta si è fatto più forte. Lo senti?».
Inarcai un sopraciglio. Corteccia, muschio, fronde, quell’odore speziato e leggermente caldo dei temporali estivi, un minimo sentore dell’oceano salato.
Il vento non era d’aiuto, soffiava in diverse direzioni e la mescolanza degli odori maggiori copriva i minori. Alice però aveva individuato un’esalazione particolare, qualcosa di simile alla corteccia e al muschio, ma decaduto.
Legno che marcisce.
Riportai lo sguardo su Alice. «A est?».
Annuì e partimmo.
Mano a mano che ci avvicinavamo l’odore si faceva più forte, arricchendosi di particolari e sfumature. La prima che mi colpì, quando ci ritrovammo a pochi metri dalla cascina, fu la muffa.
Una piccola costruzione fatiscente, di pietra e legno, si ergeva in un piccolo spiazzo libero dagli alberi. Con tutta probabilità lo spazio era stato appositamente creato tagliando degli alberi. Era minuscola, aveva l’aria di essere più una grande rimessa, che una piccola cascina. Una finestrella – senza vetri, ma coperta con un foglio di nylon per evitare l’entrata del vento – faceva mostra di sé sul lato sinistro della catapecchia.
Ci avvicinammo a passo umano, studiandola.
Spinsi la porta – non c’era alcuna serratura anche se, a giudicare da dei ganci, un tempo doveva esserci stata una catena – di legno, malandata e umida nonostante l’assenza di pioggia. L’interno, se possibile, era anche peggio: il pavimento era di terra battuta – addirittura qualche ciuffetto d’erba era riuscito a crescere alla base dei muri – e non v’era assolutamente nulla. Né un mobile, né una sedia, né degli attrezzi. Soltanto, spostate verso la parete di sinistra, erano posizionate delle pietre in modo da formare un cerchio, e la terra era scavata. Probabilmente lì veniva fatto il fuoco.
“Hanno vissuto in questo posto? Dio mio…”.
Nell’angolo, addossate alla parete, c’erano delle coperte ammucchiate l’una nell’altra. L’odore, lì dentro, era terribile: muffa, chiuso, legno marcio e qualcosa di acre. Acre, ripugnante e vecchio.
Materiale organico decomposto.
Sapevo con esattezza da dove provenisse quest’ultimo odore, ma fu Alice ad avvicinarsi alle coperte. Sollevò la prima, la tirò verso di sé per separarla da mucchio, e l’aprì. Il suo colore originale doveva essere chiaro, forse beige, ma non si poteva più dire con certezza, dato che era sporca e ricoperta di macchie scure.
Non avevo bisogno di avvicinarmi per capire che si trattava di sangue, né per sapere a chi fosse appartenuto. Nonostante gli anni e lo stato di decomposizione organica, il suo odore era inconfondibile.
Il mio corpo si mosse prima ancora che la volontà glielo ordinasse. Strappai dalle mani di Alice la coperta, la studiai in fretta, poi tirai in malo modo le altre. Quattro coperte, l’una più insanguinata dell’altra.
Ne stringevo i lembi nei pugni, il suo odore era ancora così forte, così inconfondibile.
Ma non poteva essere ancora viva, non dopo aver perso tutto quel sangue.
«Dicevi che era viva…», mormorai.
«Lei… lei è viva, ne sono ancora sicura. Non è cambiato nulla, lei è viva», boccheggiò.
La speranza era cresciuta, aveva assoggettato tutto a sé, e ora annientava ciò che aveva seminato. Sapevo che sarebbe potuto succedere, sapevo che sarebbe successo. Eppure non sentii nessun moto di rabbia montarmi dentro, né dolore. Solo un vuoto sordo, assoluto.
Non c’era nulla. Per un momento trovai quasi inquietante l’assenza di tutto.
Mi dissi che andava bene così.
La quiete prima della tempesta. Il vuoto prima dell’agonia.
«Alice, tu non vedi nulla, non sei sicura di niente. Smettila di raccontare cazzate. Lei è morta».
Alice scuoteva la testa, incredula.
«No, no. No! Lei non può essere morta, ne sono certa».
«Alice…».
«No, Edward, guarda!», strillò, additando la coperta più scura di tutte. Mia sorella, nonostante le sue congetture e le sue convinzioni, era sconvolta. «Vedi quelle, quelle cose?».
Mio malgrado seguii i suoi gesti ed osservai le macchie nere. In alcune di esse, anzi, in tante, erano presenti degli spazi più chiari, delle striature più pallide. Anche la loro composizione sembrava diversa, più granellata rispetto al sangue.
Lasciai che i pensieri di Alice di unissero ai miei, e che le sue supposizioni si sovrapponessero alle mie.
Le striature granulose erano un’altra membrana, organica di sicuro, ma diversa dal sangue. E si hanno gravi perdite di sangue solo se feriti o durante…
«Il parto?», mormorai. «Pensi che abbia partorito… Qui?».
«Penso che sia l’unica possibilità. Sono venuti qui per scappare dal branco, ma Bella non poteva allontanarsi troppo, non ne avrebbe avuto le forze. Poi c’è la questione della gravidanza accelerata…».
Smisi di ascoltarla, conscio che doveva avere ragione.
Aveva partorito, quindi. Jacob Black non era riuscito nella sua impresa, non era riuscito a convincerla ad abortire. Se la cosa le aveva spezzato le ossa prima ancora di venire al mondo, durante il parto… Ecco il perché di tutto quel sangue.
Lei era morta, non c’erano più dubbi.
Di nuovo, la consapevolezza cadde nel vuoto.
Mi limitai ad annuire, lasciandomi scivolare sul terreno, senza riuscire a lasciare andare le coperte.
Aveva partorito lì, in quel tugurio. E lì era morta.
«È morta, qui. Lei è morta qui», sussurrai, atono.
Dove l’aveva portata, Jacob Black? Dov’era il suo corpo? Le aveva dato degna sepoltura?
Avrei voluto portarle dei fiori. Sì, un bel mazzo di fiori. Delle margherite di campo, magari.
Chissà se le sarebbero piaciute, le margherite. Non le avevo mai regalato dei fiori. Che sciocco. Lei meritava tutti i fiori del mondo.
«Edward, no! Te l’ho già detto, lei non è morta. Ora più che mai sono sicura di ciò che ti dico, lei non è morta!». Alice mi parlava, mi tirava per un braccio, ma le sue parole non avevano senso.
La guardai.
«Alice, è pieno di sangue. Non può essere sopravvissuta, nessun umano sopravvive a una tale perdita di sangue. È morta».
«Forse Jacob Black aveva con sé delle sacche per le trasfusioni, forse è riuscito a fare qualcosa, qualsiasi cosa. Non so come sia andata, ma so che lei è viva. Guarda, guarda tu stesso!».
Mi aprì la sua mente e mi mostrò il buio. Rievocò l’immagine del buio della morte e lo confrontò con il suo futuro. La morte era il nulla assoluto, un buco nero da cui è impossibile uscire. Il futuro – il nostro quando eravamo con i licantropi, e il suo – era coperto da una tenda oscura, profondamente nera, ma aggirabile.
La morte non esiste, non è. Il futuro è.
Alice aveva studiato a lungo il buio del futuro, nelle ultime settimane, ed era arrivata alla conclusione che, con i giusti appigli, avrebbe potuto imparare ad aggirare il potere dei licantropi di oscurare le sue visioni.
“Vedi? Non è cambiato nulla, nemmeno ora che sappiamo che lei ha partorito. Nulla, il suo futuro è ancora lì, intatto. È solo oscurato, solo oscurato!”.
Come un flash, una nuova immagine di sovrappose al buio, nitida e ben definita. Pianure estesissime, calde e allo stesso tempo minacciate dalle piogge, un fiume dall’enorme portata d’acqua, una base militare dell’aeronautica.
Alice riconobbe automaticamente il fiume come il Missouri.
Quello era il nostro futuro, mio e di Alice.
Poi un altro fotogramma. Una città sulle colline, un cartello “Benvenuti a Grand Forks”.
Il volto di Alice s’illuminò.
“È il Missouri. Andiamo nel Dakota del Nord”.
 
 
 
Salve, gente! ^^
Beh, spero che il capitolo vi sia piaciuto, pur essendo fondamentalmente di passaggio. E io odio/amo i capitoli di passaggio. È sempre un’impresa colossale scriverli, e questo non è stato da meno. A volte un capitolo riesco a terminarlo in qualche giorno, questo mi ha preso almeno due settimane. Oserei definirlo un parto plurigemellare.
Quindi spero lo apprezziate, in caso contrario: ammiriate almeno la perseveranza nel non mandare tutto all’aria ahahah.
Durante la settimana non sto riuscendo ad entrare su efp, tanto meno quindi a rispondere alle recensioni (che ovviamente adoro, gnaww **), quindi vi anticipo che risponderò appena riuscirò a ritagliarmi un’oretta.
Il capitolo non è betato, domando venia per eventuali errori/orrori. Purtroppo la tecnologia si diverte a trollare sia me, sia la povera Joan. A proposito, grazie per aver sopportato i miei scleri durante la stesura di questo – e non solo – capitolo. Come farei senza i tuoi respiri profondi? loool
Bien, ho terminato. ^^
Buona settimana a tutti!
Vero
   
 
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