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Autore: Nike93    24/11/2008    6 recensioni
- Cosa… che cosa vuoi? – lo aggredì la voce di Bill, mentre il suo proprietario rimaneva incollato alla porta.
- Io sono… beh… tornato… - farfugliò Tom. Non si era aspettato che Bill gli saltasse in braccio dopo tre anni di completo silenzio, però neanche che gli rivolgesse quello sguardo. – Volevo solo… sapere come state, ecco… Tu, Haylie, la… - Deglutì, incapace di continuare. Bill lo aveva fulminato con lo sguardo, e quegli occhi sembravano tanto carichi di odio da stroncare le sue parole sul nascere [...]
- Haylie è morta! – ringhiò, subito prima che Tom lo vedesse scomparire, accompagnato da uno schianto. Furono necessari un paio di secondi perché si rendesse conto che Bill gli aveva chiuso la porta in faccia.
Genere: Song-fic, Mistero, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 11 – Gli scrigni dei ricordi

Capitolo 11 – Gli scrigni dei ricordi

 

“Domani sembrerà un giorno normale,

uno dei tanti a tutti gli altri uguale”

 

Mancavano due settimane a Natale e Bill non riusciva a capire se quei mesi gli fossero sembrati giorni o anni. La sua vita era talmente piena di cose che non gli interessavano da fargli perdere la concezione di tutto: del tempo, di se stesso, delle proprie emozioni… se poteva ancora provarne.

Provò a stilare un elenco di ciò che poteva includere nell’elenco di “cose inutili” della propria vita mentre, seduto al solito posto su quella sedia che ormai sentiva come parte integrante di sé, aspettava la chiamata delle solite famiglie in partenza per le vacanze.

Il lavoro in quell’agenzia si era guadagnato senza dubbio il primo posto. A volte si chiedeva ancora quale bizzarro scherzo del destino lo avesse portato a rinchiudersi tra quelle quattro mura.

C’era la vita in quella casa troppo grande per lui. Vero, adesso non era più lui da solo, ma era l’abitazione in sé, con i suoi mobili, le sue finestre e le sue stanze spaziose a farlo sentire come se non fosse realmente casa sua.

C’era il rapporto, ormai quasi inesistente, con sua madre. Simone era stata un punto di riferimento essenziale per lui subito dopo la morte di Haylie, o meglio, lui l’aveva considerata tale. Su quanti altri punti di riferimento avrebbe potuto contare? Cosa c’era a legarli? Stima o solitudine?

Simone era stata sempre presente, forse anche troppo. E allora perché tendeva a raccontarle sempre meno di sé, a sottrarsi alle sue domande e ai suoi tentativi di consolarlo, perché si sentiva come se lei l’avesse in qualche modo tradito?

Era assurdo, lo riconosceva. Ma era effettivamente così che si sentiva.

- Sì, signora, attenda in linea –

Volse lo sguardo verso la sua ormai stabile compagna di lavoro. Già, Michelle. Quella figura che, nella sua mente, andava sempre a collegarsi con quella di Simone, che pareva adorarla ogni giorno di più. Cosa mai poteva avere di particolare quella ragazza, oltre al fatto che sembrasse azionare il tasto “play” dei suoi ricordi per poi finire irrimediabilmente col farlo sentire uno straccio? Perché il suo sguardo, seppur così ingenuo e infantile, non mancava mai di inquietarlo?

Come se avesse avuto bisogno di uno stimolo, per ricordare…

 

Quando lo portarono fuori di peso, non aveva più voce per gridare, ma le lacrime parevano non dover finire mai, e lui le lasciò scorrere liberamente, stringendosi il busto tra le braccia e accasciandosi contro la parete bianca di quel luogo asettico.

- Haylie… - balbettò, chiudendo gli occhi e sentendosi scosso da un tremito. – Haylie… no… – singhiozzò piano, stringendosi di più tra le sue stesse braccia. Quando riaprì gli occhi a fatica, le lacrime li riempivano ancora, ma non gli impedirono di vedere che la sala d’attesa era vuota. Desolata come la sua anima.

Dov’era sua madre, dov’era Gordon, dov’erano tutti? Li aveva chiamati più di un’ora prima, quando tutto era cominciato.

“Non preoccuparti tesoro, se si libera un po’ la strada arriviamo in dieci minuti”.

Bugiardi… bugiardi loro che avevano trasformato dieci minuti in un’ora e mezza, bugiardo lui che gli aveva promesso che sarebbe tornato.

Era solo, e lo sarebbe stato anche al loro arrivo.

- Perché… perché? – Strinse i denti e abbandonò la testa all’indietro, contro il muro. – Dove sono… DOVE SONO TUTTI QUANDO UNO STA MALE?! –

Si accasciò su una sedia, il viso sepolto tra le mani, le lacrime che quasi lo soffocavano.

Piangere non serviva a nulla, ma lui pianse finché non sentì la testa dolergli e la gola bruciare, perché ormai niente sarebbe servito a niente.

Quando loro arrivarono, non li vide né li sentì. Solo molto tempo dopo avrebbe immaginato ogni loro movimento, ogni parola.

Simone si portò le mani alla bocca mentre un’esclamazione di stupore le moriva in gola. Tutto quello che venne dopo, lui lo percepì a malapena, perché il suo cuore era talmente gonfio da non lasciare spazio più a nessuna emozione.

- Oh, mio Dio… - balbettò appena Simone. Bill non alzò la testa, fu lei ad avanzare e abbracciarlo, abbracciarlo più forte di quanto non avesse mai fatto, affondando il volto tra i suoi capelli scompigliati. – Oh, BillyOh, tesoro… - mormorò come in una cantilena, cullandolo piano mentre lui, ancora seduto, si aggrappava al suo vestito e singhiozzava violentemente contro il suo grembo, sussultando tra le sue braccia.

Simone lo strinse più forte, Gordon gli sfiorò una spalla mormorando un sommesso “fatti coraggio”.

Non c’era nulla per cui farsi coraggio.

Haylie era morta. E le sue speranze, i suoi sogni, la sua musica… erano morti con lei.

 

L’intera giornata trascorse nel tedio più assoluto. Bill si chiese da quanti mesi andasse avanti non desiderando altro che ogni gruppo di ventiquattro ore si esaurisse il più presto possibile.

Quando fece per andarsene, si sentì chiamare.

- Bill, aspetta un attimo! –

Si girò, sorpreso, e vide Michelle richiudere in fretta i vari cataloghi sparpagliati davanti a lei. Dalle labbra non gli uscì altro che un incerto “sì?”.

La ragazza sorrise nervosamente, e Bill cercò di non chiedersene il perché. – Ascolta, volevo… volevo parlarti di una cosa –

Quella rivelazione non ottenne altro che far diminuire ulteriormente la sua voglia di far conversazione.

- E’ importante? – le chiese esitante. Il rossore che apparve sulle guance di Michelle non lo rassicurò.

- Beh… sì, diciamo di sì. Tra dieci minuti stacco anch’io, e così pensavo… -

- Senti, Michelle… - si costrinse a ribattere. Era la prima volta che la chiamava per nome da quando lavoravano insieme, e gli fece uno strano effetto. A dire il vero, lui non le si sarebbe neanche rivolto dandole del tu, se non fosse stata lei stessa a prendere quell’iniziativa. - …scusami, davvero, ma adesso non posso trattenermi – Che scusa avrebbe dovuto rifilarle? Aveva troppo da fare in casa? Aveva una famiglia ad aspettarlo? Doveva correre a spegnere il gas? Oh, sicuramente sua madre l’aveva dettagliatamente informata su quanto fosse vuota e squallida la sua esistenza. Quel pensiero fulminante lo trattenne dal cercare una scusa plausibile. – Magari ne parliamo domani, o… o quando vuoi, d’accordo? –

L’unico effetto che ottenne fu quello di intensificare il rossore sulle guance di Michelle, che lo guardò interdetta per qualche istante, per poi balbettare un: - Ok… d’accordo – Si riebbe quasi subito, riprendendo il suo solito sorriso. – Allora… beh, buona serata –

Bill uscì talmente in fretta da non darsi neanche il tempo di ribattere, ma aveva ben chiara in mente una possibile risposta.

Buona serata. Bella battuta.

- Bill! –

- Che c’è ancora?! – sbottò, fermandosi a pochi metri dall’uscita. Si girò pronto a trovarsi davanti due occhi celesti colmi di costernazione, ma a chiamarlo era stata sua madre.

- Aspetta, perché scappi? – Simone gli si avvicinò sorridendo. Ma cos’aveva da sorridere sempre? Come diamine faceva?

- Perché ho finito – rispose semplicemente, cercando di non far assumere al proprio tono una sfumatura d’irritazione. – Anche tu devi dirmi qualcosa? –

La donna non parve cogliere il leggero sarcasmo. – In queste ultime settimane non sono riuscita a scambiare neanche due parole con te… Come va adesso? Un po’ meglio? – gli chiese premurosamente, facendo come per sfiorargli una guancia con una carezza. Bill si ritrovò a voltare il viso, scansandola, e Simone lo fissò interdetta, la mano ancora ferma a mezz’aria. Bill la guardò, mordendosi le labbra, e vide un’ombra di profondo rammarico oscurare i suoi occhi. Posò una mano sulla sua, chiudendola a pugno e stringendola delicatamente.

- Scusami… scusami – mormorò, chinando il capo. Non voleva davvero scusarsi, così come non avrebbe voluto respingere quel suo semplice gesto d’affetto. Ma gli era venuto naturale. Terribilmente naturale. – Sono… molto stanco. Non so, forse va meglio… o forse no. Non lo so –

Simone gli accarezzò un braccio. – Non preoccuparti, Bill. Passerà –

- No, non passerà – sussurrò lui a fior di labbra, scuotendo lentamente la testa.

- Per Natale fate qualcosa? – Quel tono tutt’a un tratto falsamente vivace gli fece capire che sua madre stava solo cercando di tirarlo su. Ma forse lei non capì che avrebbe sortito l’effetto contrario.

- No. Cosa dovremmo fare? – La mascella di Bill si contrasse, come se volesse trattenersi dal rispondere male.

- Non lo so, chiedevo soltanto… -

- Non c’è niente da festeggiare – tagliò corto Bill, ritirando di scatto la mano. Sentì i muscoli irrigidirsi, segno che quella conversazione doveva interrompersi il più in fretta possibile.

- Bill, per favore, non fare così – quasi lo supplicò Simone. – Non capisci che chiuderti in te stesso non fa che peggiorare la situazione? –

La risposta, Bill ce l’aveva sulla punta della lingua.

Cosa mai potrebbe peggiorare, mamma?

Ma era stufo di fare la vittima, di farsi consolare quando poi non serviva a nulla.

Non voleva parlare con nessuno, o forse avrebbe voluto parlare con qualcuno che non sapeva ancora come affrontare.

- Ci vediamo domani, mamma –

 

 

- Ma allora oggi non lavori? –

Tom cambiò canale per l’ennesima volta mentre Bill, ancora fermo sulla soglia, lo guardava in attesa di risposta.

- No, te l’ho detto, stanotte qualcuno si è fregato l’intero contenuto della cassa –

Bill alzò le sopracciglia e annuì, come se dovesse riflettere su quanto Tom gli aveva appena detto. Se fosse stato il Bill di un tempo, la sua risposta sarebbe stata più o meno “però, vedo che ti dai da fare!”. Invece, quando Tom si voltò a guardarlo, il gemello non si era ancora tolto di dosso quell’aria apatica che aveva messo su giorni prima.

- Oh. Va bene – Altra pausa di riflessione. – Ti trovo, quando torno? –

Per un attimo, Tom pensò di dirgli che sarebbe uscito. E se Bill fosse tornato prima? Se avesse telefonato? No, decisamente non gli andava di mentire. Aveva ben chiaro in mente che, quel giorno, sarebbe rimasto a casa.

- Probabilmente sì –

- D’accordo – Bill alzò la cerniera del proprio giubbotto. – Allora… beh, a stasera –

- Mh-mh. Ciao –

Quando Bill si chiuse la porta alle spalle, Tom dovette appellarsi a tutta la forza di volontà che aveva per non saltare immediatamente giù dal divano e correre nello stanzino. In realtà, non sapeva ancora se quanto avesse in mente fosse giusto.

Cercò disperatamente un modo per distrarsi. Iniziò col proseguire lo zapping fino a prendere atto della totale assenza di qualcosa di decente in televisione. Passò al proprio cellulare, esplorandolo minuziosamente come faceva, da piccolo, con quello di Bill. Rilesse tutti gli sms ricevuti e inviati, scorse la lista delle chiamate, controllò il calendario: 14 dicembre. Meno di due settimane a Natale. Meno di due settimane al primo Natale senza Haylie, per Bill.

Attese ancora qualche minuto, tamburellando nervosamente le dita sul bracciolo del divano, prima di mandare al diavolo gli scrupoli e la forza di volontà. Si alzò rumorosamente e percorse a passo svelto il corridoio, fino ad arrivare davanti alla porta chiusa dello stanzino, ormai protagonista dei suoi pensieri e persino dei suoi incubi.

Stavolta si sarebbe imposto di non cedere ai dubbi o, peggio, ai sensi di colpa. Abbassò la maniglia, spinse la porta con decisione e, una volta entrato, spalancò l’unica finestra di quella stanza. Sollevò lo sguardo verso gli scatoloni accatastati in cima agli armadi: a prima vista, non dovevano essere più di quattro o cinque. Non riuscì a capire se contenessero oggetti più o meno pesanti o ingombranti, ma sembravano stracolmi di roba.

Per raggiungerli e tirarli giù, non dovette fare altro che alzarsi sulla punta dei piedi e muovere le braccia alla cieca sopra gli armadi.

Quando tutti gli scatoloni furono trasferiti sul pavimento, Tom rimase a guardarli esitante ancora per qualche secondo, poi tirò un profondo sospiro e sedette a terra a gambe incrociate.

Il suo sguardo si posò su tutti e quattro, a turno, poi vi passò una mano sopra, scoprendo che erano coperti da un dito polvere. Ne sollevò uno alla volta: non erano poi molto pesanti.

Al diavolo, si disse. Sto solo cercando di perdere tempo.

Tirò a sé il primo che gli capitò tra le mani e strappò con forza lo spesso scotch da pacchi che lo chiudeva. Lo aprì altrettanto in fretta, per paura che quel coraggio venisse tutt’a un tratto a mancare. E rimase a fissarne il contenuto con le sopracciglia aggrottate.

Erano vestiti. Nient’altro che abiti. Tom ne tirò fuori una parte, appoggiandoseli sulle gambe per non sporcarli, poi li contemplò a lungo. Abiti da donna, senza dubbio, abiti di ogni genere. Gonne lunghe e corte, pantaloni eleganti e jeans, maglioni e canottiere, tutti dai colori delicati e dalla linea semplice, raffinati e per nulla sfarzosi.

Aveva ben chiaro in mente il nome di chi li avrebbe indossati…

Li rimise nella scatola per poi passare alla successiva. Non si rese neanche conto di aver trattenuto il fiato, mentre svuotava anche quella.

Quella volta, riconobbe immediatamente il primo indumento che si trovò fra le mani. Era una maglietta rossa, stretta e asimmetrica. Haylie l’aveva indossata per un concerto dei Tokio Hotel, anche se lei era costretta ad assistere da dietro le quinte, perché faceva parte dello staff. Quella sera, lui l’aveva guardata per la prima volta in modo diverso dal solito. Quella sera, lei aveva alzato i pollici sorridendo incoraggiante. Quella sera, lei era bellissima…

Subito sotto di essa, trovò una leggera camicia da notte sui toni del rosa, e anche questa colpì istantaneamente la sua memoria. Gliel’aveva vista addosso tante volte, gliel’aveva sfilata anche se non avrebbe dovuto, quando Bill era lontano e non poteva vedere il loro tradimento.

Quel loro stupido, inutile tradimento…

Tutti e quattro gli scatoloni contenevano vestiti di Haylie. Alcuni li ricordava, altri non li aveva mai visti, ma tutti erano accomunati da un particolare: per quanto eleganti, per quanto fini e luminosi, erano così spaventosamente vuoti e spenti… Sembravano stracci, senza che lei li indossasse. Non erano altro che un mucchio di stoffa senza vita. E quelle scatole, non erano altro che pezzi di cartone tenuti insieme dallo scotch, ma per Tom era come aver trovato qualcosa di prezioso, delle ricchezze inestimabili chiuse dentro uno scrigno.

Guardò un’altra volta l’ultimo scatolone che aveva aperto, quello contenente gli abiti meno rovinati, presumibilmente più nuovi. Sfiorò con le dita un paio di jeans insolitamente larghi ripiegati in cima, pensando stupidamente che aveva sperato che anche uno solo di quei vestiti avesse trattenuto un briciolo dell’essenza di Haylie… ma poi i polpastrelli incontrarono qualcosa sotto la stoffa, un piccolo rettangolo rigido. Senza chiedersi più nulla, infilò una mano nella tasca di quei pantaloni e ne estrasse una busta da lettere piegata in due.

La distese lentamente, aprendola. Dentro c’era un foglio di carta ripiegato a sua volta. Tom esitò per qualche istante, spostando lo sguardo da un punto all’altro della busta, poi tirò fuori il foglio e lo spiegò, facendo attenzione a non rovinarlo.

Era un semplice foglio bianco coperto dall’inconfondibile grafia di Haylie, appuntita e inclinata verso destra. Non riportava altro che i segni della piegatura, per il resto non sembrava essere stato toccato più di una volta. Tom deglutì, forzando appena la presa sugli angoli del foglio.

 

12 marzo

Bill, amore mio,

questa strana e complessa avventura in cui ci siamo lanciati sta per finire –o, forse, per cominciare– e io sento il bisogno di parlarti, ma mi affiderò alla carta per evitare che i miei pensieri vadano troppo lontano e per cercare di spiegarmi con chiarezza.

Ho un po’ paura, sai Bill? Anzi no, ho tanta paura. Forse è stata la consapevolezza di averti accanto a me, sempre e comunque, che mi ha spinta a usare quel “po’ ”. Ancora oggi spesso mi chiedo cosa ti porti a non staccarti mai dal mio fianco, e altrettanto spesso non so rispondere. Ma alla fine penso che non m’importa, perché sono felice così.

Proprio così: sono felice. Sono felice semplicemente perché tu ci sei, e non mi serve nient’altro al mondo.

Ti chiedo scusa per tutte le volte che ti ho fatto credere di avere dei dubbi, in merito a quello che sta succedendo. Sappi che non è stato così. O, meglio, lo è stato all’inizio. Ora so che andrò avanti, che noi andremo avanti, e che la paura… beh, quella passerà.

Non sentirti mai in colpa, Bill, mai. O, perlomeno, non quando non devi e, stai tranquillo, questo non è un caso in cui tu debba sentirti colpevole.

Se non ci avessi creduto, se non avessi creduto in te, in noi, non sarei andata avanti. E, adesso che siamo giunti alla fine di questo percorso –e all’inizio di uno nuovo–, tutto quello che desidero è che tu mi resti vicino come hai sempre fatto in questi anni. Mi basta sentire le tue mani stringere le mie, la tua voce rassicurarmi e… davvero, non ho bisogno di nient’altro.

Com’era che mi dicevi sempre? Ce la faremo, tesoro.

Ti amo.

Tua Haylie

 

Tom ripiegò lentamente la lettera, incapace di mandare giù il nodo alla gola che quasi gli impediva di respirare.

Tutto quello che sapeva era che voleva piangere.

Era da solo, senza nessuno che lo guardasse o gli chiedesse qualcosa. Era libero, insomma. Poteva aprire i rubinetti e sciogliersi in lacrime fino a perdere i sensi.

E allora perché non ci riusciva?

“Questa strana e complessa avventura”… Che avventura?

“Non sentirti mai in colpa”… In colpa per cosa?

Se non ci avessi creduto, non sarei andata avanti”… Avanti? Verso quale meta?

Rilesse la data in cima alla lettera: 12 marzo. Doveva risalire al massimo a un mese prima che Haylie morisse, se aveva fatto bene i calcoli. Ma cosa mai potevano importare, i calcoli?

Su, avanti, piangi, si disse.

Gli occhi gli bruciavano, ma rimasero ostinatamente asciutti.

Piangi, idiota. Era questo che volevi, no?

Se solo avesse avuto una scusa, per farlo, una scusa per sentirsi così male. Se solo avesse potuto dire “Io amo ancora Haylie”.

Non era così. Amava il suo ricordo, gli mancava, ma i suoi sentimenti erano ben diversi da quelli che l’avevano spinto, tre anni e mezzo prima, a mettere in secondo piano quelli di Bill per seguire le proprie passioni. Haylie gli mancava perché lui non era arrivato a dirle tutto quello che avrebbe voluto, a scusarsi, gli mancava perché, da quando lei non c’era più, Bill aveva cominciato a lasciarsi andare lentamente, come se volesse morire con lei.

E quella lettera, che sicuramente suo fratello non aveva mai letto, ora ce l’aveva in mano lui.

Piangi.

La strinse tra le dita, chiudendo gli occhi.

Una sola. Una sola, fottuta lacrima.

Forse non ce l’aveva più, una spalla su cui piangere.

 

“Cos’è successo, ma che fine ha fatto, dov’è?

E’ partita, è andata altrove portando via con

tutto quello in cui credere,

per cui vale la pena di esistere.

Voglia di vivere, dove sei?”

 

Quella serata sarebbe sicuramente passata alla storia come una delle più sconclusionate, pensò Tom mentre, seduto sul divano, sfogliava il primo libro che gli era capitato tra le mani senza leggerne una sola riga. Dall’altra parte del soggiorno, Bill, appollaiato su una sedia, scriveva. Probabilmente erano questioni di lavoro.

Già, lavoro… Il suo vero lavoro.

- Ascolta – esordì improvvisamente. Tom alzò gli occhi dal libro, ben contento di non dover più fingere di leggerlo. Come tutte le volte in cui si preparava ad affrontare un discorso “difficile”, Bill appariva piuttosto impacciato. – Volevo dirti una cosa, a proposito di quello che mi dicevi qualche giorno fa… -

Tom tentò di ricordare, ma non gli venne in mente nulla. Stranamente, da qualche ora i suoi pensieri erano interamente rivolti al contenuto della tasca posteriore dei suoi jeans.

- …cioè? – Bill fece un gesto d’impazienza.

- E su, quello che mi dicevi a proposito di… della musica, del gruppo –

- Ah! – Tom annuì con aria meditabonda. Cosa gli aveva detto, esattamente? – Quando ti ho proposto di tornare a cantare, giusto? Non fa niente, non pensarci più –

- No, appunto – Bill chinò la testa e si strinse nelle spalle, come se si vergognasse di qualcosa. – Senti, io… non so, non ci avevo pensato bene, così… -

- Bill, non sei costretto a spiegarmi niente, se non vuoi – tagliò corto Tom, vedendolo in difficoltà. Il moro alzò la testa, fissandolo. E, per la prima volta, Tom non incrociò uno sguardo sprezzante, o impaurito, o disperato. Era uno sguardo volutamente indirizzato a lui, diretto a dirgli qualcosa.

- Beh, pensavo che tu potessi capirlo – disse a bassa voce. Tom non rispose, continuando a fissarlo interrogativo. – Volevo solo dirti che… beh, non devi rinunciare a qualcosa solo perché lo faccio io. Se tu vuoi tornare con il gruppo puoi farlo, cioè… non dipendi mica da me – Bill dondolava un piede a destra e a sinistra, segno che era nervoso. – Insomma, non sto dicendo che tornerei anch’io con il gruppo, ma solo che tu non devi rinunciare per colpa mia. Cioè, non so, è qualcosa su cui dovrei riflettere, magari non subito, però, voglio dire, hai capito, no? Sei liberissimo di farlo, se vuoi –

Un mezzo sorriso si fece strada sulle labbra del biondo mentre Bill riprendeva fiato. Finalmente aveva colto una somiglianza con il Bill di qualche anno prima, quello che attaccava a parlare come una macchinetta senza fermarsi più. – Bill, calma. Hai fatto tutto da solo – lo rassicurò. – Non ho mai detto di essere io a voler tornare a fare musica – Il gemello lo guardò sconsolato.

- Oh. Se lo dici tu… - Seguì qualche istante di silenzio imbarazzato. – Mi sembravi… un po’ giù di tono, ecco –

Tom lo guardò stranito. – Come, scusa? –

- Sei… pensieroso – Altro gesto imbarazzato. – Pensavo fosse per quel motivo –

Il motivo ce l’ho tasca, fratellino… e si chiama lettera.

- Anche tu non scherzi, sai? – Tom abbozzò un sorriso per niente allegro. – Ultimamente mi sembri messo peggio del solito – Non lo disse con tono indifferente o eccessivamente sarcastico e, del resto, Bill non mostrò segni di irritazione. Anzi, per la prima volta sembrò cercare di sorridere, anche se il risultato non fu molto convincente: si limitò a stiracchiare le labbra in una strana smorfia.

- Di solito, se prendi in mano un libro, non è per leggerlo – Tom guardò il volume ancora aperto in bella mostra tra le sue gambe incrociate. Accennò un altro sorriso.

- Siamo proprio una bella coppia… - disse ironicamente, richiudendo il libro e lanciandolo sul tavolo.

- Un tempo lo avresti detto sul serio – si lasciò sfuggire Bill dopo qualche istante di silenzio. Il fratello lo fissò di nuovo. Nessuno dei due parlò per minuti lunghi un’eternità, durante i quali Tom si soffermò a scrutare i lineamenti di Bill, cambiati in soli tre anni e mezzo. Solo in quel momento si rese conto di quanto fosse pallida e tirata la sua pelle, di quanto profonde fossero le sue occhiaie e i solchi sui dorsi delle mani, di quanto le sue labbra sembrassero disconoscere il sorriso.

- Sembri quasi malato… - mormorò, seguitando a fissarlo. Bill scosse lentamente la testa, producendo un’altra strana smorfia.

- Già – sospirò. – Il senso di colpa è la malattia peggiore –

Di nuovo il senso di colpa… ma perché il senso di colpa?

- Bill… -

- Non pensarci – tagliò corto il moro, scuotendo la testa e alzandosi. – Non ne vale la pena, davvero –

Mentre Bill usciva dal soggiorno, Tom si chiese quale sarebbe stata la sua prossima scusa, ma non ebbe il coraggio di chiedergli altro.

Lo siamo davvero, una bella coppia… vero, fratellino?

 

“Cos’è successo, che cosa è rimasto di noi?

Milioni di cose che non ti ho detto mai.”

(Raf, “Milioni di cose che non ti ho detto”)

 

 

 

 

 

Oooooooooollè.

Strano ma vero, stavolta non ho commenti significativi da fare. Vorrei solo capire perché, quando le letture e le aggiunte ai preferiti lievitano, le recensioni subiscono un crollo! XD Avanti ragazze, fatevi sentire!

Sore: Ma su, mica Tom voleva dire che invidia la vita del fratello... , dovrebbe essere matto O___O Però dai, prova a capirmi: io ci provo a controllarli, questi qui, però mi sfuggono e approfittano della minima distrazione per ricoprirsi di insulti e parole a sproposito! Anche tu però eh.... perchè non la scrivi su Joe e Bill, la tua tanto agognata slash? Sai che coppia -.-'....

Sweet Dreamer: no, ora mi spieghi perchè sei andata  a recensirmi il capitolo 2 su base del 10 XD A parte questo, come puoi vedere è sintomo comune che uno o entrambi i gemelli rompano le scatole a qualche lettore... colpa vostra che continuate a seguirmi! U_U

rakith: ma grazie, carissima, mi risollevi il morale! :-* Direi che possiamo tranquillamente continuare a ricompensarci a vicenda, che ne dici? XD

  
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