Capitolo 11
– Gli scrigni dei ricordi
“Domani
sembrerà un giorno normale,
uno dei tanti a tutti gli altri
uguale”
Mancavano
due settimane a Natale e Bill non riusciva a capire se quei mesi gli fossero
sembrati giorni o anni. La sua vita era talmente piena di cose che non gli
interessavano da fargli perdere la concezione di tutto: del tempo, di se
stesso, delle proprie emozioni… se poteva ancora provarne.
Provò
a stilare un elenco di ciò che poteva includere nell’elenco di
“cose inutili” della propria vita mentre,
seduto al solito posto su quella sedia che ormai sentiva come parte integrante
di sé, aspettava la chiamata delle solite famiglie in partenza per le
vacanze.
Il lavoro
in quell’agenzia si era guadagnato senza dubbio il primo posto. A volte
si chiedeva ancora quale bizzarro scherzo del destino lo avesse
portato a rinchiudersi tra quelle quattro mura.
C’era
la vita in quella casa troppo grande per lui. Vero, adesso non era più
lui da solo, ma era l’abitazione in sé, con i suoi mobili, le sue finestre e le sue stanze spaziose a farlo sentire come
se non fosse realmente casa sua.
C’era
il rapporto, ormai quasi inesistente, con sua madre. Simone era
stata un punto di riferimento essenziale per lui subito dopo la morte di Haylie, o meglio, lui l’aveva considerata
tale. Su quanti altri punti di riferimento avrebbe potuto contare? Cosa c’era a legarli? Stima o solitudine?
Simone era
stata sempre presente, forse anche troppo. E allora
perché tendeva a raccontarle sempre meno di sé, a sottrarsi alle
sue domande e ai suoi tentativi di consolarlo, perché si sentiva come se
lei l’avesse in qualche modo tradito?
Era assurdo, lo riconosceva. Ma era effettivamente
così che si sentiva.
-
Sì, signora, attenda in linea –
Volse lo
sguardo verso la sua ormai stabile compagna di lavoro.
Già, Michelle. Quella figura
che, nella sua mente, andava sempre a collegarsi con quella di Simone, che
pareva adorarla ogni giorno di più. Cosa mai poteva avere di
particolare quella ragazza, oltre al fatto che sembrasse azionare
il tasto “play” dei suoi ricordi per poi finire irrimediabilmente
col farlo sentire uno straccio? Perché il suo
sguardo, seppur così ingenuo e infantile, non mancava mai di
inquietarlo?
Come se
avesse avuto bisogno di uno stimolo, per ricordare…
Quando lo portarono fuori di peso, non aveva più voce per gridare, ma
le lacrime parevano non dover finire mai, e lui le lasciò scorrere
liberamente, stringendosi il busto tra le braccia e accasciandosi contro la
parete bianca di quel luogo asettico.
- Haylie…
- balbettò, chiudendo gli occhi e sentendosi scosso da un tremito.
– Haylie… no… –
singhiozzò piano, stringendosi di più tra le sue stesse braccia. Quando riaprì gli occhi a fatica, le lacrime li
riempivano ancora, ma non gli impedirono di vedere che la sala d’attesa
era vuota. Desolata come la sua anima.
Dov’era sua madre, dov’era Gordon, dov’erano tutti? Li aveva
chiamati più di un’ora prima, quando tutto era cominciato.
“Non preoccuparti tesoro, se
si libera un po’ la strada arriviamo in dieci minuti”.
Bugiardi… bugiardi loro che
avevano trasformato dieci minuti in un’ora e mezza, bugiardo lui che gli aveva promesso che sarebbe tornato.
Era solo, e lo sarebbe
stato anche al loro arrivo.
- Perché…
perché? – Strinse i denti e abbandonò la testa
all’indietro, contro il muro. – Dove sono… DOVE SONO TUTTI QUANDO UNO STA MALE?! –
Si accasciò su una sedia, il
viso sepolto tra le mani, le lacrime che quasi lo soffocavano.
Piangere non serviva a nulla, ma
lui pianse finché non sentì la testa dolergli e la gola bruciare,
perché ormai niente sarebbe servito a niente.
Quando loro arrivarono, non li vide né li sentì. Solo molto
tempo dopo avrebbe immaginato ogni loro movimento, ogni
parola.
Simone si portò le mani alla
bocca mentre un’esclamazione di stupore le
moriva in gola. Tutto quello che venne dopo, lui lo percepì a malapena,
perché il suo cuore era talmente gonfio da non lasciare spazio
più a nessuna emozione.
- Oh, mio Dio… -
balbettò appena Simone. Bill non alzò la testa, fu lei ad
avanzare e abbracciarlo, abbracciarlo più forte
di quanto non avesse mai fatto, affondando il volto tra i suoi capelli
scompigliati. – Oh, Billy… Oh, tesoro… - mormorò come in una cantilena,
cullandolo piano mentre lui, ancora seduto, si aggrappava al suo vestito e
singhiozzava violentemente contro il suo grembo, sussultando tra le sue
braccia.
Simone lo strinse
più forte, Gordon gli sfiorò una spalla mormorando un
sommesso “fatti coraggio”.
Non c’era nulla per cui farsi coraggio.
Haylie era morta. E le sue speranze, i suoi sogni, la sua musica… erano
morti con lei.
L’intera
giornata trascorse nel tedio più assoluto. Bill si chiese da quanti mesi
andasse avanti non desiderando altro che ogni gruppo
di ventiquattro ore si esaurisse il più presto possibile.
Quando
fece per andarsene, si sentì chiamare.
- Bill,
aspetta un attimo! –
Si
girò, sorpreso, e vide Michelle richiudere in
fretta i vari cataloghi sparpagliati davanti a lei. Dalle labbra non gli
uscì altro che un incerto “sì?”.
La ragazza
sorrise nervosamente, e Bill cercò di non chiedersene il perché.
– Ascolta, volevo… volevo parlarti di una
cosa –
Quella rivelazione non ottenne altro che far diminuire ulteriormente
la sua voglia di far conversazione.
- E’
importante? – le chiese esitante. Il rossore che
apparve sulle guance di Michelle non
lo rassicurò.
-
Beh… sì, diciamo di sì. Tra dieci minuti stacco
anch’io, e così pensavo… -
- Senti, Michelle… - si costrinse a ribattere. Era la prima
volta che la chiamava per nome da quando lavoravano
insieme, e gli fece uno strano effetto. A dire il vero, lui non le si sarebbe neanche rivolto dandole del tu, se non fosse
stata lei stessa a prendere quell’iniziativa. - …scusami, davvero,
ma adesso non posso trattenermi – Che scusa avrebbe
dovuto rifilarle? Aveva troppo da fare in casa?
Aveva una famiglia ad aspettarlo? Doveva correre a spegnere il gas? Oh,
sicuramente sua madre l’aveva dettagliatamente informata su quanto fosse vuota e squallida la sua esistenza. Quel pensiero
fulminante lo trattenne dal cercare una scusa plausibile. – Magari ne
parliamo domani, o… o quando vuoi, d’accordo? –
L’unico effetto che ottenne fu quello di intensificare il
rossore sulle guance di Michelle, che lo
guardò interdetta per qualche istante, per poi balbettare un: -
Ok… d’accordo – Si riebbe quasi subito, riprendendo il suo
solito sorriso.
– Allora… beh, buona serata –
Bill
uscì talmente in fretta da non darsi neanche il tempo di ribattere, ma
aveva ben chiara in mente una possibile risposta.
Buona
serata. Bella battuta.
- Bill!
–
- Che
c’è ancora?! – sbottò,
fermandosi a pochi metri dall’uscita. Si girò pronto a trovarsi
davanti due occhi celesti colmi di costernazione, ma a chiamarlo era stata sua madre.
- Aspetta,
perché scappi? – Simone gli si avvicinò sorridendo. Ma cos’aveva da sorridere sempre? Come diamine faceva?
- Perché
ho finito – rispose semplicemente, cercando di
non far assumere al proprio tono una sfumatura d’irritazione. – Anche tu devi dirmi qualcosa? –
La donna
non parve cogliere il leggero sarcasmo. – In queste ultime settimane non
sono riuscita a scambiare neanche due parole con te… Come va adesso? Un
po’ meglio? – gli chiese premurosamente, facendo come per
sfiorargli una guancia con una carezza. Bill si ritrovò a voltare il
viso, scansandola, e Simone lo fissò interdetta, la mano ancora ferma a
mezz’aria. Bill la guardò, mordendosi le labbra, e vide
un’ombra di profondo rammarico oscurare i suoi occhi. Posò una
mano sulla sua, chiudendola a pugno e stringendola delicatamente.
- Scusami… scusami – mormorò, chinando il
capo. Non voleva davvero scusarsi, così come non
avrebbe voluto respingere quel suo semplice gesto d’affetto. Ma gli era venuto naturale. Terribilmente naturale. –
Sono… molto stanco. Non so, forse va
meglio… o forse no. Non lo so –
Simone gli
accarezzò un braccio. – Non preoccuparti, Bill. Passerà
–
- No, non passerà – sussurrò lui a fior di labbra,
scuotendo lentamente la testa.
- Per
Natale fate qualcosa? – Quel tono tutt’a un tratto falsamente vivace gli fece capire che sua madre
stava solo cercando di tirarlo su. Ma forse lei non capì che avrebbe sortito l’effetto contrario.
- No. Cosa dovremmo fare? – La mascella di Bill si
contrasse, come se volesse trattenersi dal rispondere male.
- Non lo so, chiedevo soltanto… -
- Non
c’è niente da festeggiare – tagliò
corto Bill, ritirando di scatto la mano. Sentì i muscoli irrigidirsi, segno che quella conversazione doveva interrompersi il
più in fretta possibile.
- Bill,
per favore, non fare così – quasi lo supplicò Simone.
– Non capisci che chiuderti in te stesso non fa che peggiorare la
situazione? –
La
risposta, Bill ce l’aveva sulla punta della
lingua.
Cosa mai potrebbe peggiorare, mamma?
Ma era
stufo di fare la vittima, di farsi consolare quando
poi non serviva a nulla.
Non voleva
parlare con nessuno, o forse avrebbe voluto parlare
con qualcuno che non sapeva ancora come affrontare.
- Ci
vediamo domani, mamma –
…
- Ma allora oggi non lavori? –
Tom
cambiò canale per l’ennesima volta mentre
Bill, ancora fermo sulla soglia, lo guardava in attesa di risposta.
- No, te
l’ho detto, stanotte qualcuno si è fregato l’intero
contenuto della cassa –
Bill
alzò le sopracciglia e annuì, come se dovesse riflettere su
quanto Tom gli aveva appena detto. Se fosse stato il Bill di un tempo, la sua
risposta sarebbe stata più o meno
“però, vedo che ti dai da fare!”. Invece,
quando Tom si voltò a guardarlo, il gemello non si era ancora tolto di
dosso quell’aria apatica che aveva messo su giorni prima.
- Oh. Va
bene – Altra pausa di riflessione. – Ti trovo, quando torno?
–
Per un
attimo, Tom pensò di dirgli che sarebbe uscito.
E se Bill fosse tornato prima? Se
avesse telefonato? No, decisamente non gli andava di
mentire. Aveva ben chiaro in mente che, quel giorno, sarebbe rimasto a casa.
-
Probabilmente sì –
-
D’accordo – Bill alzò la cerniera del proprio giubbotto.
– Allora… beh, a stasera –
- Mh-mh. Ciao –
Quando
Bill si chiuse la porta alle spalle, Tom dovette appellarsi a tutta la forza di
volontà che aveva per non saltare immediatamente giù dal divano e
correre nello stanzino. In realtà, non sapeva ancora se quanto avesse in
mente fosse giusto.
Cercò
disperatamente un modo per distrarsi. Iniziò col proseguire lo zapping fino a prendere atto della totale assenza di
qualcosa di decente in televisione. Passò al proprio cellulare,
esplorandolo minuziosamente come faceva, da piccolo, con quello di Bill.
Rilesse tutti gli sms ricevuti e inviati,
scorse la lista delle chiamate, controllò il calendario: 14
dicembre. Meno di due settimane a Natale. Meno di due
settimane al primo Natale senza Haylie, per Bill.
Attese
ancora qualche minuto, tamburellando nervosamente le dita sul bracciolo del
divano, prima di mandare al diavolo gli scrupoli e la forza di volontà.
Si alzò rumorosamente e percorse a passo svelto il corridoio, fino ad
arrivare davanti alla porta chiusa dello stanzino, ormai protagonista dei suoi
pensieri e persino dei suoi incubi.
Stavolta
si sarebbe imposto di non cedere ai dubbi o, peggio, ai sensi di colpa.
Abbassò la maniglia, spinse la porta con decisione e,
una volta entrato, spalancò l’unica finestra di quella stanza.
Sollevò lo sguardo verso gli scatoloni accatastati in cima agli armadi:
a prima vista, non dovevano essere più di quattro o cinque. Non
riuscì a capire se contenessero oggetti più o
meno pesanti o ingombranti, ma sembravano stracolmi di roba.
Per raggiungerli
e tirarli giù, non dovette fare altro che alzarsi sulla punta dei piedi
e muovere le braccia alla cieca sopra gli armadi.
Quando
tutti gli scatoloni furono trasferiti sul pavimento, Tom rimase a guardarli
esitante ancora per qualche secondo, poi tirò un profondo sospiro e
sedette a terra a gambe incrociate.
Il suo
sguardo si posò su tutti e quattro, a turno, poi vi passò una
mano sopra, scoprendo che erano coperti da un dito polvere. Ne sollevò
uno alla volta: non erano poi molto pesanti.
Al diavolo, si disse. Sto solo cercando di
perdere tempo.
Tirò
a sé il primo che gli capitò tra le mani e strappò con
forza lo spesso scotch da pacchi che lo chiudeva. Lo
aprì altrettanto in fretta, per paura che quel coraggio venisse tutt’a un tratto a mancare. E rimase a fissarne il contenuto con le sopracciglia
aggrottate.
Erano
vestiti. Nient’altro che abiti. Tom ne tirò fuori una parte, appoggiandoseli sulle gambe per non
sporcarli, poi li contemplò a lungo. Abiti da donna, senza
dubbio, abiti di ogni genere. Gonne lunghe e corte, pantaloni eleganti e jeans, maglioni e canottiere,
tutti dai colori delicati e dalla linea semplice, raffinati e per nulla
sfarzosi.
Aveva ben
chiaro in mente il nome di chi li avrebbe indossati…
Li rimise
nella scatola per poi passare alla successiva. Non si rese neanche conto di
aver trattenuto il fiato, mentre svuotava anche quella.
Quella
volta, riconobbe immediatamente il primo indumento che si trovò fra le
mani. Era una maglietta rossa, stretta e asimmetrica. Haylie
l’aveva indossata per un concerto dei Tokio
Hotel, anche se lei era costretta ad assistere da dietro le quinte,
perché faceva parte dello staff. Quella sera, lui l’aveva guardata
per la prima volta in modo diverso dal solito. Quella sera, lei aveva alzato i
pollici sorridendo incoraggiante. Quella sera, lei era bellissima…
Subito
sotto di essa, trovò una leggera camicia da
notte sui toni del rosa, e anche questa colpì istantaneamente la sua
memoria. Gliel’aveva vista addosso tante volte,
gliel’aveva sfilata anche se non avrebbe dovuto, quando Bill era lontano
e non poteva vedere il loro tradimento.
Quel loro
stupido, inutile tradimento…
Tutti e
quattro gli scatoloni contenevano vestiti di Haylie.
Alcuni li ricordava, altri non li aveva mai visti, ma
tutti erano accomunati da un particolare: per quanto eleganti, per quanto fini
e luminosi, erano così spaventosamente vuoti e spenti… Sembravano
stracci, senza che lei li indossasse. Non erano altro che un mucchio di stoffa
senza vita. E quelle scatole, non erano altro che pezzi di cartone tenuti
insieme dallo scotch, ma per Tom era come aver trovato
qualcosa di prezioso, delle ricchezze inestimabili chiuse dentro uno scrigno.
Guardò
un’altra volta l’ultimo scatolone che aveva aperto, quello
contenente gli abiti meno rovinati, presumibilmente più nuovi.
Sfiorò con le dita un paio di jeans insolitamente larghi ripiegati in
cima, pensando stupidamente che aveva sperato che
anche uno solo di quei vestiti avesse trattenuto un briciolo dell’essenza
di Haylie… ma poi i polpastrelli incontrarono
qualcosa sotto la stoffa, un piccolo rettangolo rigido. Senza chiedersi
più nulla, infilò una mano nella tasca di quei pantaloni e ne estrasse una busta da lettere piegata in due.
La distese
lentamente, aprendola. Dentro c’era un foglio di carta ripiegato a sua
volta. Tom esitò per qualche istante, spostando lo sguardo da un punto
all’altro della busta, poi tirò fuori il foglio e lo
spiegò, facendo attenzione a non rovinarlo.
Era un
semplice foglio bianco coperto dall’inconfondibile grafia di Haylie, appuntita e inclinata verso destra. Non riportava
altro che i segni della piegatura, per il resto non sembrava essere stato
toccato più di una volta. Tom deglutì, forzando appena la presa
sugli angoli del foglio.
12 marzo
Bill, amore mio,
questa strana e complessa avventura in cui ci siamo lanciati sta per finire
–o, forse, per cominciare– e io sento il
bisogno di parlarti, ma mi affiderò alla carta per evitare che i miei
pensieri vadano troppo lontano e per cercare di spiegarmi con chiarezza.
Ho un po’ paura, sai Bill? Anzi no, ho tanta paura. Forse è stata la
consapevolezza di averti accanto a me, sempre e comunque,
che mi ha spinta a usare quel “po’ ”. Ancora oggi spesso mi
chiedo cosa ti porti a non staccarti mai dal mio fianco, e altrettanto spesso
non so rispondere. Ma alla fine penso che non
m’importa, perché sono felice così.
Proprio così: sono felice.
Sono felice semplicemente perché tu ci sei, e non mi serve
nient’altro al mondo.
Ti chiedo scusa per tutte le volte
che ti ho fatto credere di avere dei dubbi, in merito a quello che sta
succedendo. Sappi che non è stato così. O,
meglio, lo è stato all’inizio. Ora so che andrò avanti, che
noi andremo avanti, e
che la paura… beh, quella passerà.
Non sentirti mai in colpa, Bill,
mai. O, perlomeno, non quando non devi e, stai tranquillo, questo non è
un caso in cui tu debba sentirti colpevole.
Se non ci avessi creduto, se non avessi creduto in te, in noi, non sarei
andata avanti. E, adesso che siamo giunti alla fine di
questo percorso –e all’inizio di uno nuovo–,
tutto quello che desidero è che tu mi resti vicino come hai sempre fatto
in questi anni. Mi basta sentire le tue mani stringere le
mie, la tua voce rassicurarmi e… davvero, non ho bisogno di
nient’altro.
Com’era che mi dicevi sempre?
Ce la faremo, tesoro.
Ti amo.
Tua Haylie
Tom
ripiegò lentamente la lettera, incapace di mandare giù il nodo
alla gola che quasi gli impediva di respirare.
Tutto
quello che sapeva era che voleva piangere.
Era da
solo, senza nessuno che lo guardasse o gli chiedesse
qualcosa. Era libero, insomma. Poteva aprire i rubinetti e sciogliersi in
lacrime fino a perdere i sensi.
E
allora perché non ci riusciva?
“Questa strana e complessa
avventura”…
Che avventura?
“Non sentirti mai in
colpa”…
In colpa per cosa?
“Se
non ci avessi creduto, non sarei andata avanti”… Avanti? Verso quale meta?
Rilesse la
data in cima alla lettera: 12 marzo. Doveva risalire al massimo a un mese prima che Haylie
morisse, se aveva fatto bene i calcoli. Ma cosa mai
potevano importare, i calcoli?
Su, avanti,
piangi, si disse.
Gli occhi
gli bruciavano, ma rimasero ostinatamente asciutti.
Piangi,
idiota. Era questo che volevi, no?
Se solo avesse avuto una scusa, per farlo, una scusa per sentirsi
così male.
Se solo avesse potuto dire “Io amo ancora Haylie”.
Non era
così. Amava il suo ricordo, gli mancava, ma i suoi sentimenti erano ben
diversi da quelli che l’avevano spinto, tre anni e
mezzo prima, a mettere in secondo piano quelli di Bill per seguire le
proprie passioni. Haylie gli mancava perché
lui non era arrivato a dirle tutto quello che avrebbe voluto, a scusarsi, gli
mancava perché, da quando lei non c’era più, Bill aveva
cominciato a lasciarsi andare lentamente, come se volesse morire con lei.
E quella
lettera, che sicuramente suo fratello non aveva mai letto, ora ce l’aveva in mano lui.
Piangi.
La strinse
tra le dita, chiudendo gli occhi.
Una
sola. Una sola, fottuta lacrima.
Forse non ce l’aveva più, una
spalla su cui piangere.
“Cos’è
successo, ma che fine ha fatto, dov’è?
E’ partita,
è andata altrove portando via con sé
tutto quello in cui credere,
per cui vale la pena di esistere.
Voglia di vivere,
dove sei?”
Quella serata sarebbe sicuramente passata alla storia come una delle
più sconclusionate, pensò Tom mentre,
seduto sul divano, sfogliava il primo libro che gli era capitato tra le mani
senza leggerne una sola riga. Dall’altra parte del soggiorno, Bill,
appollaiato su una sedia, scriveva. Probabilmente erano questioni di lavoro.
Già,
lavoro… Il suo vero lavoro.
- Ascolta – esordì improvvisamente. Tom alzò gli
occhi dal libro, ben contento di non dover più fingere di leggerlo. Come
tutte le volte in cui si preparava ad affrontare un discorso
“difficile”, Bill appariva piuttosto impacciato. – Volevo
dirti una cosa, a proposito di quello che mi dicevi
qualche giorno fa… -
Tom tentò di ricordare, ma non gli venne in mente nulla. Stranamente, da qualche ora i suoi pensieri erano interamente
rivolti al contenuto della tasca posteriore dei suoi jeans.
- …cioè? – Bill fece un
gesto d’impazienza.
- E su, quello che mi dicevi a proposito
di… della musica, del gruppo –
- Ah! – Tom annuì con aria meditabonda. Cosa
gli aveva detto, esattamente? – Quando ti ho
proposto di tornare a cantare, giusto? Non fa niente, non pensarci più
–
- No, appunto – Bill chinò la testa e si strinse nelle
spalle, come se si vergognasse di qualcosa. – Senti, io… non so,
non ci avevo pensato bene, così… -
- Bill, non sei costretto a spiegarmi niente, se non vuoi –
tagliò corto Tom, vedendolo in difficoltà. Il moro alzò la
testa, fissandolo. E, per la prima volta, Tom non
incrociò uno sguardo sprezzante, o impaurito, o disperato. Era uno
sguardo volutamente indirizzato a lui, diretto a dirgli qualcosa.
- Beh, pensavo che tu potessi capirlo – disse a bassa voce. Tom
non rispose, continuando a fissarlo interrogativo. – Volevo solo dirti che… beh, non devi rinunciare a qualcosa solo
perché lo faccio io. Se tu vuoi tornare con il gruppo
puoi farlo, cioè… non dipendi mica da me – Bill dondolava un
piede a destra e a sinistra, segno che era nervoso. – Insomma, non sto dicendo che tornerei anch’io con il gruppo, ma solo
che tu non devi rinunciare per colpa mia. Cioè,
non so, è qualcosa su cui dovrei riflettere, magari non subito,
però, voglio dire, hai capito, no? Sei liberissimo di farlo, se vuoi
–
Un mezzo sorriso si fece strada sulle labbra
del biondo mentre Bill riprendeva fiato. Finalmente aveva colto una somiglianza
con il Bill di qualche anno prima, quello che attaccava a parlare come una
macchinetta senza fermarsi più. – Bill, calma. Hai
fatto tutto da solo – lo rassicurò. – Non ho mai
detto di essere io a voler tornare a fare
musica – Il gemello lo guardò sconsolato.
- Oh. Se lo dici tu… - Seguì qualche istante di silenzio
imbarazzato. – Mi sembravi… un po’ giù di tono, ecco
–
Tom lo guardò stranito. – Come, scusa? –
- Sei… pensieroso – Altro gesto imbarazzato. –
Pensavo fosse per quel motivo –
Il
motivo ce l’ho tasca, fratellino… e si
chiama lettera.
- Anche tu non scherzi, sai? – Tom
abbozzò un sorriso per niente allegro. – Ultimamente mi sembri
messo peggio del solito – Non lo disse con tono indifferente o
eccessivamente sarcastico e, del resto, Bill non mostrò segni di irritazione. Anzi, per la prima volta sembrò
cercare di sorridere, anche se il risultato non fu molto convincente: si limitò
a stiracchiare le labbra in una strana smorfia.
- Di solito, se prendi in mano un libro, non è per leggerlo
– Tom guardò il volume ancora aperto in
bella mostra tra le sue gambe incrociate. Accennò un altro sorriso.
- Siamo proprio una bella coppia… - disse ironicamente,
richiudendo il libro e lanciandolo sul tavolo.
- Un tempo lo avresti detto sul serio – si
lasciò sfuggire Bill dopo qualche istante di silenzio. Il
fratello lo fissò di nuovo. Nessuno dei due parlò per minuti
lunghi un’eternità, durante i quali Tom si soffermò a
scrutare i lineamenti di Bill, cambiati in soli tre anni e mezzo. Solo in quel
momento si rese conto di quanto fosse pallida e tirata la sua pelle, di quanto
profonde fossero le sue occhiaie e i solchi sui dorsi delle mani, di quanto le
sue labbra sembrassero disconoscere il sorriso.
- Sembri quasi malato… - mormorò, seguitando a fissarlo.
Bill scosse lentamente la testa, producendo un’altra strana smorfia.
- Già – sospirò. – Il senso di colpa è
la malattia peggiore –
Di nuovo il senso di colpa… ma perché il senso di colpa?
- Bill… -
- Non pensarci – tagliò corto il moro, scuotendo la testa
e alzandosi. – Non ne vale la pena, davvero –
Mentre Bill usciva dal
soggiorno, Tom si chiese quale sarebbe stata la sua prossima scusa, ma non ebbe
il coraggio di chiedergli altro.
Lo
siamo davvero, una bella coppia… vero, fratellino?
“Cos’è
successo, che cosa è rimasto di noi?
Milioni di cose che
non ti ho detto mai.”
(Raf, “Milioni di
cose che non ti ho detto”)
Oooooooooollè.
Strano ma
vero, stavolta non ho commenti significativi da fare. Vorrei
solo capire perché, quando le letture e le aggiunte ai preferiti
lievitano, le recensioni subiscono un crollo! XD Avanti ragazze, fatevi
sentire!
Sore: Ma su, mica Tom voleva dire che invidia la vita del fratello... sè,
dovrebbe essere matto O___O Però dai, prova a capirmi: io ci provo a
controllarli, questi qui, però mi sfuggono e approfittano della minima
distrazione per ricoprirsi di insulti e parole a sproposito! Anche tu
però eh.... perchè non la scrivi su Joe e Bill, la tua tanto agognata slash?
Sai che coppia -.-'....
Sweet Dreamer: no, ora mi spieghi perchè sei andata a recensirmi il
capitolo 2 su base del 10 XD A parte questo, come puoi vedere è sintomo
comune che uno o entrambi i gemelli rompano le scatole a qualche lettore...
colpa vostra che continuate a seguirmi! U_U
rakith: ma grazie, carissima, mi
risollevi il morale! :-* Direi che possiamo
tranquillamente continuare a ricompensarci a vicenda, che ne dici? XD