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Autore: Lost In Donbass    20/01/2015    1 recensioni
California, 1987.
Questa è l'America della perdizione, della musica, delle libertà negate. E' il tempo di un'epoca giunta al limite, dove non c'è più niente da dire. E' l'America delle urla, delle speranze, dei cuori infranti.
Nella periferia di un'insulsa cittadina si muovono otto ragazzi, otto anime perdute e lasciate a loro stesse. Charlie se ne vuole andare ma gli manca il coraggio di voltare le spalle. Jimmie Sue spera, crede in qualcosa che la possa salvare ma a cui non sa dare un nome. Jake è al limite, soffoca tutto nel fumo, dimentica grazie all'alcol, non ne vuole più sapere. Jasper ha finito di sperare, di pregare, di credere; ha dimenticato cosa vuol dire piangere, cosa vuol dire vivere.
Tirano avanti come possono. Sono le creature di una periferia assassina e di una società fraudolenta e fallace. Sono dei bastardi senza gloria e senza onore.
E questa è la loro storia.
Genere: Generale, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO SEI : I AM MY OWN WORST ENEMY
Si consiglia durante la lettura del capitolo, l'ascolto di "Restless Heart Syndrome" dei Green Day (se non si è capito, amo i Green Day! )


Jake e Jasper erano sdraiati sul divano rovinato e unto della casa del capo, intenti a guardare l’ennesima puntata di “Dallas” dal vecchio televisore che non prendeva mai bene la linea. Poco prima Jake aveva bussato alla casa del suo amico chiedendo ospitalità per la notte; suo padre era di nuovo partito con il camion, e ogni volta che partiva, la madre del ragazzo andava in crisi, trascinando nella sua follia anche gli innumerevoli figli. Jake non poteva soffrire tutto quel marasma di strepiti e urla, quell’isteria di massa, così si levava dai piedi e riparava da Jasper, sicuro che lì di maledizioni strillate e pianti nevrotici non ve n’era neanche l’ombra. Non era la prima volta e non sarebbe stata l’ultima.
-Come stanno le tue sorelle?- chiese Jasper, per spezzare il silenzio che era calato tra i due dopo che la madre del capo era entrata in sala con una bottiglia di gin di pessima marca stretto in mano e poi era riuscita, ridacchiando nervosamente.
-Bene- fu la risposta secca e sbrigativa.
-Beh, l’altra volta ho visto Darcy. Si sta facendo una bella ragazza.
Jake sorrise fiero della sua sorellina, cominciando a osservare con insistenza il tatuaggio che aveva sulla caviglia e seguendo le linee contorte con un dito
-Si, è bella. Ci hai messo gli occhi sopra, per caso?- Jake pungolò il ginocchio dell’altro sogghignando
-Nah, non ancora almeno.
A quella risposta Jake ridacchiò e diede un pizzicotto a Jasper. Per quanto potesse sembrare strano, lui teneva a tutti i suoi fratelli e sorelle. Da bravo fratello maggiore.
-Tuo padre se ne è andato?
Jasper sapeva bene che per Jake quello era una tasto dolente, ma d’altornde parlare non fa mai male. Forse.
-Si, stamattina. Quando sono arrivato a casa era il pandemonio più totale. È andato via col camion, in Canada. Non tornerà prima di Settembre. E mamma rompe, perché dice che la tradisce e i miei fratelli impazziscono, perché la mamma impazzisce e io impazzisco pure in quella specie di Gehenna. Siamo una casa di matti. Che poi dico, mamma, perché ti vai a sposare un camionista che sai benissimo che non rivedrai per mesi se poi hai paura che lui ti tradisca?! Non capirò mai le donne, soprattutto quelle sclerotiche come mia madre. Dio, Jas, che vita d’inferno la nostra!- Jake si accese una sigaretta sbuffando e sprofondò ancora di più tra i cuscini
Jasper avvolse l’amico in una specie di abbraccio. Ci teneva a lui, tantissimo. Forse, l’unica persona a cui Jasper veramente voleva bene era Jake. Jasper non voleva bene a nessuno, o meglio, il suo affetto era del tutto scoordinato e squilibrato tanto da non sembrare nemmeno affetto. Ma per Jake era diverso. Per Jake avrebbe dato tutto ciò che gli era più caro, avrebbe dato persino la vita se fosse servito. Per Jake era pronto ad affrontare qualsiasi Inferno. Jasper non aveva vie di mezzo : non le aveva mai avute. Il suo cuore era animato da passioni forti come un uragano o da una freddezza inumana. Il suo spirito di abnegazione era smosso solamente da quelle cose che svegliavano le sue passioni più sfrenate; per il resto, rimaneva … no, non era gelido e freddo come la maggior parte delle persone. Lui era menefreghista. Non gliene poteva importare niente del mondo. Non vi era nulla che stimolasse il suo interesse, che lo smuovesse dalla sua perenne noia. C’era Jake, ovviamente. Jake, che era una delle sue passioni sfrenate. C’erano i Gentiluomini. A ben vedere, Jasper non voleva particolarmente bene a quegli ragazzi; li considerava però sue creature. Ecco, si. Creature. Erano i suoi giocattoli, le sue figure plasmate. Bambini perduti a cui lui aveva dato per capriccio una personalità. O meglio, avrebbe fatto di tutto per loro, perché comunque un po’ di bene gliene voleva. Ma, certamente, sapeva di aver inculcato in loro molte più cose di quante avrebbe dovuto.
Accarezzò la testa di Jake che si era mezzo appisolato, cullato dalle voci monotone della tv. Jasper viveva da solo, se l’era sempre cavata da solo. Sua madre non lo aveva mai considerato più di tanto, persa nell’oblio dell’alcol. Suo padre, manco sapeva chi fosse. Era cresciuto guardando la tv e leggendo libri da ragazzi grandi. Aveva distorto e deformato tutto quello che leggeva nei suoi libri e ne aveva fatto la sua perversa filosofia, irragionevole e selvaggia. A volte ci pensava, e non poteva fare a meno di ridere al pensiero di aver convertito i suoi amici nella sua politica assurda, che richiamava tutti i classici che aveva preso nella biblioteca comunale. Sorrise malinconicamente e guardò la caviglia nuda di Jake. Avevano lo stesso tatuaggio, che si erano autofatti molti anni prima. Il loro primo tatuaggio … una catena. Si, esatto. Avevano un identico segno sulla caviglia, una cinerea e una abbronzata, con una catena accuratamente intrecciata. “Fuck the world, fuck’em all, just me and you”. Attorcigliate con gli anelli della catenella avevano entrambi scritto la stessa identica frase. “Patetico” pensava Jasper “ma fondamentale”. Per lui, quella era la catena che lo teneva ancora sulla Terra. Sospirò, pensando alla situazione squilibrata del suo migliore amico. Terribile, in effetti, però lui aveva dei fratelli. Aveva qualcuno. Aveva lui. Scosse la testa e si mosse, svegliando Jake
-Dove vuoi dormire, Jacky?
-In un letto non bitorzoluto e comodo. Magari con un materasso ad acqua e il baldacchino- biascicò Jake alzandosi e stiracchiandosi come un gatto sornione.
-Beh, l’unica cosa che ti posso offrire è o il divano o il mio letto scomodo. Comunque se vuoi la pura illusione di avere un vero letto ti posso dare della novocaina.
Jake fece una smorfia. Novocaina … Jasper dipendeva dalla droga … esaltato da sempre, sotto l’effetto degli psicofarmaci. Jake non voleva che il suo amico fosse un tossicodipendente ma impedirglielo era complesso e Jake lasciava correre. Non che lui desse l’esempio, anzi … ma con Jasper era diverso. Perché la droga lo allucinava più di quanto già non fosse di natura. Il ragazzo sospirò e scosse la testa mestamente. Tanto con Jasper era tutto inutile.
Si avviò con un ghigno al piano superiore, dove sapeva c’era la camera del suo migliore amico. Aprì la porta scricchiolante e si ritrovò nella camera che ben conosceva. Il soffitto basso, il pavimento ingombro di fogli fittamente disegnati, la piccola finestrella che affacciava sul tetto. Tutto come al solito. Si avviò mollemente sul vecchio e basso letto sfatto, le coperte intrecciate con i vestiti. Sul comodino giacevano alcuni libri aperti e sottolineati, libri di cui Jake non capiva neanche il titolo. Fece vagare lo sguardo per la stanza, accarezzando distrattamente le coperte; come al solito alle pareti erano appesi i suoi quadri migliori, gli schizzi e i disegni svolazzavano per tutta la camera. Libri, volumi e fogli scritti con una calligrafia stretta e arzigogolata riempivano ogni angolo. Un vecchio giradischi giaceva in un angolo con una gran quantità di LP di musica punk inglese. I vestiti non avevano un posto preciso, gettati qua e là nel marasma con matite e acquerelli. Alla testiera del letto pendevano delle collanine con dei simboli giapponesi e sotto la finestrella stava appeso un foglio con scritte senza senso, fatto da loro due qualche anno prima. Jake si ricordò il momento in cui le avevano scritte, convinti di poter far qualcosa per la loro nazione in declino. “Ecco come ci siamo ridotti, quelli che dovevano salvare l’America” pensò acidamente Jake, chiudendo gli occhi e lasciandosi cadere sul letto che scricchiolò sotto il suo peso.
-Non ci credi più, Jacky? Non credi più che salveremo l’America?
A sentire la voce di Jasper, Jake sobbalzò e spalancò gli occhi. Era fermo sulla porta della camera, con uno strano ghigno stampato in faccia, e lo sguardo offuscato. Il trucco colava miseramente sulle guance pallide, le mani erano scosse da un tremore ingiustificato, i capelli cadevano scomposti sul volto distorto in una smorfia. Quando si mostrava in quel modo, a Jake faceva un po’ paura. Gli sembrava un terribile pagliaccio triste e perduto. Un pagliaccio senza speranza.
-Non è che non ci credo ma … - Jake si strofinò gli occhi e sbuffò.
-Tu non credi più in questo, Jake. Come non ci credo io. Tutto quello per cui avevo avuto la forza di tirare avanti si è dissolto come la nebbia al mattino.- Jasper si trascinò davanti all’abbaino e lo aprì, lasciando che il vento secco gli scompigliasse i capelli e facesse tremare Jake che lo ascoltava senza fiatare –Tutto quello che avevo predicato e in cui avevo ciecamente creduto si è rivelato una farsa. La convinzione di poter fare qualcosa per risollevare le sorti dell’America e farla uscire dal baratro in cui era finita è morta e sepolta. Non siamo stati in grado nemmeno di salvare noi stessi, come potremmo mai aspirare a salvare la nazione? Ci vedi, come ci siamo ridotti? Distrutti dal nostro stesso delirio. Ma cosa devo dirti Jake? Siamo americani, soffocati dalla nostra stessa patria. Uccisi dai sogni.
Jake tremò come una foglia d’autunno. La realtà delle cose lo lasciava sempre un po’perplesso, soprattutto quando gli venivano sbattute in faccia da Jasper. Si alzò, insicuro sulle proprie gambe, improvvisamente assetato e bisognoso di fumo. Fumo per tornare a respirare. Si trascinò da Jasper, fermo immobile dall’abbaino. Lo abbracciò silenziosamente, poggiando la testa sulla sua spalla fredda. Poteva sentire il cuore di Jasper battere piano e lontano, sentiva la sua mano gelida accarezzargli i capelli. Rimasero in silenzio, un silenzio pesante e terribilmente triste.
-Jas io … - Jake stentò a riconoscere la sua stessa voce. Pareva quella di un vecchio, di uno che ha vissuto talmente tante cose da non poterne più sopportare il peso. Non fece in tempo, che venne zittito dall’amico con un silenzioso gesto delle labbra. Jake deglutì, soffocando il magone che si stava prepotentemente facendo largo nella sua gola riarsa. Aveva paura, quando vedeva Jasper così. Quando lo vedeva talmente drogato da non riuscire quasi a reggersi in piedi, con il viso talmente stravolto da sembrare un sopravvissuto a una guerra nucleare. Aveva paura, un terrore che veniva dal profondo. La paura di perderlo. Jake sapeva che senza Jasper lui si sarebbe perso completamente, non avrebbe più avuto nessuno a cui affidarsi e una spalla su cui piangere. Non avrebbe avuto più nessuno.
Vedeva in quei maledetti occhi viola la distruzione, in quella voce soffocata vedeva la fine, in quella pelle dal pallore mortale vedeva la disgregazione. Lo strinse più forte a sé, per tenerlo saldo a terra. Perché quando parlava, quando, nonostante la droga, gli presentava il loro fallimento continuo, avrebbe voluto farlo tacere; non voleva sentirsi più inutile di quanto già non si sentiva di solito. Jake non credeva più in nulla, se non in Jasper. Lui era il suo dio, il suo demonio. La sua gioia e il suo terrore. Jake sentì le lacrime affiorargli e tentò di ricacciarle indietro. Non voleva piangere, quello proprio no. Ma le lacrime combattevano strenuamente per rigargli le guance, per sgorgare come fiumi trasparenti dai suoi occhi stanchi. Cercò di arginare tutto quello che spingeva per uscire, ma alla fine il pianto ebbe la meglio. Cascate di lacrime brucianti gli scivolarono sul viso, lacrime silenziose e terribilmente dolorose. Il ragazzo strinse la maglia del capo e, oramai senza più nessun freno, lasciò la sua tristezza fluire libera in un torrente di pianto.
Jake non si rese più conto di nulla, solo delle sue lacrime e di Jasper che lo teneva stretto a sé come se fosse stato l’ultimo giorno della sua vita. Non si rese conto più di niente a parte le sue lacrime e la sua voglia di liberare qualcosa che per troppo era stato represso dentro; a un certo punto sentì qualcosa di morbido attorno a se e immaginò fosse stato messo a letto ma le lacrime non volevano saperne di fermarsi. Sentì Jasper riabbracciarlo, anche se non vedeva più nulla e i suoni erano ovattati come mai gli era accaduto. Poi pensò di essersi addormentato, perché cadde nell’oblio più totale.
  
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