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Autore: Christa Mason    22/01/2015    1 recensioni
Julian Casablancas è uno studente del Le Rosey e fa tremendamente freddo quando incontra Gil.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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  Gary Simmons non è morto, ma l’acqua ghiacciata del lago gli è entrata nei polmoni stringendoglieli come in una morsa, e il fatto che non sia ancora morto non significa che presto non lo sarà. Ho provato a chiamare mia madre quando ci hanno portato alla stazione di polizia, credo sia normale in questi casi tirare in mezzo la polizia, ma non riesco a togliermi dalla testa lo sguardo dell’uomo che ci ha condotto in questa stanza triste e opaca ad aspettare che ci interroghino. Giacca e cravatta e un sopracciglio alzato, Questi ricchi teppistelli, che si ammazzino pure tra di loro. Vorrei fermarlo, dirgli che io abito oltre il lago, alle fottute case popolari, e che non so niente di questa storia, non conosco Gary Simmons, stavo solo aspettando l’autobus, vorrei fermarlo e dirgli che siamo dalla stessa parte, siamo della stessa gente, la gente che odia i ricchi figli di papà dell’istituto Le Rosey, vorrei dirgli tante cose e chiedergli di usare un telefono, ho bisogno di sentire la voce di mia madre. Vedendomi tardare mia madre si preoccuperà, pensando che io sia scappata, come l’ultima volta. Non dico niente. Mi lascio cadere su una vecchia sedia di metallo. 
  Il ragazzo che ha chiamato l’ambulanza ha detto ai poliziotti di chiamarsi Alex Watts, lo stanno interrogando in questo momento. L’ho visto percorrere il corridoio, una donna dalle belle gambe gli indica una stanza. Alex ci ha guardato abbozzando un sorriso. Cosa c’è da sorridere? 
  - Non farci caso. Sorride sempre, non può farne a meno. - noto l’altro ragazzo, Julian, seduto di fronte a me, il peso in avanti, un ginocchio che freme nervoso e una sigaretta tra le dita che non può accendere. Ha le mani sporche di inchiostro, come se avesse passato le ore a scrivere con una penna scarica, indossa un paio di Adidas luride la cui superficie sembra sgretolarsi al freddo di dicembre. 
  - Ok, non ci farò caso. - dico io. Lo guardo. Non sembra così ricco, non così tanto per avere addosso la ridicola sciarpa con le scritte dorate dell’istituto per figli di imprenditori e ex musicisti famosi che frequenta. Nell’agitazione si tortura i capelli. - Devi stare calmo. - gli dico io. 
  - Sei Gillian, vero? - chiede lui. Si ricordava il mio nome, ce li avevano chiesti appena prima di portarci frettolosamente, prima di farci accomodare, in quella spoglia stanza. 
  - Gil. - lo correggo io. 
  - Beh, Gil. - il suo tono si spezza in disprezzante sarcasmo. - Forse voi qui siete abituati a tirare fuori i vostri amici dal lago ghiacciato ogni venerdì sera e poi, fare quattro chiacchiere con la polizia, e poi andarvi a sbronzare a casa di amici, ma da dove vengo io… - 
  - Da dove vieni, tu? - lo interrompo. 
  - … da dove vengo io, - mi ignora - non siamo ci siamo ancora abituati a queste cose. Non dirmi di stare calmo. - si alza, il passo nervoso costretto in quattro mura lo fa sembrare un animale in gabbia. 
  - Va bene. - non voglio discutere. Lui si appoggia al muro. Ancora quella sigaretta spenta tra le dita, bramava la nicotina più della fine di questa storia. Non mi sono tolta il mio giaccone, né lui il suo cappotto, come se fossimo pronti ad andarcene il prima possibile. Il caldo della stanza ci cade addosso a scioglierci e liberarci dal vento freddo che s’era infiltrato sotto la pelle. Ci guardiamo, ma non cediamo e rimaniamo a stringerci nei nostri superflui strati di stoffa con le mani in tasca.  
  - Devo fumare. Perchè non si sbrigano? - lo dice a sè stesso più che a me, cerca qualcosa nelle sue tasche, sembra un gatto affamato che non può far altro che fare il giro della cucina ancora e ancora aspettando che qualcuno lo noti. Senza guardarmi in faccia, mi porge con imbarazzo una minuscola bottiglia, tipica da minibar di alberghi poco economici. La prendo, è scotch. Lui ne ha un’altra per sè che finisce in un solo bramoso respiro, come se non stesse pensando ad altro da ore. 
  - Potrebbero farci il test. - dico io. 
  - Che test? - 
  - L’alcol test, per capire se abbiamo bevuto. - 
  - Perchè dovrebbero? - 
  - Non lo so. Ma potrebbero. Nei film succede. - 
  Non so perchè dissi quella cosa stupida, nei film succede. So benissimo di risultare infantile, ma troppo spesso mi ritrovo a paragonare la vita sul lago a ciò che succede nei film. Ho una lunga lista di titoli che esaurisco quando non lavoro. Una vecchia videoteca a Zurigo mi manda per posta ciò che richiedo e da qualche mese non mi sembra di fare altro che guardare film. Ma m’ero ripromessa di concedermi espressioni come nei film succede, ed avevo appena fallito. Ciò che accade sul lago è niente, tutto ciò che conosco si limitava a una serie di videocassette noleggiate e a un viaggio a Londra con mio padre, che poi non aveva più chiamato. Nei film succede, avevo lasciato che Julian percepisse tutta la mia inadeguatezza e inesperienza nel mondo, quando lui probabilmente viaggiava da un oceano all’altro a mesi alterni. 
  - Quanti anni hai? - mi chiede.
  - Diciassette. - 
  - Dì loro che non hai bevuto, ti crederanno. - 
  - Mi crederanno perchè ho diciassette anni? - 
  Annuisce poco rassicurante. Dà l’idea di uno che ad aspettare in una centrale di polizia ci sia già stato. Rimango con quella bottiglietta di scotch in mano, mi domando dove l’abbia presa. Ne ho viste parecchie di quelle, vuote e abbandonate sulla moquette delle stanze d’albergo che mi ero ritrovata a pulire l’estate scorsa, scaraventate stupidamente, forse per scherzo, forse per rabbia, in mille schegge nei corridoi delle suite che rassettavo con frettolosa energia. I ricchi si vogliono distinguere anche quando si tratta di alcol. Nessuno dei ragazzi da me conosciuti prima di Julian mi avrebbe mai offerto dello scotch in una ridicola bottiglietta del genere. 
  Guardo Julian, le sue belle mani macchiate d’inchiostro che si rifugiano nervose e sprezzanti nelle tasche del suo cappotto. Appoggiato alla parete con lo sguardo altrove, la sicurezza di una parlata d’inglese madrelingua, ora silenziosa e triste, lo slang newyorkese di Bogart che non so se sia autentico o se faccia di proposito, in un riuscito tentativo di rendersi geograficamente interessante. In altre circostanze deve essere un chiacchierone, penso, e non so perchè nella mia mente si creino attenzioni del genere. Lo immagino scherzare con gli amici, bere avidamente con gli altri ragazzi che erano con lui al lago e crearsi intorno un gran casino, ora deve sforzarsi di essere solo gentile con la ragazza che aspettava l’autobus e che è stata attratta dal pericolo e dalla probabile morte di Gary Simmons, poi non la vedrà mai più. 
  - Julian Casablancas, Gillian Gessner… - dice una voce, s’apre una delle porte del corridoio e ritroviamo l’uomo che ci aveva condotti nella stanza, lo stesso che volevo implorare di concedermi una chiamata con mia madre.  - Abbiamo avvisato i vostri genitori che siete qui, dopo la vostra deposizione vi accompagniamo noi a casa. - fa per richiudere la porta. Fantastico, tornare a casa in una macchina della polizia, non immagino ritorno più trionfale di questo. 
  - Aspetti… - lo ferma Julian Casablancas. Il suo cognome che non avevo ancora udito distintamente ora mi attacca la memoria e non mi lascia più. Sembra il nome di un attore, un famoso jazzista, è il cognome che si darebbe ad un annoiato artista con uno studio nella soleggiata Los Angeles. - Avete parlato con mia madre, o con mio padre? - chiede, sinceramente preoccupato. 
  L’uomo si volta verso l’interno della stanza, bofonchia qualcosa a qualcuno che batte a macchina alle sue spalle, il tic tic dei tasti si ferma. 
  - Con tuo padre. - dice l’uomo in giacca e cravatta e la porta ci isola di nuova nella piccola stanza dalle pareti grigie e dal pavimento che solleva lievi nuvole di polvere ad ogni passo di Julian. Ora il suo volto s’oscura, si lascia cadere sulla sedia che aveva lasciato per muoversi nervosamente a destra e a sinistra. Cazzo, sussurra appena. 
 

  
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