https://www.youtube.com/watch?v=9fY5WpHrONU
Slow it down, and then come back to bed
Johnson
non sapeva quando si era innamorato di Olga. Anzi, a ripensarci, non
sapeva nemmeno esattamente come lei fosse entrata nella sua vita:
l’aveva fatto in modo lento e impercettibile, giorno dopo
giorno, e lui aveva finito per esserne completamente dipendente prima
di rendersene conto.
Neanche a dirlo, la cosa lo spaventava enormemente, e per questo aveva
finito per allontanarsi. Non che fosse consapevole di questa paura,
ovvio. Se c’era una cosa in cui Johnson non era bravo, era
conoscere se stesso, ma questo, per lui, non costituiva un problema;
aveva così tante cose per la testa, così tante
emozioni, che preferiva rivolgere lo sguardo altrove, fingendo che non
esistessero. Era diventato così bravo in questo che alla
fine avevano finito davvero per non esistere. Una volta
l’aveva detto anche ad Olga.
«Penso di essere emotivamente sterile» aveva detto
all’improvviso, mentre le accarezzava i capelli. Lei aveva
riso appena contro il suo collo.
«Non vorremmo esserlo tutti?»
Era questo che l’aveva colpito di Olga fin
dall’inizio, non rispondeva mai in modo scontato, non diceva
mai quello che ci si poteva aspettare. Aveva questa capacità
di sorprenderlo, sempre, e forse era stato questo a scalfire quella
parete che lui aveva messo tra sé e il mondo.
Ma Johnson non lo era veramente, emotivamente sterile: dentro, nel
profondo, ancora le cose si smuovevano, solo che non se ne accorgeva se
non in modo appena percettibile. Era come un uomo che sta in piedi sul
bordo di una scogliera, dando le spalle al mare in burrasca sotto di
lui: gli arrivano schizzi, il vento gli solleva il cappotto
appiccicandoglielo a tratti al corpo, il frastuono delle onde che si
infrangono gli riempie le orecchie, ma l’origine di tutto
questo gli rimane sconosciuta, finché non finisce per fare
qualche passo in avanti, quasi stizzito, lontano da quella mareggiata
che riesce solo un po’ a percepire, senza mai esserne
tuttavia fuori portata, senza mai vederla davvero; gli schizzi, il
vento, il rumore costanti diventano semplicemente un sottofondo a cui
finisce per abituarsi così tanto da non chiedersi da dove
vengano.
Quando l’aveva vista piangere a causa sua, l’aveva
finalmente vista, la mareggiata. Così se ne era andato,
nascondendosi dietro una finta premura per lei, quando invece
ciò che voleva davvero era tutelare se stesso.
Se avesse saputo come sarebbe andata a finire, forse, per la prima
volta nella sua vita, Olga non avrebbe fatto le cose esattamente allo
stesso modo. Ciò non significava che avesse dei rimpianti,
perché era profondamente convinta di aver preso le decisioni
giuste, sul momento: solo perché in seguito si erano
rivelate sbagliate, non significava che nell’istante in cui
andavano fatte non fossero le scelte migliori.
«Ti ricordi quando ci siamo conosciuti?»
Lei aveva aspettato qualche istante che lui continuasse. Johnson le
faceva sempre domande di questo tipo, all’improvviso, mentre
giacevano assieme stretti l’una all’altra nel
lettone, il luogo dove avvenivano quasi tutte le loro conversazioni
più vere. Erano quel tipo di domande che sai che vengono
fatte come conseguenza di una catena di pensieri, di cui forse verrai
reso partecipe, forse no – a Johnson piaceva parlare
però, soprattutto con lei, quindi difficilmente lei non
risaliva per tutta quella catena, anello dopo anello.
«In realtà no» aveva poi risposto Olga.
«Volevo aspettare un momento più opportuno per
dirtelo… Ma immagino che alla fin fine ogni momento sia
buono. Soffro di una rara forma di Alzheimer
precoce…»
«Ah, Olly, mi dispiace» aveva replicato lui con un
tono caricaturalmente dispiaciuto. «È
grave?»
«No, fortunatamente no. È anche chiamato Alzheimer
selettivo, posso scegliere cosa dimenticare. Ho pensato che quello
fosse un buon momento».
«Era il nostro primo incontro!»
«Effetti collaterali».
Johnson era scoppiato a ridere, tirandosela ancora più
vicina, le braccia che la avvolgevano, la mano che stringeva quelle di
lei.
«Cosa, del nostro primo incontro?» aveva poi
chiesto lei.
«La tua insolenza».
«Non ero insolente!» si era difesa subito,
facendolo ridere ancora.
«Hai passato mezz’ora a prendere in giro il mio
nome!»
«Ma andiamo, chi è che si chiama Johnson?! In
Italia. Di nome».
«È un soprannome, Ol».
«No, non lo è. È un cognome.
Inglese».
«Sì, ma è anche il mio
soprannome».
«Ma non dovrebbe esserlo…» aveva
mugugnato Olga. «Insomma, perché?»
«Lo sai benissimo perché» aveva risposto
lui, sorridendo contro la sua spalla, che prese a mordicchiare
delicatamente.
«No. Alzheimer selettivo, ricordi? Molto insensibile da parte
tua dimenticarlo.
Fai sul serio?» aveva aggiunto, risentendosi in modo giocoso.
«Cioè! Oltre il danno la beffa!»
Johnson aveva ridacchiato ancora. «È
perché mio padre si chiama Giovanni ovvero John, io sono il
figlio quindi Johnson. Come sai bene, è un soprannome che mi
hanno affibbiato i miei amici alle elementari, una volta scoperto il
significato di “Johnson” durante una delle prime
lezioni di inglese» aveva detto di filato, senza intonazione,
come se stesse leggendo velocemente un elenco della spesa.
«I bambini dovrebbero avere più
fantasia» aveva sentenziato lei, «ma è
carino che tu abbia mantenuto lo stesso soprannome per tutto questo
tempo».
«Sì. Mi dispiace solo che non sia lo stesso per
quanto riguarda coloro che me l’hanno dato».
Olga era stata in silenzio qualche attimo, aspettando che il dolore che
aveva percepito nelle parole di lui si dissipasse un poco, poi aveva
detto: «Beh, è così che va. Le vite si
incontrano, si incrociano, si mescolano, ma non sai mai per quanto
tempo. E poi» aveva aggiunto riflettendo, «in
realtà, come fai a dire se due vite si sono mescolate per
poco tempo o per tanto? Ci sono persone che ti toccano così
tanto, anche se le vostre vite si sono mescolate per così
poco, e ci sono vite che non smetteranno mai di essere mescolate, anche
se non dovessero incontrarsi mai più. Però non
è detto che valga per entrambe le persone, no? Magari
qualcuno ti ha cambiato la vita, ma tu per lui sei stato
impercettibile… Capito in che senso?»
«Giò?» l’aveva chiamato poi,
non sentendo risposta.
Avendo smesso di parlare, aveva potuto sentire il respiro di lui farsi
più regolare, segno che si era addormentato. Olga aveva
quindi sorriso, accoccolandosi meglio tra le braccia di lui, e nel giro
di poco si era addormentata anche lei, per dormire quelle poche ore che
rimanevano della notte.
Tempo dopo, Olga si convinse che loro, lei era
quell’ultimo caso. La vita di Johnson era entrata in contatto
con la sua, e loro si erano mescolati così tanto che lei si
sarebbe portata dietro sempre un pezzo di lui, ma era profondamente
convinta che la cosa non fosse reciproca: se lo fosse stato, le cose
non sarebbero dovute andare forse diversamente?
Lui era sparito, così, semplicemente. Dopo un litigio
insulso per un motivo altrettanto insulso. Ma lui era sparito
ugualmente. Evidentemente non meritava una seconda chance, se di chance
si voleva parlare; lei non era un gioco sufficientemente bello
perché Johnson utilizzasse più che
l’inizio della sua candela.
«Forse dovremmo rallentare».
«Perché?»
«Non ti sembra stia andando oltre… oltre quello
che pensavamo?»
«No. Cioè, boh, non lo so». Una
scrollata di spalle. «Io prendo le cose così come
vengono».
«Ma sei pronto ad avere a che fare con le
conseguenze?»
Non lo era. Non si era mai nemmeno dato la possibilità di
esserlo. L’aveva attratta sempre più vicina,
aumentando la sua gravità e riducendo l’orbita di
lei. Le aveva riversato addosso parole, ricordi, speranze, rimpianti,
dolori, le aveva affidato tutto sé stesso prima ancora di
rendersene conto.
Gliel’aveva detto anche lei, dopo che lui si era scusato per
essere così logorroico: «Sai, però
parli molto di te, per essere una persona “emotivamente
sterile”. Ma penso sia perché tu ne abbia
bisogno» aveva concluso semplicemente. «Da
quant’è che non lo facevi?»
«Non credo di averlo mai fatto. Non so perché, con
te è diverso. Sei sincera».
«I tuoi amici non sono sinceri?» le aveva chiesto
lei, e questa era un’altra delle cose che lo aveva colpito
fin dall’inizio: era una domanda vera, non c’era
traccia di retorica; molti altri, al suo posto, avrebbero semplicemente
dedotto fosse così e magari si sarebbero lanciati in una
qualche invettiva. Ma non lei, anzi Johnson era sicuro che se in quel
momento avesse risposto sì, lei avrebbe chiesto un innocente
“perché?”. Olga attuava sempre questa
sospensione del giudizio, una cosa quasi ingenua, che Johnson forse non
faceva più da lungo tempo – partiva sempre
prevenuto con le persone, lui.
«No, lo sono anche loro. Ma tu… sei quasi
disarmante».
«Ma forse non è nemmeno questo» aveva
aggiunto subito dopo, mentre sovrappensiero disegnava col pollice
ghirigori sul fianco di lei. «Adoro il modo in cui mi parli.
È che sei… delicata»
aveva detto cercando le parole, «quando mi parli…
è come se le tue parole mi sfiorassero appena. Hai
capito?»
«Sinceramente no» aveva detto lei, confusa.
«In che senso? Non ti interessano?»
«Ma no! Dicevo letteralmente. Cioè…
Alcune persone… Quando parlano, sembra che ti vomitino
addosso la loro opinione, presente? Tu te ne stai lì, e loro
parlano, parlano, parlano, e le loro parole ti investono, e loro
nemmeno si accorgono dell’effetto che ti stanno facendo, e
continuano a parlare, e se anche se ne accorgono, vanno avanti comunque
perché, ehi, c’è la libertà
di parola, quindi si sentono in diritto di sparare le loro opinioni,
anche quando non sono richieste». Olga lo aveva continuato a
guardare ancora un po’ confusa, mentre lui proseguiva.
«Ma tu no. Tu… È come quando sei in
spiaggia, sulla banchisa, e l’acqua che va e viene ti
accarezza i piedi. È delicata, capisci? Tu sei
così. Le tue parole sono così. Ti accarezzano, ti
cullano e spesso è come se ti lenissero».
Olga era rimasta in silenzio qualche istante, limitandosi a guardarlo
negli occhi, e lui si era sentito esposto come mai prima di allora. Per
la prima volta da molto tempo, si accorse del vento che gli sollevava
il cappotto e gli scompigliava i capelli. Riflettendoci, forse fu in
quel momento che cominciò a ritirarsi.
«Grazie» aveva poi detto, con quella sua
sincerità di cui lui parlava prima. «Ma tu sei
così logorroico, che in realtà ascolto e basta.
Forse è per quello» aveva aggiunto buttandola sul
ridere, punzecchiandolo.
«Ma smettila» aveva riso lui, mentre la sensazione
del vento sulla schiena si acquietava.
«Dai, torna a letto».
«No».
«Ol…»
«“Ol” un cazzo, Giò! Sei un
egoista. Sei…»
«Okay, scusami» l’aveva interrotta lui.
«No, ascoltami tu! Fammi finire!» aveva ripreso
lei, con enfasi. «Lo so che non sei uno stronzo, okay? Lo so.
Ma sei… egoista. E la cosa peggiore, forse, è che
lo sei senza nemmeno sapere di esserlo. Sei così chiuso
dentro di te…», la voce le tremava
dall’emozione, la rabbia, il dolore, tutto mescolato,
«sei così preso da te e dal tuo punto di vista,
che non riesci a vedere nient’altro, e non solo non ci
riesci, non ci provi nemmeno! Non esiste nient’altro al di
fuori di quello che pensi tu, provi tu, vivi tu. Mettiti nei miei
panni!»
«Ho capito, Ol, mi dispiace di non aver avvisato e mi
dispiace di aver fatto ciò che ho fatto, non ci avevo
pensato!»
«È questo il punto» aveva detto lei,
scuotendo la testa. Poi aveva sospirato, abbassando lo sguardo.
«Dai, vieni qui, torna a letto».
Lei non si era mossa. Continuava a rimanersene lì, in piedi,
di fianco al letto. A due passi e due chilometri da lui.
«Olly» l’aveva chiamata ancora lui.
«Non posso spiegartelo tutte le volte,
Giò» aveva risposto lei, sollevando il viso e
guardandolo. Johnson allora aveva notato le lacrime che le solcavano le
guance, e si era sentito male come mai prima. Non era il tipo di dolore
a cui era abituato, era una cosa diversa: era il dolore che nasce
quando ci si rende conto di aver deluso qualcuno e, conseguentemente,
si delude sé stessi. Aveva dovuto distogliere lo sguardo,
perché insostenibile. «Non posso» aveva
continuato lei. «Lo so che ti dispiace, lo so che non
l’hai fatto apposta, e il punto è questo: non mi
consideri. E non intendo come… fidanzata, morosa, amica, o
cosa sono per te, intendo come persona, non mi tieni in considerazione
come persona».
«No» aveva risposto lui, risoluto, tornando a
posare lo sguardo su di lei. «No, non è quello.
Hai ragione, non ci ho pensato, ma non è perché
non ti consideri. Io ti considero, io non voglio farti del male. Senti,
migliorerò, okay? Migliorerò» aveva
ribadito. «Io non… non ci avevo mai pensato, in
questa prospettiva. Ma, davvero, da ora in poi sarà
diverso».
Lei non aveva risposto subito, l’aveva osservato qualche
istante; poi aveva sospirato e annuito.
«Torni a letto ora?»
Olga aveva poi colmato quei due passi tornati alle loro dimensioni
effettive e si era infilata tra le braccia di lui.
«Promesso?»
«Promesso» aveva risposto lui, e poi
l’aveva baciata. Era uno di quei baci che sembrano sistemare
ogni cosa, o almeno sembrano dire che ogni cosa è stata
sistemata, perché fatti solo di sentimenti, sentimenti veri
e reciproci. Ma spesso il problema non sono i sentimenti. «Ma
tu porta pazienza. Per favore, parti dal presupposto che io ti considero».
Lei aveva annuito.
Ma Olga non portò pazienza, Johnson non mantenne la promessa.
«Forse
dovremmo rallentare» aveva detto lei dopo un
po’, riflettendo a voce alta.
Se non avevano rallentato, era stato anche a causa
dell’impazienza di Olga. Johnson aveva fatto la sua parte, il
suo non sapere cosa volere da questa storia non aveva aiutato, ma le
batoste che lei aveva preso in passato dalle varie persone che
l’avevano trattata come se non avesse valore,
l’avevano portata ad essere più pretenziosa nei
confronti dei comportamenti di chi le stava attorno, un atteggiamento
in generale positivo – il volere il rispetto dagli altri
– che, poiché non accompagnato da una sufficiente
fiducia in sé stessa e nel suo valore, l’aveva
portata ad essere troppo risoluta. Le ci era voluto un po’
per capire che il suo essere così insicura aveva fatto
sì che desse più peso a cose che, se fosse stata
più equilibrata, non sarebbero state così
importanti – messaggi senza risposta, appuntamenti mancati,
dimenticanze continue, passare apparentemente in secondo piano, e il
resto, tutte cose che obiettivamente nascono da una mancanza di
rispetto di fondo, ma che a certi livelli non vogliono dire
nient’altro al di là di quello che sono. A volte
ci si dimentica perché ci si dimentica, non
perché non sia importante: era una cosa che le era costato
molto imparare.
Ma ciò che era fatto era fatto. Riconoscere tutto questo
sicuramente le sarebbe stato utile per una eventuale storia futura
– di cui al momento non aveva alcuna voglia – ma
non lo era per loro, per lei e Johnson. Le sembrava che le cose fossero
troppo danneggiate per poter essere riparate: erano andati di corsa,
lasciandosi guidare da sentimenti che crescevano in fretta ma che
entrambi non volevano guardare da vicino, erano stati indelicati,
avevano incrinato senza accorgersene e, quando il tutto si era rotto, i
pezzi che ne erano usciti erano troppi e troppo piccoli per poter
essere ricomposti.
O forse nessuno dei due era pronto per farlo. Alle volte lei ne era
tentata e componeva il suo numero, pronta a premere il pulsante di
chiamata, ma si fermava sempre prima di farlo davvero. Vuoi
perché una mezza volta ci avevano riprovato ed era finita
prima ancora di ricominciare, vuoi perché lei non credeva
veramente che Johnson avesse la forza e la voglia di guardarsi dentro,
capire l’importanza della loro “storia” e
rimetterne a posto i pezzi. Dubitava che lui pensasse che lei ne
valesse la pena. Era così strano: da un lato sapeva di
essere stata importante, lui gli aveva detto così tante
volte e in così tanti modi diversi quanto con lei fosse
diverso, ma dall’altro si sentiva insignificante, non valeva
nemmeno un’altra chance, non valeva nemmeno uno sforzo.
Olga aveva paura di non essere importante, Johnson aveva paura
dell’importanza che lei aveva. E nessuno metteva
l’altro di fronte alla realtà dei fatti, nessuno
metteva se stesso
davvero di fronte alla realtà dei fatti. E nessuno riusciva
ad ammettere del tutto l’importanza che la storia stessa
aveva avuto. Entrambi si aggrappavano a scuse come
“è durata poco”, “non stavamo
insieme ufficialmente”, “non eravamo
fidanzati”, “uscivamo solo”, ma non sono
queste le cose che danno importanza ad una storia. La verità
era che c’erano stati dei momenti, in quel letto, in cui
entrambi si erano sentiti loro stessi, in cui entrambi si erano sentiti
in pace, senza nessun pezzo mancante.
Ed entrambi non desideravano altro che rallentare un attimo e tornare
in quel letto.
Note: Il titolo una strofa adattata della canzone “Slow it down” dei Lumineers (nella canzone è, esattamente “slow it down, Angie, come back to bed”) e, senza neanche farlo apposta, anche il titolo della storia ci sta in metrica.
Poi basta, non aggiungo altro. Ho una mia opinione su quasi tutto ciò che concerne la storia di Olga e Giò, ma vorrei sapere cosa ne pensate voi, senza farvi influenzare da cose che non ho messo nella storia – per varie motivazioni.
Ah, ci tengo anche a precisare che, nonostante mi sia rifatta ad alcune cose realmente accadute, la storia è molto lontana dall’essere autobiografica: si attinge dal proprio bagaglio, ma lo si trasforma. Quindi ogni riferimento a fatti, cose o persone realmente blablablabla puramente casuale blabla.
Aggiungo che spero vivamente che questa shot segni la fine del mio lunghissimo blocco dello scrittore - maledetto.
Un grazie enorme va alla mia (cì, è mia, pappapero) Capitan Charmerica, che mi ha molto gentilmente betato la storia. Grazie, Cap :3