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Autore: Fannie Fiffi    24/01/2015    2 recensioni
#1 [Clarke Griffin!centric; Raven Reyes!centric; 2x08]
« Forse quello è sempre stato il loro destino, l’unico motivo per cui le loro strade si sono intrecciate: sono nate per amare lo stesso uomo e per perderlo entrambe. »
#2 [Bellarke; post 2x08]
« Bellamy Blake non sa non amare, è che tutto quello che fa è dettato da questo cuore che si sente battere sotto la pelle e che lo tiene in piedi. »
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Finn Collins, Raven Reyes
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Ok, so che probabilmente non vi aspettavate un seguito, ma l'ispirazione ha chiamato ed eccomi qui.
Questo sarà il secondo e ultimo capitolo, poiché volevo dare una conclusione vera e propria alla narrazione. Ovviamente si attiene a quanto detto precedentemente, quindi non tiene conto degli avvenimenti della 2x09, sebbene siano presenti dei riferimenti a delle frasi che sono state pronunciate in questa puntata. (Non preoccupatevi, nessuno spoiler.)
Ovviamente ho inserito l'AU poiché l'ambientazione è quella del capitolo precedente, quindi è solamente una mia ipotesi.

Che dire, spero di non annoiarvi e che questo proseguimento vi piaccia.

Buona lettura!



 

 
 
I wanna love you, but I don't know how


 
Bellamy si fionda su Miller.

Ancora prima che il Tenente, suo padre, possa raggiungere il ragazzo, lui è già lì, e lo sta già abbracciando.

Sì, lo stesso Bellamy del “quel che diavolo vogliamo” e della pallottola nel petto di Thelonious Jaha.

Quel  Bellamy Blake.
E se l’altro è sorpreso dal fatto, non lo dimostra. Nathan si limita a ricambiare la stretta con lo stesso vigore, con la stessa impacciata gioia di vedere qualcuno con cui si è condiviso il freddo e la fame.

Li hanno salvati, li hanno salvati e ora il resto della loro gente sta bene – no, non vogliono pensare ai dieci ragazzi che non hanno fatto ritorno al Campo, ora non vogliono proprio pensarci – perciò non c’è motivo di non stringersi, di non condividere per un attimo quel sentimento che li ha tenuti vivi in quei giorni di lontananza.

Prima che entrambi possano accorgersene, Jasper e Monty li stanno già circondando in un secondo abbraccio, formando un garbuglio di braccia e risate che attira sguardi furtivi dagli adulti del Campo.

E forse non avrebbero proprio niente da ridere. Forse, se sapessero che non tutti possono ancora ridere – non vedranno mai più Finn e Clarke non è ritornata con loro – non sarebbero così felici.

Forse, nel momento in cui Bellamy gli dirà che ancora una volta uno dei loro li ha lasciati, e che la loro leader non riesce nemmeno a guardarli in faccia, quei sorrisi svaniranno dai loro visi stanchi, ma lui non vuole pensarci in questo momento.

Non quando Monroe poggia il capo contro la spalla di Miller, sussurrandogli qualcosa che il maggiore dei Blake non riesce esattamente a capire, e nemmeno quando Octavia stringe la mano di Jasper.

Non può permettersi di pensare al fatto che la vita che avevano, quella che hanno tanto odiato solo per poi non riuscire ad andare avanti senza, ormai non esiste più.

Che ora hanno un’altra casa, un altro punto di raduno, altre persone con cui condividere il cibo e i vestiti.

(Non vuole pensare al fatto che gli manchi vedere Raven indossare la sua giacca, o Finn chiedergli di fare a cambio di stivali.)

Perciò Bellamy continua ad abbracciare la sua gente, perché lui è uno di loro (“lui è uno di noi e merita di essere perdonato per i suoi crimini, proprio come tutti noi.” Finge di non sentire la voce di Clarke al suo fianco, implorando il Cancelliere dell’Arca di risparmiargli la vita, di offrirgli il perdono che merita.) e ora sono finalmente insieme.

Quasi tutti insieme, si corregge mentalmente.

E lui all’improvviso si sente solo, perché non ricorda un momento sulla Terra in cui non ci fosse Clarke al suo fianco, celebrando le vittorie e architettando le rivincite.

Lei non c’è, non è tornata con loro, e lui vorrebbe dire di esserne sorpreso, ma lo sapeva. Sapeva che sarebbe rimasta con Lexa, che non sarebbe mai tornata da loro.

(“Questo non è un addio, Bellamy!” E aveva mentito.)

Poi: « Aspetta un attimo, dove sono Clarke e Finn? » Chiede Jasper.

E il moro prende un respiro profondo.
 
 




Il turno notturno di guardia di Bellamy sta per finire, l’alba sta finalmente per sorgere, e lui si aggira lentamente per il Campo, un passo leggero dopo l’altro, di vedetta.

Miller e Monty sono al cancello, pronti per qualsiasi evenienza, e lui sta camminando attorno alle tende, appena fuori dalla Stazione Alfa, il fucile stretto fra le braccia come un neonato.

La lieve e azzurra luce del cielo lo accompagna, abbastanza chiara perché possa vedere dove mette i piedi, ma non abbastanza perché il sole gli illumini il volto.

Attorno a lui tutto è silenzioso, tutto è immobile.

La scorsa notte il Popolo del Cielo e i Grounders hanno festeggiato la vittoria contro il Mount Weather, accompagnati dalle percussioni dei tamburi e dal moonshine di Monty che scorreva a fiumi.

Se ci avesse pensato solo qualche mese prima, probabilmente avrebbe creduto di essere divenuto pazzo.

Perché per quanto sia straordinario, per quanto abbia desiderato la pace, Bellamy non riesce ancora a credere ad un mondo in cui loro e i loro nemici giurati dividono il cibo, siedono assieme davanti al fuoco e ballano incomprensibili sinfonie.

Quella notte non era stato in grado di immaginare un mondo in cui lui e la sua co-leader erano separati da una tenda – a quanto pare, fra i Grounders vige una regola precisa: ai leader non è permesso festeggiare insieme ai loro clan – e non potevano nemmeno guardarsi negli occhi.

Eppure stava vivendo in quel mondo.

Stava vivendo senza di lei.

“ Non avresti mai dovuto innamorarti di Clarke Griffin.” Gli aveva ricordato la voce di Raven nella sua mente, come se fosse stata proprio lì accanto a lui.

Bellamy torna alla realtà quando sente delle voci provenire dalla tenda davanti alla quale si è fermato, e si chiede chi possa essere già sveglio dopo la notte appena trascorsa.

È la tenda di uno dei quarantasette che erano rinchiusi insieme agli altri.

Connor, gli pare che si chiami. Si avvicina di qualche centimetro, allertato da quegli strani rumori. Poi lo sente più chiaramente, dice: « Tornerai? »

Il maggiore dei Blake non ha tempo di accorgersi di star seriamente infrangendo la privacy di qualcuno, perché l’entrata della tenda si muove e qualcuno esce fuori.

Il sole sta per sorgere, il cielo è azzurro e bianco sopra di lui, e qualcosa fra le sue costole gli rimbalza contro la gabbia toracica. Sembrerebbe il suo cuore.

« Clarke? » La sua voce non sembra sua, bassa e incredula.

Il moro si prende il suo tempo, perché nessuno dei due sembra muoversi. I capelli spettinati, lasciati ricadere attorno al volto arrossato che non vedeva da fin troppo, una spallina della canotta che cala, la giacca che stringe nel pugno della mano sinistra.

Vorrebbe dire di non riconoscere i segni, ma ancora una volta non farebbe altro che mentire a se stesso.

Vorrebbe far finta di non aver capito che Clarke è tornata e che la prima cosa che ha fatto è stata farsi fottere dal primo ragazzo che ha incontrato.

La sua co-leader, la stessa codarda che è scappata da loro – da lui – e che si è precipitata nella tana del nemico piuttosto che rimanere, ora lo guarda con un’espressione che Bellamy non è in grado di decifrare.

C’è qualcosa di incredibilmente vuoto nei suoi occhi.

« Bellamy. » Lo saluta come se non avesse ancora addosso  l’odore e i  segni di uno sconosciuto.

Come l’ultima volta in cui l’ha vista – la volta in cui l’ha implorata di rimanere, di non andarsene, di essere chi è – lui le volta le spalle.

Non aggiunge niente, non dice una parola. C’è solo amarezza, solo una rabbia tale da mandargli la pelle a fuoco, perciò lui marcia lontano da lei il più velocemente possibile.

Dopo tredici giorni di silenzio, ora Clarke dice: « Sono tornata. » Parla alle sue spalle, sistemandosi la maglietta e passandosi una mano fra i capelli sudati.

Bellamy continua a camminare.
 
 
 
« Che diavolo sta succedendo? » Octavia lo sta aspettando al cancello, quando suo fratello torna dalla quarta battuta di caccia della settimana, affiancato da Miller e Murphy.

Questi ultimi comprendono immediatamente e si dileguano silenziosamente, lasciando i due Blake da soli.

« Di che parli? » Domanda lui, scaricando la carcassa di un cervo a qualche passo da loro.

« Lo sai. » Lo rimbecca lei, ma l’effetto sortito non è dei più soddisfacenti.

Il moro la supera e cammina via – sembra un’ironica nuova abitudine – ma Octavia non è come Clarke, non lo è mai stata, e soprattutto non lo è ora, perciò non lo lascia andare via.

La più giovane prende la mano di suo fratello e lo trascina altrove, lontano dalle persone che lavorano appena fuori dalla Stazione e che cominciano già da subito ad occuparsi del cibo appena consegnato.

Quando entrano nella tenda del leader degli originari Cento, sua sorella si alza sulle punte e gli stringe le braccia al collo.

Bellamy rimane in silenzio e immobile, ma dopo pochi attimi le circonda la piccola schiena e la solleva da terra, così che lei possa poggiare il capo contro la sua spalla senza doversi allungare.

Quella posizione li fa stare talmente bene che nessuno dei due sente il bisogno di sapere quanto tempo sia passato, e le braccia forti del maggiore dei Blake sembrano voler tenere sua sorella sollevata in aria finché ci sia anche la minima energia nel suo corpo.

In quel momento non importa il loro passato, le liti, le difficoltà affrontate appena arrivati sulla Terra (“Indovina un po’? Sei solo un coglione egoista!”), perché Octavia ha sopportato la sofferenza negli occhi di suo fratello per troppi giorni, e non ha più intenzione di rimanere in silenzio.

Quando lui la mette giù, ed entrambi si avviano verso il suo letto, sdraiandosi l’uno di fronte all’altra, rimangono a guardarsi senza parlare ancora per un po’.

« È tornata. » Dice lui dopo qualche tempo, e non ha bisogno di specificare di chi stia parlando.

Lei lo comprende senza bisogno di altro. Insomma, se è riuscita a capirlo Raven Reyes, non c’è alcun modo nell’intero universo in cui non l’abbia capito anche sua sorella, la persona che lo conosce meglio al mondo.

« Cos’è successo? »

Bellamy si avvicina di poco, perché non vuole che quel segreto sia più che un sussurro. « Non posso salvarla, O. »

Ed è vero. Non può salvarla. Non può salvarla da se stessa, dalle sue paure, dal senso di colpa che la divora dal momento in cui ha ucciso il ragazzo di cui era innamorata.

Perché da quella notte, la notte del “Me ne sto andando, Bellamy”, Clarke ha smesso di lottare.

E per una volta lui non può lottare per tutti e due. È stanco, è stanco come non ha avuto il diritto di sentirsi fino a quel momento, ma ora è davvero esausto.

La giovane chiude gli occhi e piega la testa sul suo petto, soffiando un « Mi dispiace » sotto voce.

In quell’attimo non sono più i guerrieri forti e coraggiosi che hanno dovuto essere fino ad allora, non sono più Okteivia kom Skai Kru e il Re Ribelle.

Sono O e Bell-Bell, quei bambini senza padre che hanno imparato a piangere silenziosamente ancora prima di saper camminare.


 
 
Non è che il primo desiderio di Bellamy sia quello di farsi trascinare da Miller nell’ala medica del Campo, e nemmeno quello di rischiare di rompersi lo zigomo destro in una battuta di caccia, eppure il suo braccio destro è ancorato attorno alle spalle del suo secondo in comando e un rivolo di sangue gli cola dalla guancia giù, fino al mento, bagnando la maglietta blu.

« Non ce ne è bisogno! » Ruggisce per l’ennesima volta, quando l’amico lo getta senza poche cerimonie su una delle barelle improvvisate.

(Si sforza di non ricordare l’ultima volta in cui ha visto Clarke seduta su una di quelle barelle, la notte della morte di Finn.)

« Amico, perdi più sangue del cervo che abbiamo ucciso. Rilassati. » Con una scrollata di spalle piena d’indifferenza, Nathan gli offre una pacca sul ginocchio e si allontana, pronto a fare per un po’ l’autoritario, ora che il loro leader non è in grado di farlo.

A questo punto, l’ultima spiaggia per il maggiore dei Blake è che sia Abigail ad occuparsi di lui.

E non è che non volesse farsi portare lì per non vedere la figlia del suddetto medico, non è che tenti in tutti i modi di ignorarla, di non guardarla negli occhi, di non essere costretto a mentire a se stesso dicendosi che non sente la sua mancanza.

Non è niente di tutto questo.

Poi: « Che diavolo ti è successo? » E Bellamy alza lo sguardo, e Clarke è lì, e i suoi occhi sono ancora troppo vuoti e stanchi, e le occhiaie le marcano il viso come un segno di riconoscimento, e i suoi capelli sembrano lo stesso così belli ché lui vorrebbe solo perdere le proprie mani in quelle onde e non ritrovarle mai più.

No, no, no. Non è niente di tutto questo.

« Ho lottato contro un albero. » Butta fuori lui, perché è la prima stupida cosa che gli viene in mente. « Ha vinto l’albero. »

Assicura a se stesso che il lievissimo sollevarsi delle labbra di lei non sia solamente frutto della sua immaginazione, ma con una scrollata del capo scansa via l’immagine.

Non le parla da due settimane, dal momento in cui l’ha vista uscire dalla tenda di Connor, e nemmeno prima le aveva parlato per giorni interi, autoimponendosi una distanza che credeva l’avrebbe aiutato a sopravvivere al fatto che la sua co-leader fosse tutto tranne che sua, eppure ora, in questo preciso attimo, il maggiore dei Blake può giurare che nulla sia cambiato.

Che loro siano ancora loro, che potrebbero tornare ad essere loro da un momento all’altro. Che poi non sappiano nemmeno chi sono, quello è tutt’un altro discorso. Lui sa di essere lui solamente quando lei è al suo fianco.

E tutto quello che vorrebbe fare è dare un ordine alla matassa di pensieri che si sta avviluppando nella sua mente, mettere a tacere qualsiasi istinto che gli ordini di abbracciarla così come lei ha abbracciato lui una vita fa e non lasciarla andare.

Sì, questo è lo stesso Bellamy del “quel che diavolo vogliamo” e della pallottola nel petto di Thelonious Jaha.

« Posso controllare? » Sussurra Clarke, e la cosa gli appare talmente ridicola che è costretto a sopprimere un ghigno amareggiato.

Questa cortesia, questo fingere che loro non abbiano mai combattuto insieme e che non siano mai sopravvissuti insieme, questa bella messa inscena non fanno altro che dargli la nausea.

Ed è qui che vorrebbe urlarle che qualsiasi cosa va bene, purché lei ritorni in se stessa.

Purché smetta di essere questa maschera che si è cucita tanto bene addosso da sembrare solamente il riflesso della vecchia Clarke.

( “Io ti conosco.” E, diamine, questi flash lontani devono smettere di ritornargli alla mente ogni volta che la guarda negli occhi. Può riuscire, per un attimo, a smettere di riprodursi nella testa il giorno in cui lei gli ha detto addio?)

Il moro non risponde, ma le porge la guancia, voltando il capo di lato e aspettando che le sue dita gentili arrivino a fargli ancora più male.

La giovane Griffin compie un passo avanti, e le sue gambe si appoggiano lievemente a quelle di lui, prima che possa fare nuovamente un passo indietro e limitarsi semplicemente a piegarsi un po’ di più verso il suo viso.

Come se gli servisse di toccarla, per sentirla veramente. Come se la sua stessa presenza lì non fosse abbastanza per fargli dimenticare qualsiasi motivo per cui dovrebbe essere incazzato nero con lei.

« Niente di rotto. Dovrò metterti dei punti, però. » Stabilisce con tono fermo dopo qualche minuto, lasciando finalmente andare il suo volto e raddrizzandosi davanti a lui.

Bellamy continua a fissarla senza dire niente, e Clarke sposta il peso da un piede all’altro.

« Ascolta, riguar… »

La interrompe con un gesto della mano prima che possa andare oltre, e lei si immobilizza sul posto.

« Non sono affari miei. »

 « Voglio dirtelo. » Insiste lei, assumendo quel tono che usava ai vecchi tempi, quando lui le sembrava solamente un despota pronto a prendersi gioco di novantanove ragazzini.

« Avevo bisogno di sapere. » Prende un respiro profondo, poi continua: « Avevo bisogno di sapere di essere ancora viva. Di poter sentire qualcosa. Qualunque cosa. E avevo bevuto, lontano da tutti voi e sola nella tenda che Lexa mi ha riservato. Vi sentivo ridere, vi sentivo ballare e vi invidiavo. Così ho bevuto. E poi all’improvviso quella non era casa mia, non era il posto dove volevo essere, e allora sono tornata qui. Lui era qui… »

Bellamy non riesce a controllarsi. « E così sei andata a letto con la prima persona che hai incontrato? Questo è tutto quello che hai saputo fare? Beh, ho una novità per te. Tu sei viva, Clarke. » L’amarezza nella sua voce è così feroce da sembrar prendere vita propria, e la giovane Griffin arretra di un passo.

Non ha paura di lui, non si sente intimidita. Si sente nuda.

« Tu. Sei. Viva. » Ripete. « Da quando sei tornata ti muovi come una macchina: mangi le tue razioni, bevi il tuo bicchiere e fai il tuo giro di visite, rinchiusa qui dentro. Ti comporti come se fossi già morta. »

E sa che non può fermarsi. Nell’attimo in cui vede i suoi occhi blu appannarsi, Bellamy sa di non poter più fermarsi. Così si alza, e si avvicina ancora di più.

« La tua vita non è questo. Tu sei ancora qui, con noi. Con me. » Sussurra, « Non sei morta. Sei viva, e io non posso più sopportare di vederti in questo stato. »

E forse questo è ciò che avrebbe dovuto fare fin dall’inizio. Forse l’unico modo per farla restare è arrabbiarsi.

Non si sorprende quando lei gli volta le spalle. È in grado di prevedere le sue mosse come se fossero le proprie.

« Non farlo, Bellamy. » Lo implora con il più leggero dei sussurri, mentre le sue spalle si piegano di poco.

« Oh, non provarci. » Alza la voce lui, sorpassandola e affrontandola. « L’ultima volta che non l’ho fatto, tu te ne sei andata. Quindi no, Clarke, adesso mi ascolti: tu sei viva. »

Il maggiore dei Blake alza una mano e la posa sul suo cuore senza la minima esitazione. Lei sussulta ma non si muove, e i suoi occhi spalancati si fissano nelle iridi nere di qualcuno pronto a combattere per lei.

« Lo senti? » Le chiede. « Lo senti? Questo è il tuo cuore che batte. » La mano continua il suo percorso verso l’alto, e si chiude attorno al suo collo come il più prezioso dei gioielli, sfiorandola prudentemente.

La stessa mano che per un attimo aveva pensato di lasciarla andare, di farla cadere, di liberarsi di quella seccatura, ora la tiene aggrappata ad un mondo in cui niente sembra più giusto.

Le sue dita si insinuano fra quelle stesse onde dorate che hanno tormentato i suoi sogni, ed entrambi trattengono per un attimo il respiro.

« Tutto quello che ti chiedo è di tornare. Torna la persona che sei sempre stata. »

Clarke rimane in silenzio. Cosa potrebbe dire? Cosa potrebbe fare? Ormai è danneggiata. Ormai non c’è niente che possa farla tornare quello che era prima.

« Hai fatto la cosa giusta. » Il moro piega il volto per arrivare alla sua altezza, e sussurra un segreto riservato solo a loro due. « Hai fatto la cosa giusta come l’hai sempre fatta, come hai sempre saputo fare. Ti prego, Clarke. »

E lei lo sa che Bellamy Blake non è nato per pregare.

Quando distoglie lo sguardo, si sente quasi meglio. Non vuole guardarlo negli occhi, perché ogni volta che lui lo fa, la spoglia irrimediabilmente di qualsiasi giustificazione.

I suoi occhi sembrano fatti per scavarle dentro e prendersi gioco delle sue più profonde debolezze.

« Siamo ancora io e te. » Le promette, e forse solo in quel momento si accorge delle sue dita perse ancora nei suoi capelli, quelle ciocche simili alle fiamme dell’inferno.

Clarke Griffin è il suo inferno e non c’è niente che lui voglia di più. Lui vuole bruciare, così come stava per bruciare fuori dalla navicella, e non vorrebbe perdersi nel fuoco di nessuno che non sia lei.

E forse non è questo che doveva fare dall’inizio, non è questo che dovrebbe essere, ma Bellamy è un cuore, è il cuore, e c’è quest’irrefrenabile passione in tutto ciò che fa che è il vantaggio più grande e lo svantaggio peggiore che lui possa mai avere e abbia mai avuto.

Il problema – se può ancora essere definito un problema – è che Bellamy Blake non sa non amare, è che tutto quello che fa è dettato da questo cuore che si sente battere sotto la pelle e che lo tiene in piedi.

È che il solo motivo per cui respira aria vera e corre nella foresta e si tuffa nell’acqua ghiacciata del lago è che lui ama, profondamente e visceralmente, fino a farsi svuotare,  e la sua sola presenza su quella Terra basta per rinnegare qualsiasi altra sua intenzione: Bellamy è lì perché ama.

Bellamy ama sua sorella, per cui ha rischiato tutto, ama l’adrenalina, ama quell’arroganza che si è ritagliata un pezzettino del suo atteggiamento, ama essere un punto di riferimento, ama essere un leader, ama correre, cacciare, cercare. Ama e ama e ama.

Bellamy ama una ragazza. E a volte sembrerebbe tutto qui: Bellamy è solo un ragazzo che ama una ragazza.

Il fatto è che lui non è solo un ragazzo, e Clarke non è solo una ragazza.

E lui in fondo non è certo di sapere cosa sia l’amore, o se questo sentimento che prova lo sia veramente, tutto ciò che sa è che c’è qualcosa di affilato che gli scava al centro della gabbia toracica ogni volta che lei lo guarda in quel modo, come a dirgli che lei ci crede, crede in lui, crede in quello che hanno e che hanno costruito.

Forse non sa cosa sia l’amore, ma Bellamy ama. Sempre.

« Non è questo il tuo compito. Non è questo il tuo posto. »

Al maggiore dei Blake sembra quasi che la sua co-leader cerchi in qualsiasi modo di trovare un motivo per soffrire. Forse Clarke sarà sempre e solo innamorata del suo dolore. Forse è questa la triste verità.

Lui, però, non può accettarlo. Non la lascerà andare di nuovo. « Il mio posto è dove sono sempre stato: al tuo fianco. »

Finge di non vedere la prima lacrima che cade dai suoi occhi stanchi. Va avanti.

« Tu sei la migliore amica che ho. Non ci siamo mai separati, come puoi farlo adesso? » Come posso farlo adesso?

« Ho bisogno di te, Clarke, tel’ho già detto. »

« E io ho bisogno di tempo, Bellamy. » Dio, l’ha sempre saputo che la sua principessa era ostinata, ma ora vorrebbe solo urlare. Gridare.

« Lo hai. »

« Davvero? » La bionda sbatte le palpebre, perplessa, e i suoi occhi si infiammano. « Davvero ho del tempo? Perché pensavo di avere tempo per salvare Finn. Pensavo di avere tempo da trascorrere con mio padre, o per perdonare Wells. Non lo hai ancora capito? »

Lui non vuole più sentirla, non è d’accordo, ma non riesce a parlare. Deglutisce e aspetta il colpo di grazia.

« L’amore è debolezza, Bellamy. Non commettere quest’errore. »

E, di nuovo, vorrebbe dirle che lui non sa non amare. Non ne è capace. Le vorrebbe dire che l’amore è l’energia naturale che mette in moto tutto il suo essere.

Compie un passo avanti, ed entrambi sono dannatamente spaventati dal loro sangue che scorre troppo vicino, dai loro corpi che condividono ancora la stessa aria, ma sono anche abbastanza orgogliosi da non arretrare.

Il fatto è che Bellamy e Clarke sono la stessa cosa.

« E se ti dicessi che è troppo tardi? » Sussurra, e la sua mano sfiora con la più soffice delle carezze le dita di lei.

Nella sua mente c’è una voce incredibilmente simile a quella di sua sorella che continua a bisbigliare: Diglielo. Diglielo. Diglielo subito, non continuare a tenerlo nascosto. Diglielo che faresti qualsiasi cosa per lei, per proteggerla. Diglielo che…

Clarke si irrigidisce, ma rimane immobile. Non si allontana, sostiene il suo sguardo. Dice: « Allora morirai. »

E gli volta le spalle. Se ne va.

E per l’ennesima volta lui non lo ha detto. Forse è davvero così, Bellamy non sa cosa sia l’amore.

Prima di uscire completamente dalla stanza d’ospedale improvvisata, circondata da attrezzi e barelle, la giovane Griffin si ferma.

Si appoggia al muro come se avesse appena corso per migliaia di chilometri, e solo dopo qualche secondo si gira verso di lui, e c’è fiera bellezza nel suo sguardo, una magnificenza tragica e stoica.

« Ma non sarai solo. » 



 
  
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