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Autore: Vella    25/01/2015    2 recensioni
Una famiglia. Una contea. Una residenza.
Jenkins. Buckinghamshire. Winslow Hall. Anno 1896.
Tre storie apparentemente scollegate fra loro. Tre mondi. Tre amori. Tre, il numero perfetto.
Daniel Shaw è un poeta profondamente enigmatico, strano, seducente, romantico. Cerca la sua musa ispiratrice, trovandola d'improvviso in Wendy, una ragazza benestante e solare, con un segreto. Così nasce un amore sconfinato, senza vie, dal sapore della proibizione e dello sbagliato. Un amore fatto di sguardi e di intensi contatti umani.
Viktor Mitchell, uomo di ventotto anni, rude, agognato, senza alcuna forma di desiderio. Veterano di guerra. Ed ora divenuto professore per l'istruzione di famiglie d'alto rango. Un uomo davvero, forse troppo, sbagliato e pieno di peccati. S'innamora perdutamente di Katherine, una ragazza di diciassette anni, giovane, ribelle, forte, eppure la sua unica alunna.
E infine Gerard Collins, ventiduenne, senza tetto, soldi o famiglia. Un gigolò in cerca di amore tra persone che non lo completano. Per questo quando incontra Henry il tumulto di sentimenti che si forma nel suo cuore, lo confonde.
Henry, Wendy e Katherine sono fratelli. Sono la famiglia Jenkins. Sono sbagliati perché non seguono le convenzionali etichette ma lo struggente filo conduttore dell'amore più remoto.
Genere: Romantico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago, L'Ottocento
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Adulteri Pensieri.

"C
he capelli lunghi, Wendy” diceva, “che bel corpicino che hai, Wendy” diceva, “che belle labbra che hai, Wendy” diceva.
Sembrava quasi di avere a che fare con il lupo di Cappuccetto Rosso. Le sue lunghe e callose mani si spostavano sul suo corpo con sinuosa energia e tanta, tanta esperienza. Sapeva perfettamente che parti toccare per sentire piccoli e lievi gemiti da parte della sua amata.
La passeggiata nel giardino di Winslow Hall si era trasformata in un dejavù del precedente incontro. Il conte Ermakje era desideroso di risentire la dolce civetteria di Wendy e la sua caparbietà nella castità e purezza; e Wendy, rispetto al ballo, iniziava a percepire una piccola fievole fiammella. Un piccolo accenno di speranza.
Le labbra di George cercarono il suo collo, il suo mento, le sue labbra con un fervore talmente irruento e ardente che si sentì desiderata più di ogni altra cosa .
Ogni piccola carezza, parola pronunciata, ogni piccolo attimo passato lì, nella radura, in mezzo al verdeggiante e alla bella e possente casa, sentiva dentro di sé una sottomissione maggiore. Un'accettazione di ciò che aveva vissuto.
“Sì, era lui. Mi sta solo tirando un brutto scherzo”.
La sua era convinzione pura perché non accettava lo sbaglio, l'essersi lasciata andare ad uno sconosciuto mascherato, probabilmente un maniaco depravato pronto a stuprarla nello stanzino.
Poi ci ripensò sull'ultima deduzione: come poteva volerla stuprare se era scappato prima che potesse scoprire la vera identità? Ma lasciò perdere presto tale domanda e cercò di convincersi ancor di più sull'ipotesi A. L'uomo mascherato era il conte Ermakje in tutta la sua bellezza.
Chi in fondo muoveva le mani come lui? Nessuno. Aveva una prodezza ed una certa imponenza, era di una leggiadra formosità, di una bravura non indifferente.
Quando il palmo del conte raggiunse un punto cruciale delle parti intime, Wendy gemette così forte che l'uomo fu costretto a zittirla con l'altra mano ed entrambi, subito dopo, scoppiarono in una sonora risata, infreddoliti e con i nasi rossi, ormai in preda ad un calore che pian piano si raggelava nelle basse temperature del giorno.
―Sei così spaventosamente desiderabile, ogni uomo vorrebbe almeno una volta provare a formare con le proprie mani il tuo corpo, sai? Sei modellabile come la creta e fragile, fragilissima. E tutto ciò mi fa impazzire disdicevolmente.― Sussurrò il conte all'orecchio di Wendy, e la ragazza arrossì, stringendo le braccia attorno al collo dell'amato e lasciandosi andare ad una risata stridula.
―E cos'è che non riesci proprio a sopportare di me?―
Il conte ci pensò su un attimo e rispose: ―Nulla―.
Ma era una bugia. Una di quelle grandi che si dicono per il bene e la pace di una coppia agli inizi. Il conte odiava il carattere di Wendy, il suo essere sottomessa, buona, senza pregiudizi, senza alcuna aspirazione al pericolo, allo sbaglio, al peccato.
Certo, era a modo suo molto emancipata. Nella sua castità permetteva al promesso sposo di assaggiarne un pezzo senza troppe cerimonie, ma in quei gesti meccanici non c'era il pericolo che il conte avrebbe voluto sentire.
Quando le aveva chiesto se avesse voluto passeggiar con lui, alludendo apertamente a cose poco idonee, aveva sperato davvero che rifiutasse, che lo mandasse a quel paese e probabilmente gli sarebbe piaciuto, lo avrebbe deliziato e l'avrebbe resa ancora più attraente ma... non c'era dubbio che Wendy, nella sua bontà di animo, era una gran donna. Bella e forte, se voleva.
Debole il più delle volte.
A lui però andava bene così, per ora.
Gli piaceva anche questo lato, in un certo senso. Sfidava se stesso con qualcosa di puritano, qualcosa a cui avrebbe dovuto prestare tanta attenzione, come una piccola porcellana di vetro.
―Hai freddo, mia cara?―
―Sì...― soffiò la ragazza ed una nuvoletta di fumo le uscì dalle narici, ―ma resisto.―
Una tale risposta stupì l'uomo che in quel momento, in un impeto come gli altri, premette le labbra contro quelle della giovane. “Resiste...” resiste per lui, per il bene della famiglia, per la sanità della società.
―Non resistere più allora, entriamo dentro, abbiamo saltato il pranzo.―


Ambedue le carrozze erano state parcheggiate sul viottolo di casa ed ambedue gli uomini erano entrati in villa senza scontrarsi nemmeno per un secondo.
Viktor quel giorno aveva un'aria veramente rilassata, la gamba non gli doleva più di tanto e Charlotte gli aveva consigliato di indossare un panciotto color lillà che all'epoca era davvero in voga. Per non parlare del colore! S'intonava perfettamente ai suoi occhi e all'umore.
Lasciò il bastone nell'ingresso di casa e con l'aiuto di una delle tre sguattere, che il più delle volte lavoravano nelle cucine, si fece togliere il cappotto e lasciò che lo posassero nell'armadio apposito.
Doveva parlare con Mr Jenkins ma prima avrebbe dovuto presentarsi tramite Sheila e... dov'era finita quella buona donna? Sempre in giro per casa, indaffarata e pronta a dare del suo meglio quando c'era bisogno, e proprio adesso che Viktor aveva un bisogno quasi fisico di lei, spariva.
Attraversò il corridoio principale e non si soffermò a lungo sulla biblioteca d'eccellenza, dove c'erano ancora gli ospiti e Mr Jenkins.
Katherine, Ernest e la famiglia Griffhits avevano pranzato amabilmente nella sala apposita e dopo essersi rifocillati con una grande abbondanza di cibo, Katherine s'era cambiata nelle sue stanze con un candido abito color mogano che le stringeva i seni più in alto e la scollatura le dava un senso di castità e ipocrisia non indifferente. La falsità di tanto perbenismo era scorta tra il brillio incessante dei suoi occhi; dopo essersi cambiata dunque, si era recata da Joseph e, così come voleva il padre, insieme si erano rinchiusi nello studio di Mr Viktor che arrivato con la carrozza non s'era ancor fatto vedere.
Era stata una di quelle mosse astute e dispettose ch'era balenata nella sua mente come un flash improvviso. Sapeva che Viktor si sarebbe per prima cosa recato nel suo studietto personale, forse per riprendersi qualche libro, forse per incontrare la giovane. Di certo non era a conoscenza di una tale amicizia tra lei e il giovanotto che sin da subito aveva odiato, odiato profondamente, più della madre Annabelle.
Katherine aveva trovato una scatola di scacchi e con una domanda cortese aveva chiesto il consenso del gioco anche al suo accompagnatore, e ben presto la giovane si ritrovò concentrata sui cavalli e gli alfieri che con somma maestria venivano abbattuti da Joseph.
Il giovane rise, ma non con cattiveria, quando la seconda torre perse vita sul campo di guerra distrutta da un sonoro calcio da parte del cavallo bianco.
―Mi dispiace, davvero...― rideva sotto i baffi e Katherine, rossa in viso, cercava di non far trasparire lo sdegno e il bruciore della sconfitta.
―Sono una donzella giovane e poco brava in simili giochi di società, perché... non mi fate vincere? Insomma cosa vi costa?― brontolava mentre muoveva un suo pezzo e capiva per l'ennesima volta di star sbagliando tutta la strategia.
―Ma non ci sarebbe sfizio a far vincere le donne, dovete conquistarvi la vostra fetta vittoriosa, miss.― La voce calda del giovane le apparve nuovamente impertinente, ma le piacque troppo come la rispose e si lasciò scappare un sorriso.
―Non cantate sin da ora! La battaglia è appena iniziata.―
Joseph rise ancora, di gusto, e Katherine si lasciò andare anche lei sulla poltrona in velluto.
―Una battaglia sì, ma la guerra? Siete sicura di riuscirci? Così graziosa e fragile, miss. Troppo per poter sporcarvi le mani.―
―Me le sporcherò! Non ci son problemi.― e sfregando i palmi, mosse la regina che cadde miseramente sotto il colpo della torre bianca.
―Ah! Ma insomma! Contegno! Era la mia regina...―
―La mia torre aveva qualcosa in più rispetto alla vostra regina allora.―
Katherine sbuffò e si rifiutò di continuar la battaglia, tanto che Joseph fece una tirata di spalle ed esclamò: ―Siete troppo competitiva, con la competizione non si arriva alla vittoria, Katherine.― Ma la ragazza non l'ascoltò, qualcosa attirò la sua attenzione vicino la porta: la maniglia leggermente girata, un uomo appoggiato allo stipite che guardava la scena con enorme riluttanza. In quell'istante Katherine le sentì il fiato mancare, per l'ennesima volta il suo piano era stato portato a termine ma le conseguenze erano sempre enormemente disastrose.
―Oh, signor Mitchell!― Esclamò irrigidendosi ed alzandosi dalla poltrona.
L'uomo entrò nella stanza e recò un lieve segno di capo all'altro ragazzo presente. Doveva comportarsi in modo più servile ma non era proprio in lui una simile scenata di galanteria per l'alto rango.
―Il ragazzo ha proprio ragione, sapete miss? Siete così emotiva che non riuscite ad accettare la realtà dei fatti.― Ridacchiò ma nessuno si unì a lui, Joseph ora era intento a riposare i pezzi del gioco all'interno della scatola in vetro, senza voglia alcuna di unirsi alla conversazione.
Katherine deglutì e il suo sguardo si perse per un attimo sul viso del precettore, e poi sul collo, fino a scendere alle mani incrociate.
―Chi cercavate, Mr Mitchell? Posso esservi utile?― Sussurrò la giovane, in una forma di buone maniere, cercando di non trarre in nessun modo, ricordi spiacevoli. Cercava di sorpassare, di ritornare alla fredda realtà di cui parlava l'uomo. Di evitare con tutta se stessa lo scombussolio dello stomaco, la testa vorticante, le gambe dolenti.
―Sì. Cerco Sheila. Devo parlare con vostro padre di una questione urgente.―
Viktor non la guardava però, il suo sguardo era fermo sul ragazzo in maniera talmente insistente che quest'ultimo era diventato rosso come un pomodoro.
―Mio padre è nello studio e lì dovrebbe essere anche Sheila, vi accompagno.―
Katherine si mosse di qualche passo e non diede alcun peso alle proteste dell'uomo, dicendo:
―Non preoccupatevi, non mi costa nulla accompagnarvi―.
Joseph rimase nello studietto e trasse un profondo sospiro di sollievo quando sia Viktor che Katherine uscirono dalla stanza.
Quell'uomo, con quella cicatrice e quella gamba zoppicante, quell'aria talmente rude, lo aveva terrorizzato come mai nessuno c'era riuscito. E Joseph era una persona forte di animo e di mente.
―Di cosa volete parlare con mio padre?― Domandò la giovane mentre attraversavano il corridoio uno di fianco all'altro.
―Questioni urgenti sul mio lavoro qui, nulla che vi possa interessare, miss.―
A tali parole, la giovane si fermò di colpo e l'uomo fu costretto a girarsi per capire come mai avesse smesso di camminare.
Gli occhi leggermente inumiditi di lei si posarono su quelli di lui e questa volta Viktor non poté far altro che guardarla e scoprire in sé un bollente sentimento di irrefrenabile possessione.
―Nulla è stato detto riguardo a ciò che già sapete. Ho taciuto e gradirei tanto che anche voi facciate lo stesso. Non è... il caso di far preoccupare inutilmente un povero vecchio.―
Il suo animo rise ma il suo viso rimase impassibile e solo un leggero cenno di capo fece comprendere a Katherine che per adesso poteva star tranquilla.
Ripresero a camminare.
―Come mai siete mancato questi giorni? Ho dovuto istruirmi da sola.― Mentì la giovane.
―Dubito che abbiate sfogliato la prima pagina di un libro ma apprezzo lo sforzo.
Ebbene, ho avuto da fare e non c'è nient'altro da dire in merito.―
Katherine arrossì ed arrivarono finalmente dinanzi la biblioteca; che poteva farci in fondo? Non era nessuno, era stupida, infantile, cocciuta. Voleva tutto e nulla, e alla fine non riusciva ad ottenere proprio il benché minimo.
Bussò una, due, tre volte, e alla fine il padre la fece entrare.
―Padre...― disse la giovane evitando di rivolgere lo sguardo su Annabelle; oh quanto la odiava! Quanto voleva urlare al mondo il suo adulterio! La sua lussuria! La sua schifosa indole da puttana! Con lui poi... con Viktor, ―Mr Mitchell vuole parlarvi.―
Il padre guardò l'uomo claudicante, poi lo sguardo cadde su Mrs Griffiths, alla fine congedò la figlia e lasciò che la porta si chiudesse dietro di lei.
Katherine non seppe mai cosa doveva dire il precettore al padre suo.
Nel frattempo, uscendo dalla biblioteca, la ragazza si scontrò con Henry, suo fratello. Appena lo vide, notò subito la stravaganza sul suo viso. Sembrava in cerca di qualcosa, aveva la camicia al di fuori dei pantaloni e i capelli leggermente scompigliati.
Si fermò di botto appena la vide e si massaggiò la cute come se volesse nascondersi.
―Henry...― lo chiamò Katherine e lui le sorrise, avvicinandosi.
Insieme si avviarono al di fuori del corridoio per subentrare nella sala da tè, a quanto pare era diretto lì.
―Ho bisogno di bere qualcosa.― borbottò dopo essersi avvicinato al mobile dei liquori, si riempì un intero bicchiere di rum e Katherine scorse del rossore alla base del collo che andava fin dove erano cresciuti i capelli; gli era palesemente successo qualcosa ma lì per lì non ebbe il coraggio di domandargli nulla, timorosa di una risposta che non le sarebbe potuta piacere.
Vi si avvicinò da dietro e gli toccò la spalla con la punta delle dita.
―Hai fatto presto ritorno a quanto vedo. Londra è stata di tuo gradimento?―
―Cos-... ah! Oh... sì, sì! Nuvolosa, molto. Ma sinceramente tutte queste ore di viaggio non sono valse a chissà cosa. Troppo stancanti.―
―Almeno hai portato a termine ciò che dovevi.―
No, pensò Henry, neanche questo ho fatto. Ho solamente una mente così confusa da farmi paura. Gerard è stato irremovibile ma probabilmente in questo istante ci sta ripensando e presto riavrò sue notizie, per non parlare della bruttissima e mal celata entrata ed uscita di Viktor Mitchell. Dovrei informare di ciò Katherine? È troppo emotiva, correrebbe da nostro padre oppure lo farebbe sapere al precettore ed io prima devo capire che parte sta recitando quest'uomo nelle nostre vite. Ho bisogno di certezze, di una via di fuga, di una strategia che venga applicata come si deve, che mi porti ad una fruttuosa conclusione, e meno persone sanno e prima riuscirò al mio intento.
―Che cosa hai fatto tu? Ti sei ripresa dal ballo a quanto vedo. Hai ancora un viso scarno ma più vivo dei giorni precedenti.―
La ragazza annuì con pigrizia e si sedette placidamente in una delle poltrone presenti. Si era ripresa, se così si poteva dire, ma di certo era ancora scombussolata e poco sicura sulle mosse che doveva adottare.
―Sì, questo freddo mi sta uccidendo, Henry. Sento proprio un peso sulle gambe e sulle braccia... assurdo! Non so cosa fare per trovare un rimedio. Sheila poi! Continua ad attaccarmi manco fossi una nullafacente. Non le ho fatto nulla di male e ce l'ha con me. Ha persino messo il broncio!―
Henry rise e lasciò che il liquido gli scendesse lungo la gola con violenza, così che il bruciore lo destasse dall'intorpidimento del corpo.
Proprio in quel momento, dove il silenzio stava avendo la meglio e i due fratelli agilmente cercavano un appiglio dove riposarsi in santa pace senza conversar troppo, una giovane figura fece il suo ingresso nella sala. I capelli corvini che cadevano dolcemente sulle spalle, le ciglia truccate meticolosamente ed un vestito in seta color sangue di piccione che lasciò interdetti i presenti.
―Oh, Henry caro! Henry, Henry, Henry!― piagnucolò la figura femminile mentre si cimentava tra le braccia del giovane e le scarpe ticchettavano fastidiosamente sul pavimento.
“Dio! Solo la zecca Ermakje mancava.” Pensò in un impeto di disperazione il giovane.
Elizabeth lo strinse così forte da togliergli quasi il fiato ed il ragazzo ricambiò appena l'abbraccio, di modo che si allontanasse senza troppe cerimonie e preamboli d'amore. Quanto odiava queste cose! Quanto lo mettevano a disagio! Il corpo di una donna era un modello rispettabile da venerare, qualcosa che lui stesso trovava apprezzabile, ma non riusciva a coglierne quella sottile attrazione che ogni uomo di solito provava alla vista.
―Ma dove vi eravate cacciato? Ho tanto penato in vostra assenza! Non vi siete presentato al ballo, non mi avete concesso la benché minima attenzione in questi giorni. Mi sono sentita tremendamente abbandonata.― Il piagnisteo durò per altri svariati minuti nei quali Katherine si diede all'osservazione delle sue unghie ben curate ed Henry subì in un inetto silenzio che a nessuno in quella stanza piacque veramente.
Katherine si aspettava un'epocale uscita.
Elizabeth voleva che la prendesse tra le braccia lì, davanti a tutti e la stringesse forte, così forte da incuterle tutto il suo calore d'uomo, ed infine chiederle umilmente scusa con un regalo sontuoso che aveva acquistato per lei a Londra.
Henry invece immaginava le parole di Elizabeth sulla bocca di un altro essere umano e purtroppo anche se gliele avesse dette Sheila, sarebbero apparse più attraenti.
Niente di tutto ciò accadde veramente e alla fine, l'uomo sorrise docilmente a mo' di scuse fatte male, che neanche provenivano dallo strato superficiale della sua anima; ma ad Elizabeth ciò bastò, si arrampicava sul nulla per costruire immensi e sparsi castelli.
―Ditemi Lizzy, posso chiamarvi così non è vero?, dove si è cacciato vostro fratello? Vorrei chiacchierare un po' con lui e... beh, insomma...―
Elizabeth interruppe subito il discorso campato in aria del giovane, e rispose amabilmente che George era rientrato con Wendy da un po', erano stati in campagna, nelle radure, avevano vissuto una bella giornata insieme, appartati dagli sguardi inquieti, pronti per conoscersi oltre ogni dire, ma mai superando i limiti della decenza stessa.
Katherine sospirò e si lasciò andare sulla poltrona, guardando in aria e trattenendo appena uno sbadiglio di noia. Henry la guardò con mezzo sopracciglio alzato ed Elizabeth si apprestò a continuare il suo discorso su quanto Wendy fosse perfetta per il suo amato fratello ma mai, mai osò dire ch'era George perfetto per Wendy.
―E dove si trovano adesso?― domandò Henry.
―E dove dovrebbero trovarsi, fratello? Buon Dio, non esser così petulante! Saranno nella veranda oppure Wendy sarà andata a schiacciar un pisolino. Lasciala stare a lei, che ha tante cose per la testa e poche occasioni per risolverle. Poverina, è sempre così piena del suo io, che lo sta perdendo.―
Henry alzò ancor di più il sopracciglio verso la sorella che, a quanto pareva, era decisamente di cattivo umore e stava iniziando la mente da sola vagare per terre sconosciute e la bocca parlare spropositatamente davanti a soggetti poco idonei come la signorina Ermakje.
“Da quand'è che ti preoccupi di Wendy, Kath?” avrebbe voluto domandarle il fratello, eppur si trattenne, lasciando cadere il discorso e trasportando le vesti di Elizabeth al di fuori della sala.
La giovane fu felice, ed in impeto di gioia prese l'uomo sotto braccio e lo guardò raggiante, con un sorriso a trentadue denti, pronta anche ad offrirsi a lui come più lo poteva gradire.
A quanto pare, pensò Henry, questa ragazzina è più cotta di un tacchino.
Katherine, rimasta sola nella stanza, vide le vesti della ragazza svolazzare lungo il corridoio dalla porta e poi li perse di vista non appena svoltarono l'angolo e le voci gioviali si persero nell'aria.
Dio buono e amato, come si sentiva male. Voleva vomitare lì, sul pavimento. Non aveva forze che la tenessero a galla da quel mare in tempesta e non aveva alcuna voglia di sopravvivere al furente sentimento che starnazzava come un'oca nel suo cuore.
Cosa fare in situazioni del genere? Avrebbe voluto, proprio lì, senza motivo alcuno, andare da Wendy e domandarle come poteva lei essere così sicura del futuro, così sicura di George e di cosa quell'uomo era pronto ad offrirle. Aveva sempre preso in giro la sorella, considerandola una stupida ragazzetta alla mercé del padre e di qualunque cosa lui volesse farle, ma ora, da sola in quella stanza, capiva che probabilmente era la via più facile, quella che le avrebbe assicurato la vita e la morte, non del tutto felici entrambi, ma almeno giuste e sviate sulla strada traboccante di alti e bassi.
Invece lei, adesso, si trovava in una bufera di neve e non c'era vita o morte all'orizzonte, c'era solo la certezza di quell'oggi e di quegli occhi imperlati di un malsano amore che attendevano dietro al sipario, di farla cadere sul palcoscenico, di pugnalarla e probabilmente di non darle neanche un minimo di vittoria.
Katherine bramava il futuro di sua sorella Wendy e quest'ultima bramava il pericolo e la spensieratezza di Katherine.
Entrambe componevano quello che era un quadro infinito di sbagli e di sentimenti contrastanti.

Oh milady, dolce milady, in un vicolo buio della vita s'era smarrita ed ora giaceva supina su un letto di rose e un calice di champagne versato sul tappeto in pelle. Il viso truccato era macchiato dal mascara e dall'ombretto di un verde sgargiante; aveva una vestaglia rossa, di quel rosso che fendeva la mente dell'uomo e distruggeva la pudicizia delle giovani ragazze.
Charlotte stava vivendo quel giorno in un bagno di sudore e di alcol, lasciata libera a sguazzare in una tetra malinconia, formata dalla sua stessa vita e dal suo stesso passato sgualcito e maltrattato.
La camera puzzava di chiuso, era da quando aveva ricevuto il biglietto da Mr Jenkins che la donna non riusciva più a ragionare come una volta.
Stava cadendo a picco nelle sue vecchie emozioni, in un passato che le doleva l'animo come non mai, un passato formato da sentimenti forti, così forti e duraturi da ridurla in poltiglie.
Ubriaca fracida com'era, inizio a ridere, ridere come non mai; il suo sguardo perso davanti a sé e pensava, pensava... rammentava... e moriva dentro, come una fata...

A quel tempo le sue gambe erano lisce come seta e i vestiti le cadevano addosso perfettamente; la rotondità dei glutei e dei fianchi, dei seni e del corpo in sé, incantava chiunque, anche lui.
Un uomo sposato ma bello, bello come il sole. Alto, moro, forte, virile...
Le sue mani che si spostavano dal collo alla schiena seminuda e poi la guardavano, giovane ma non troppo; e lei, lei nel fiore della sua gioventù che lasciava stare le mani, lasciava che percorressero i suoi abissi e non vi si perdessero...


―Bastardo!― Urlò in preda all'ira. Charlotte si alzò di scatto e lanciò il calice di champagne dall'altra parte della stanza con infinita rabbia; il suo cuore martellava ed aveva il fiatone, talmente che il gesto impetuoso le aveva rapito energia.
Pian piano scoppiò in un pianto lamentoso e cadde con le ginocchia sul pavimento facendo così un gran fracasso.

―Non farò mai nulla che possa nuocerti, amor mio.―
Quelle parole rimbombarono allora nella sua mente e le labbra del giovane si posarono candidamente su quelle di Charlotte, ma mai aveva lasciato trapelare del dubbio, un minimo di dubbio. E quello fu un grande errore, concedersi al mondo con la grande purezza che sin da bambina l'aveva caratterizzata e poi rimaner fregata, con un pugno di sabbia tra le candide dita.
Entrò Gerard e guardò la mamà. Charlotte aveva gli occhi vacui e la faccia di una bambina triste sull'orlo di un lungo pianto.
Il giovane vide il bicchiere frantumato in mille pezzi di vetro e la donna che non gli prestava attenzione alcuna.
Dalla porta si affacciò Violette ma il ragazzo la spinse via con fare sbrigative.
Con il viso corrucciato, raccolse i cocci per terra, ripose la madre sul letto in fiori e lasciò che sfogasse la sua rabbia.
Mai come allora Gerard aveva desiderato di sapere cosa fosse successo veramente a Charlotte, cosa avesse dovuto subire. Cosa avesse dovuto provare nella sua vita per comportarsi in tal modo.
Che Henry avesse ragione? Doveva iniziare un'indagine?
Non era quello il momento di pensarci.
―Oh mamà, sono qui io, sono qui io. Calmatevi, guardatemi, nulla vi succederà di brutto.― Continuava a ripetere lui mentre la donna sussurrava a denti stretti “Bastardo, bastardo, bastardo...


Spazio scrittrice:
Eccomi qua!
Il nuovo capitolo di Cortocircuito è stato pubblicato prima che l'anno finisse hahahaha, dovreste essere fieri di me!
Piccola avvertenza per il XIV CAPITOLO:
Potrei stupirvi!
Ora, ritornando a questo qui, ho solo una cosa da dire: Viktor è un gran-... no, scherzo.
Ho da dirvi grazie, a tutte le persone che hanno iniziato a seguire di nuovo Corto e quelle che sono rimaste senza mollare, e ancor di più a coloro che seguono in silenzio, spero di compiacervi!
Lasciate se volete un commento! Sapete che è sempre gradito, che capisco la poca affluenza dato che ho lasciato la storia a marcire per ben cinque mesi, ma... adesso ci sono, e ci siete anche voi!
Un paio di avvisi amorevoli:
CORTOCIRCUITO SU WATTPAD! http://www.wattpad.com/story/28432757-cortocircuito
E UN GRUPPO PER VOI LETTORI! (tutte le newsss quiii! Tutti gli spoiler! Tutto, tutto, tutto! Non lasciatemi da sola u.u) https://www.facebook.com/groups/739028276178619/?fref=ts
   
 
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