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Autore: Clairy93    28/01/2015    6 recensioni
[Seguito di “Mi avevano portato via anche la luna”]
Trieste. 1950.
La guerra è terminata ma quella di Vera Bernardis è una battaglia ben più difficile da superare. E’ sopravvissuta all’abominio dei campi di concentramento, è divenuta un’acclamata scrittrice e ora ha una famiglia a cui badare.
Ma in certi momenti quel numero inciso sulla sua carne sembra pulsare ancora e i demoni del suo passato tornano a darle il tormento.
Situazioni inaspettate sconvolgeranno il fragile mondo di Vera ponendo in discussione ogni cosa, anche se stessa.
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mi avevano portato via anche la luna'
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Sussulto, appena lo strillo gracchiante della campanella irrompe nella quiete di questo pomeriggio nuvoloso.
La panettiera dai capelli arruffati, quella che per assurdo ho appreso essere la zia di Massimo, esce svelta dal suo negozio chiudendolo a chiave. Calando la pesante saracinesca, la donna si volta e incrocia la mia espressione, tesa e vigile.
“Non ti sei mossa da lì, non è vero?”
Sollevo le spalle, accennando un sorriso colpevole.
Perché ha ragione.
Da quando la signora Riva mi ha offerto di accompagnarmi da Massimo, mi sono seduta su questa panchina e qui sono rimasta.
La mia mente ha iniziato a viaggiare per poi perdersi in intricate e spaventose costruzioni mentali, rimanendone aggrovigliata fino a non riuscire più a distinguere il confine tra realtà e illusione.
Un paio di volte mi sono persino alzata per andarmene, troppo spaventata dal solo pensiero di rivedere Massimo e leggere nei suoi occhi la più avvilente indifferenza.
Eppure sono ancora qua. Perché questa volta non posso scappare. Mi sono confinata per troppo tempo nell’oblio dell’indecisione e, per quanto ne sia terrorizzata, è giunto il momento di una svolta.
“Non ci siamo ancora presentate.” dichiaro io, porgendole la mano “Mi chiamo Vera Bernardis.”
Lei strabuzza gli occhi sorpresa, poi il suo volto s’intenerisce.
“Finalmente ti conosco! Ero curiosa di dare un volto alla fanciulla dei racconti di Massimo.”
“Le ha parlato di me?”
La donna annuisce decisa.
“Sei la ragazza che ha salvato da Mauthausen.”
Distendo appena le labbra in un sorriso.
Un semplice gesto che mi richiede un immenso sforzo perché, ogni volta che sento quella parola infernale, un brivido gelido mi attraversa.
“Io sono Amelia.” riprende lei, spezzando il silenzio calato tra noi “Sono la sorella del padre di Massimo.”
Ora capisco perché i suoi occhi mi avevano tanto colpita.
Sono gli occhi di Massimo.
L’auto della signora Amelia, una Fiat 500 di un giallo sbiadito, è parcheggiata a pochi metri di distanza.
Con un cenno del capo, la donna m’invita ad entrare.
L’abitacolo è piuttosto angusto, ma ordinato ed accogliente e pervaso da un gradevole odore di pelle.
“Ha una bella macchina.” affermo in fin di voce, tanto che temo non mi abbia udito.
“Mi fa piacere!” risponde invece lei, entusiasta “E’ di mio marito. Ma non la usa mai. Preferisce andare a piedi lui! Mah! Io, personalmente, adoro guidare. E’ rilassante. E qualunque posto tu voglia raggiungere, puoi farlo.”
La signora Amelia introduce la chiave nell’apposita serratura, ma gira a vuoto e gli insoliti rumori che provengono dal cofano non sono rassicuranti.
“…A meno che la tua macchina abbia deciso di non voler collaborare…” mormora lei, a denti stretti, tentando stizzita di mettere in moto.
E finalmente, l’auto si accende e possiamo immetterci nel quieto flusso delle strade triestine.
Vorrei dire qualcosa, qualsiasi cosa. Fare una battuta o una banale osservazione sul cielo grigio sopra le nostre teste. Ma oltre a danneggiare le cuticole delle mie dita, non riesco a proferire parola.
Mi limito ad osservare il crocifisso intarsiato appeso allo specchietto retrovisore.
“Ti piace?” mi domanda.
“Come dice?”
“Il rosario.” Amelia indica con l’indice il ciondolo “Viene dal convento della Madonna di Rosa, a Pordenone. Ce lo regalò mia madre, uno a me ed uno a mio fratello.”
“Dove sono i genitori di Massimo?”
“Sono morti, tanti anni fa. La madre era armena, fu vittima del genocidio del ’16 in Turchia.”
Amelia sterza all’improvviso, imboccando una curva forse con troppa velocità.
“Massimo non ti ha mai parlato della sua famiglia?”
Scuoto il capo, e chino lo sguardo avvilita.
“Non te la prendere, non è mai stato di grandi parole sull’argomento.” mi rinfranca lei, dandomi una lieve pacca sul braccio “E’ ancora difficile per lui conviverci. Sai, mio fratello non fu un padre molto presente. Una volta perduta sua moglie, qualcosa morì in lui. Purtroppo, me ne resi conto troppo tardi…”
I suoi occhi neri si coprono di un velo di tristezza, ma strofina rapida la manica del maglione per asciugarli.
“Comunque. Io e mio marito ci siamo occupati di nostro nipote. E’ cresciuto con noi.”
Il suo racconto, seppur breve, mi turba profondamente.
Obbligarla però ad addentrarsi nei particolari, sarebbe un atto di vile insensibilità da parte mia. Parlarne la fa stare male. E forse sappiamo entrambe che non dovrebbe essere lei a raccontarmi la vita di Massimo...
“Ma mio nipote non si è mai buttato giù.” dichiara però Amelia con fermezza, tirando su con il naso “Il fatto che Massimo non ne parli può indurre a credere che non gli interessi, invece è una realtà con cui fa i conti ogni singolo giorno. Tuttavia non ha mai desistito, si è arruolato, è diventato tenente ed è un grande lavoratore. Insomma, da sposare!”
Rido di rimando alla sua sbirciata ammiccante.
“So cosa vuol dire.” dico, ammirando i campi scorrere fuori dal finestrino “Perdere qualcuno e dover trovare comunque la forza di rialzarsi.”
“Avete due caratteri forti, tu e Massimo. In modi diversi, emerge una grande tenacia dai vostri sguardi.”
Arrossisco.
“Grazie. E’…un bel complimento.”
Amelia mi rivolge un ampio e luminoso sorriso.
“Sei così piacevole che non mi sono nemmeno accorta di avere un’estranea nella mia macchina! Raccontami un po’ di te Vera. Dimmi, com’è che sei diventata tanto amica di Massimo?”
E così iniziamo a parlare. Di lei, di me, di Massimo, colmando con una naturalezza impensabile tutti i vuoti di silenzio. Chi avrebbe detto che dopo un primo momento d’imbarazzo, riuscissi a sentirmi così a mio agio.
“Signora Amelia?”
“Solo Amelia cara.” dice “Non mi sento ancora così vecchia.”
“Volevo dirle grazie. Davvero.”
Lei distoglie per un secondo lo sguardo dalla strada.
E strizza l’occhio.
“Non c’è di che tesoro.”

Dopo un tragitto piuttosto tortuoso, con curve strette e stradine pericolanti, giungiamo ad una cascina che si staglia imponente nell’aperta campagna.
L’auto si arresta bruscamente prima del viale d’ingresso.
Ma malgrado la lontananza, è facile riconoscere il viso dell’uomo che sta spostando le balle di fieno.
Porto una mano alla bocca. Il cuore mi sta esplodendo in petto.
Sobbalzo quando Amelia posa una mano sulla mia gamba, sfoggiando un sorriso rassicurante.
Ma continuo a sentirmi un pezzo di cemento.
Amelia esce fulminea dall’auto ed io, con movimenti incerti ed impacciati, la seguo richiudendo la portiera con mano tremante.
“Ciao Massimo!” grida lei, agitando le braccia al cielo.
Il gesto energico di Amelia, attira subito l’attenzione di suo nipote. Massimo appoggia un mucchio di fieno, si asciuga la fronte con il dorso della mano e ricambia il saluto della zia.
Ma si pietrifica, vedendomi al fianco della signora.
Amelia raggiunge svelta il nipote. Posa una mano sulla sua spalla e prima di dirigersi verso casa, gli sussurra qualcosa che però non capisco.
Così mi dirigo verso Massimo, abbozzando un sorriso poco convincente dato l'irrefrenabile tremolio delle mie gambe.
La maglietta che indossa aderisce perfettamente al suo petto sudato.
Abbasso il capo per riporre l’attenzione sui suoi stivali di gomma, ricoperti da fili di paglia.
“Come stai?” mormoro, alzando gli occhi.
Il suo sguardo è indecifrabile, una maschera inespressiva.
“Non saprei.” risponde lui “Sconvolto credo sia la parola giusta.”
Primo pugno, dritto allo stomaco.
Ma incasso.
E’ arrabbiato, non potevo aspettarmi altrimenti.
“Sono andata alla Caserma questa mattina. Mi hanno detto di non averti più visto. Pensavo avessi lasciato Trieste.”
“In città non c’era più niente che mi spingesse a restare.” constata con voce atona “E ad essere sincero, mi ero stancato delle domande dei ficcanaso.”
Secondo pugno. Fa ancora più male del primo.
Se Massimo si è sentito assillato, è stato anche per causa mia. Per la mia relazione con Filippo, per la mia partenza avventata.
“Tommaso come sta?”
La sua domanda mi coglie in contropiede.
“Sì…bene. Lui sta...benissimo.”
“Quanti anni ha adesso? Sette?”
“Quasi sette, sì.”
La tensione tra noi è così palpabile da poter tagliarla con un coltello.
“Cosa ci fai qui Vera?”
Alla sua domanda mi ravvivo, sentendomi pervadere da un ardore così trascinante da persuadermi che questa è l’occasione per essere davvero sincera con Massimo.
“Avevo bisogno di vederti. Sentivo che venire qui era la cosa giusta da fare. So di essere andata via all’improvviso e, me ne rendo conto, senza una reale spiegazione. Ma mi sei mancato, moltissimo. Più di quanto avrei potuto immaginare. Vorrei solo avere la possibilità di rimettere insieme i pezzi.”
Ma il mio entusiasmo precipita, esaminando la sua espressione sdegnosa.
“Fammi capire.” mormora lui, sfregandosi la corta barba “Decidi di partire, gettando l’opportunità di ricostruire qualcosa insieme, e mi fai capire piuttosto chiaramente che di me, non ti importa niente. Non ti fai sentire per due anni, né una lettera né tantomeno una visita. Poi un bel giorno, ricompari alla porta di casa mia. E speri che tutto torni come prima?”
“No, lo so che non è possibile ma pensavo che noi…”
“Pensavi cosa, Vera?!” erompe lui “A cosa stavi pensando quando hai fatto le valigie e mi hai lasciato qui come un coglione?”
“Avevo appena perso Filippo, stavo male. Ero confusa, avevo bisogno…”
“Ho già sentito queste parole.” m’interrompe bruscamente “Mi è dispiaciuto per Filippo, davvero. Ma perché scappare? Perché, cazzo? Ho trascorso giorni interi a chiedermi se fosse stata colpa mia, se avessi fatto qualcosa per allontanarti. E sai alla fine, cosa ho capito?”
Massimo leva gli occhi al cielo, iniettati di rabbia e veleno. Poi mi scruta, con uno sguardo di ghiaccio, puntando un dito minaccioso contro di me.
“Non te ne importava niente.”
“Questo non è vero!” obietto “Non sarei qui!”
“Dopo due anni?!” la sua voce, colma d’odio, sovrasta prepotente la mia ed arretro impaurita “Pensi davvero basti così poco? Potrei essermi rifatto una vita! A questo non hai pensato?”
“S-stai…Tu stai con qualcuno?” biascico, guardando da un’altra parte.  
“No, non c’è nessuno.” mormora lui “Ma questo non cambia niente. Io non riesco a perdonarti.”
“Massimo mi dispiace…”
“E’ tardi per le scuse Vera. E’ davvero troppo tardi.”
Massimo si allontana, con la schiena china e i pugni stretti, rintanandosi rapido nella stalla.
Mordo con forza il labbro inferiore, tanto da percepire in bocca il sapore metallico del sangue.
Il cielo nel frattempo è diventato di un nero minaccioso e odo in lontananza il boato di un tuono. Una raffica di vento si solleva all’improvviso, scuotendo la paglia ai miei piedi e inclinando spaventosamente le chiome degli alberi.
Mi stringo forte nelle spalle, illusa di poter ancora tenere insieme i brandelli in cui il mio animo si è ridotto.
Guardo disperata il cielo, mentre le mie lacrime si confondono con la pioggia.
La signora Amelia si avvicina, sconquassata dal vento, e mi passa un braccio attorno alle spalle.
“Vieni dentro cara.”
“No! La prego, mi riaccompagni in città.” imploro tra i singhiozzi “Devo prendere il mio bagaglio e andare in stazione…”
“Vera, sta arrivando un brutto temporale. Non è sicuro scendere con la macchina.”
La guardo confusa e stremata.
“Voglio solo tornare a casa. La prego Amelia, mi dia un passaggio.”
“No cara. Tu rimani qui. Il temporale passerà presto, vedrai.”
Non ho nemmeno la forza di replicare.
Sono fradicia e sto tremando.
Il tepore che mi pervade appena entrate in casa mi è un minimo di conforto.
Saliamo le scale e Amelia mi scorta fino ad una piccola camera da letto.
“Ora ti do dei vestiti asciutti.” afferma, spalancando l’armadio all’interno della stanza “Mia figlia deve aver lasciato qualcosa, penso abbiate più o meno la stessa taglia.”
Ne tira fuori degli abiti che getta sul letto.
Poi mi porge un asciugamano accuratamente piegato.
“Quando ti sei sistemata, scendi per la cena.”
Ma prima di chiudersi la porta alle spalle, aggiunge: “E non voglio sentire scuse. Ho fatto il polpettone e non permetto a nessuno di rifiutare il mio polpettone.”
Amelia sfugge via, senza lasciarmi il tempo di oppormi.
Prima di tutto levo questi vestiti umidi e fastidiosi. La sensazione di asciutto sulla pelle è decisamente più gradevole.
Mi siedo ai piedi del letto, frizionando i capelli con enorme lentezza, mentre osservo le gocce di pioggia scivolare sui vetri della piccola finestra.
Al fine mi decido a raggiungere Amelia.
Stare da sola, al momento, mi spaventa troppo.
Scendendo le scale, rischio tra l’altro di inciampare un paio di volte, per la scarsa luce esterna ma soprattutto per la gonna troppo lunga.
“Vera? Tutto bene?”
Il mio trambusto deve aver allertato Amelia. Ma almeno la sua voce mi permette di capire da dove proviene e posso raggiungerla in cucina.
“Vieni cara!” mi accoglie lei, con un caloroso sorriso “Giusto in tempo! Vedrai come starai meglio dopo aver messo qualcosa di caldo nello stomaco.”
Di Massimo, neanche l’ombra.
Molto titubante, mi siedo al tavolo.
Amelia posa due fette di polpettone e un’abbondante cucchiaiata di purè sul mio piatto. Al solo vedere tutto quel cibo mi sale un groppo alla gola che mi sforzo, comunque, di mandare giù.
“Mio marito è via per lavoro. ” dichiara lei, nel tentativo di instaurare una conversazione.
Ma io mi limito ad un cenno del capo.
Sono troppo agitata. Temo che Massimo possa entrare da un momento all’altro.
“Massimo mangerà più tardi.” Amelia sembra aver notato la mia inquietudine “Deve finire di strigliare i cavalli.”
Esalo un sospiro, posando tristemente lo sguardo sul mio piatto.
Afferro la forchetta e la infilzo con eccessivo vigore nel polpettone.
   
 
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