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Autore: darkmoon94    29/01/2015    1 recensioni
"Non ero mai stata capace di farmi degli amici. Mai. Avevo solo un amico d’infanzia e me lo tenevo stretto. È grazie a lui che ho conosciuto quel mondo. Un mondo pieno di colori e forme e quello strano odore di vernice."
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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La mia vita in quella classe non era cambiata per niente, neanche dopo la "bella chiacchierata" con Alex. Continuavo a starmene per i fatti miei, a disegnare, ad ascoltare musica. Sempre la solita vita. Nessun invito ad uscire, nessuno che mi chiedesse come mi andava la vita. Niente di niente. Una calma così piatta che i fogli del mio blocco da disegno, a confronto, erano di un'allegria che non si riesce a tenere a bada. Ero così. Ero quei fogli di carta, quelli bianchi, quelli così vuoti che quasi ti viene il panico a disegnarci su. Io avevo  paura che qualcuno si accorgesse di me, che volesse disegnare su di me i segni del suo passaggio. Che volesse imprimersi nel mio cuore. Avevo paura. Luke lo sapeva, sapeva di questo terrore che mi bloccava, che mi impediva di fare amicizia, di aprirmi agli altri. Lo sapeva e mi era comunque amico.

-“ Devi scioglierti un po’, Azzurra. Altrimenti non capirai mai quant’è  bella la vita.” – Quelle parole ormai erano impresse nella mia mente, un’omelia quotidiana, la sua.
-“ Luke, lascia perdere. Non fa per me, lo sai” – La mia risposta, un’altra omelia quotidiana. Eravamo così, lui cercava di aiutarmi e io distruggevo tutti i suoi tentativi. Lui cercava di ricostruirmi, io mi ritrovavo a distruggermi dentro, ancora.
-“ Sei esasperante! Basta, stasera te ne vieni con me. E non è una proposta!” -  non mi disse nient’altro.

Luke era così: se decideva che dovessi uscire, dovevo uscire e basta. Nessuna scusa, nessun compito per il giorno dopo. Lui si presentava sotto casa mia e mi tirava fuori dalla mia stanza/tana a forza. Non dovevo sapere dove saremmo andati, o che cose avremmo fatto. Era così e mi facevo andare bene la cosa. Quella sera mi sarebbe passato a prendere alle 21, subito dopo cena. Avevo detto ai miei che sarei uscita con lui dopo cena e che andavamo al Corso a prendere qualcosa. Per tutta risposta, i miei non batterono ciglio. Tradotto: potevo andare. Ero nelle mani sicure di Luke. Prima di sedermi a cenare insieme ai miei genitori, il cellulare si illuminò, come preso da una vita sua. Mi avvicinai e vidi un messaggio: Luke.

Vedi di metterti qualcosa di nero, o di scuro. Sentiti Batman, insomma.

‘ “Sentiti Batman” eh? ‘ pensai quasi automaticamente. Non avevo capito il motivo per cui dovessi indossare roba nera, o scura. Sapevo solo che se fossi spuntata giù con qualcosa di colorato mi avrebbe uccisa e, dunque, decisi di obbedire silenziosamente a quell’ordine mandatomi via sms. Presi la felpa enorme dall’armadio. La mia felpa preferita. L’aveva presa mia madre ma aveva sbagliato misura, o meglio era andata a pescarla proprio nel reparto maschile del negozio. Il cappuccio di quella felpa era talmente enorme che avrebbe potuto coprirmi anche l’intero viso. Presi anche un paio di jeans scuri e indossai le mie solite scarpe: Adidas nere. Presi anche uno dei zainetti che avevo comprato qualche anno fa, anche quello nero, e infilai portafoglio, matite, mini blocco da disegno, cuffie e cellulare. Niente giacca, visto che non ne avevo neanche una nera. Capelli sciolti, ancora con le punte bagnate che inzuppavano il colletto della felpa, e il telefono squillò. Più che altro vibrò una volta sola: Luke era già sotto. Presi lo zainetto e, mentre mi avviavo verso la porta, presi anche un paio di elastici, non si sa mai. Diedi una sbirciata all’orologio appeso in cucina: 20.58. Salutai velocemente i miei che ricambiarono con un sorriso e scesi volando le scale. Avevo sempre pensato che Luke dovesse avere degli antenati svizzeri: sempre troppo puntuale agli appuntamenti. Non che quello lo fosse realmente. Non quel tipo di appuntamenti, perlomeno. Era solo un’uscita tra due amici di infanzia. “Per sentirsi liberi”, come mi aveva detto lui. Aprii il portone e lo vidi lì fuori. Il motorino di Luke era parcheggiato di fronte al porto e lui, poggiato, che aspettava. Notai subito che, anche lui, era vestito di nero e aveva con se una sacca, una di quelle borse strane che avevo sempre odiato.

-“ Era ora, lumaca” – Mi fece segno di salire e io, ovviamente, mi avviai verso il motorino.
-“ Sta zitto e passami il casco” – Teneva sempre con se due caschi: il suo, decorato da lui stesso, e il mio. Me lo aveva regalato per il mio compleanno e che avevo decorato con disegni strani ma a me piaceva. Mentre salivamo entrambi sul motorino, sentii uno strano tintinnare dentro quella sacca. Non sapevo cosa potesse esserci dentro anche se aveva un suono familiare. Conoscevo Luke e non riuscivo a ricollegare quello strano rumore al Luke che conoscevo io. Lui mi guardò per qualche istante, come ad assicurarsi che non avessi capito nulla, ma decisi di non farci poi molto caso. Infilai il casco e lui il suo, accese il motorino e partimmo per non so dove. Mi piaceva andare sul motorino. Mi piaceva l’aria che ti veniva incontro, che colpiva ogni singola parte di te. Mi piaceva la sensazione di libertà che ti dava, come se potessi fare qualsiasi cosa, come se il mondo fosse nelle tue piccole mani sporche di matita o di altri colori. Lo adoravo, davvero, ma i miei non mi avevano mai permesso di avere un motorino tutto mio e mi permettevano di salire su quello di Luke perché, appunto, c’era lui.

-“ Quindi, vuoi dirmi dove stiamo andando?” – Cercai di farlo cedere.
-“ No. Vedrai appena arriviamo. Sono sicuro ti piacerà” – Ridacchiava. Sentivo la sua schiena scossa lievemente. Stava ridacchiando e dentro me montò la rabbia. Odiavo non sapere le cose, odiavo stare sulle spine e quella sera Luke continuava a tenermi sulle spine. Piegò leggermente il motorino per prendere una curva e poi svoltò a destra. La strada era completamente al buio, illuminata solamente da microscopici fari di alcuni motorini e da solamente un’auto. In lontananza vi era un gruppetto di persone, tutte vestite di nero , proprio come noi. Nella mia testa cominciò a farsi strada una microscopica idea di quello che stava accadendo, o meglio che stava per accadere. Il tintinnio della roba nella sacca di Luke, i vestiti neri, una strada al buio, un gruppetto di persone vestite come noi. Non riuscii a trattenere l’emozione.

-“ Ma stiamo andando a fare murales!!” – Urlai nell’orecchio di Luke che allontanò l’orecchio dalla mia faccia. Gli avevo sfondato un timpano, ne ero consapevole.
-“ Non urlare, idiota, o ci scoprono!” – Sapevo che quello che stavamo facendo era illegale, eppure mi veniva voglia di urlare dalla felicità. Avevo sempre amato i murales, tutti quei colori impressi su un muro. Colorare la città, colore la vita degli altri non doveva essere un crimine, doveva essere qualcosa da fare liberamente, a qualsiasi ora del giorno e non di notte, nascosti come ladri. Stavi migliorando il tuo microscopico mondo e anche quello degli altri, in un modo o nell’altro. Arrivati vicino agli altri, mi accorsi che tutti scherzavano tra di loro e che io, al solito, ero in disparte. Anche Luke cominciò a scherzare con gli altri e cominciai a sentirmi lasciata indietro.

-“ Ehi, Ray, ma quella chi è?” – Ray era il nickname di Luke come writer. Il gruppo di ragazzi era completamente girato verso di me. Ero al centro dell’attenzione, adesso. Non che avessi amato esserlo ma, finalmente, qualcuno si degnava di guardarmi in faccia. Qualcuno cominciava a notare anche la mia presenza.
-“ Tranquilli, ci si può fidare. È amica mia” – Luke mi sorrise come per tranquillizzarmi, o forse per tranquillizzare gli altri. A chi teneva di più, in quel preciso momento? Ai suoi amici o a me? Non capivo perché proprio quelle domande in quel momento, come se avessi avvertito qualcosa di diverso in Luke, come se non lo conoscessi più. Era lo stesso ragazzo con cui avevo condiviso ogni problema, ogni gioia? Era la stessa persona? Lasciai perdere, abbassai lo sguardo, come a tirarmi fuori da quella situazione, come a non voler disturbarlo. E lo sapevo che lui mi aveva portata lì per farmi stare meglio, per farmi conoscere un po’ il mondo che stavo lasciando fuori dalla mia vita. Un mondo a cui sentivo un po’ di appartenere ma di cui non potevo far parte. Troppo chiusa, troppo timida. Troppo di troppe cose e questo non andava bene. Ma, in fondo, i writers non sono questo? Persone che cercano di tirar fuori i propri pensieri, le proprie emozioni  attraverso i murales, attraverso quell’accostamento di colore che ho sempre cercato di imitare, di fare mio?

-“ Eh, amico, ma il suo nome possiamo saperlo? O è un segreto di stato?” – Una voce che conoscevo, ma a cui non riuscivo collegare il volto. L’avevo già sentita, non sapevo dove, però l’avevo sentita. La mia testa cominciò a non riuscire più a formulare una frase di senso compiuto, il mio cuore cominciò a correre come se fosse un cavallo impazzito. Avevo già provato anche quella sensazione ma avevo dimenticato quando. Quella voce, quella sensazione non mi erano nuove ma la mia testa, forse per proteggermi dagli altri, avevano cancellato tutto.
-“ Ehm, lei è Azzurra” – Tutti mi osservarono, o meglio squadrarono dalla testa ai piedi. Nessuna parola, nessun sorriso. Niente di niente, ancora una volta. Notai però che solamente una persona mi sorrise, oltre Luke. La stessa persona che aveva chiesto chi fossi. Forse si stava prendendo gioco di me e si divertiva pure a farmelo capire.

Finite le “presentazioni”, ci avviamo tutti verso un muro libero. Avevo preso il mio piccolo blocco da disegno e una matita quando cominciai a sentire gli spruzzi delle bombolette spray sul muro. Figure nere che si operavano di fronte ad un muro completamente vuoto. Nessuno mi stava osservando, così cominciai a disegnare alcune di quelle figure e ciò che stavano facendo. Forse non sarei mai stata in grado di creare un murales completamente mio, non avrei avuto nessun nickname da writer, non avrei mai imparato ad accostare quei colori, proprio come facevano loro. Non sarei riuscita in niente di tutto ciò ma volevo imprimere quel momento per non dimenticare quella notte, per non dimenticare quell’odore, quel rumore così clandestino. Non volevo dimenticare nulla di tutto ciò. Ognuno preso dal suo “lavoro”: loro dalle loro scritte, io dal mio disegno. Ogni tanto vedevo qualcuno girarsi verso di me e guardarmi in modo strano, come se si aspettassero che corressi da loro e cominciassi a disegnare cose a caso sul muro. Era un mondo, quello, che non mi apparteneva e cercavo di starmene nel mio, quel mondo tranquillo come l’acqua di un lago senza onde. La matita tracciava figure, linee, sfumature , su quel foglio bianco. I ragazzi cambiavano bomboletta ogni tanto e, quando poggiavano a terra quella che stavano usando, il rumore della latta che entrava a contatto con l’asfalto della strada mi faceva alzare di volta in volta lo sguardo. I miei occhi, però, seguivano una figura in particolare. Non Luke, né nessun altro. Seguivano il ragazzo che aveva chiesto il mio nome. Avevo la sensazione che quel ragazzo, in realtà, mi conoscesse per bene e che io, da perfetta stupida qual ero, non ricordavo neanche chi fosse. Vedevo quel ragazzo disegnare come se non facesse altro nella vita, come se non avesse mai fatto altro. Le linee erano perfette, l’accostamento dei colori divino. Anche il carattere della scritta era davvero particolare. Non riuscivo a non staccargli gli occhi di dosso. Luke mi si avvicinò silenziosamente e si sedette accanto a me.

-“ Scommetto che non indovineresti mai chi è quel tizio” – La voce di Luke mi riportò alla realtà e mi voltai verso di lui. Sorrideva. Le mani, coperte da guanti in lattice, erano sporche di colore. Blu oceano, azzurro, verde acqua. I suoi colori preferiti. Tornai a fissare la schiena dello sconosciuto.
-“ Dimmi allora chi è, semplice no?” – Volevo saperne di più. Volevo sapere tutto di quel ragazzo, di quelle linee che tracciava, di quei colori. Luke mi studiò il mio viso e scosse un po’ la testa, come a dire “sei senza speranze, ragazza”. Lo ero, in verità. Io e la speranza non avevamo mai convissuto, anzi, non ci eravamo mai incontrare in tutta la mia vita.

-“ Lui è Feather. Ma scommetto che vuoi sapere il vero nome, non è così?” – Luke aveva centrato il vero bersaglio della mia domanda. Luke capiva sempre cosa intendessi nelle mie domande. Mi conosceva bene, davvero bene.
-“ Non dovrei saperlo?” – Sapevo che se fossi stata troppo diretta Luke non mi avrebbe detto nulla. Così decisi di “girarci intorno”, in modo da farmi dire tutto.
-“ Beh, in teoria già lo conosci, però non credo abbiate mai parlato” – Non era qualcuno con cui avevo parlato, vedi che indizione che mi aveva dato. Io non parlavo mai con qualcuno che non fosse Luke. A parte quella mattina. A parte la chiacchierata con Alex. Pensare a quel nome mi fece, diciamo, andare in tilt. Cuore di nuovo a mille, testa persa chissà dove. Di nuovo quella sensazione. Era qualcosa di snervante, per me, cominciare a perdermi pensando solo al nome di una persona. Ma io non avevo raccontato a Luke di quella mattina, di Alex che mi aveva rivolto la parola. Di quello spocchioso figlio di papà che si era seduto di fronte a me e aveva cominciato a rivolgermi domande stupide. Riflettendoci ancora una volta, non avevo capito il perché di quelle domande. Perché solo dopo quattro anni? Sospirai pesantemente, come a lasciar uscire fuori dalla mia testa quelle domande che mi stavano tormentando da qualche giorno. Luke non ne sapeva niente perché non avevo dato molta importanza a quella mattina. Non era importante che Alex mi avesse parlato, non lo era per niente. Lui si atteggiava a personcina gentile e premurosa verso tutti, ma in realtà era solamente una persona falsa.

-“ Luke, io non parlo con nessuno tranne te, lo sai. Quindi vedi di dirmi questo nome” – Troppo diretta. Ero stata troppo diretta e lo avevo detto a voce troppo alta, perché il ragazzo, Feather, si voltò e cominciò a fissarci. Quel viso nascosto, stavo cominciando ad odiarlo, davvero. Volevo sapere chi fosse, a tutti i costi.
-“ Ehi, Ray, perché non fai provare alla ragazzetta a disegnare un po’? Sembra un’asociale di merda, messa lì a fissarci. È il nostro secondino, per caso?” – Quella voce, di nuovo. Non badai alle offese, non ci avevo mai fatto caso. Ma quella voce era fastidiosa, quel tono era fastidioso. Non ero mai stata una persona impulsiva ma lo diventai in quel preciso istante. Ricordo ancora la faccia sconvolta di Luke. Mi alzai di scatto, mollando a terra blocco e matita. Mi diressi verso Feather in modo deciso, come se le mie gambe conoscessero perfettamente la strada. Sentivo gli occhi di tutti addosso. Gli occhi di Feather, degli altri,di Luke e anche del mondo intero. Tutti osservavano me. Io, una ragazza che aveva sempre evitato di stare al centro dell’attenzione, io che avevo sempre evitato il mondo. Questa me che si nascondeva, adesso stava andando a mostrare il suo volto, andava a mostrare la forza che aveva sempre celato. Io stavo sfidando Feather e a viso aperto. Presi la prima bomboletta che mi capitò a tiro, azzurro. Era la bomboletta di Luke. Mi misi accanto a Feather , in uno spazietto bianco tra il suo lavoro e quello di qualcun altro.

-“ Disegna qualcosa, coraggio.” –

Scattò qualcosa in me. Vidi un’ immagine che mi era rimasta impressa. Due occhi, dello stesso azzurro che avevo in mano. Lo stesso azzurro che faceva impallidire il cielo. Mi guardai intorno, alla ricerca di un colore vagamente vicino al color carne. Volevo disegnare i suoi occhi, quegli occhi che, quella mattina, avevano guardato me.
Corsi verso un ragazzo poco lontano da me e gli fregai la bomboletta rosa, poi presi la bomboletta nera di Feather e cominciai a disegnare. La mia mano, adesso, non scorreva su un foglio bianco. Il mio piano di lavoro, quella sera, era un muro. Era la prima volta che disegnavo su un muro, su un qualcosa che non fosse un foglio o il mio banco. Cominciai dalle pupille, da quell’azzurro che mi era rimasto dentro, che aveva segnato il mio cuore. Lo sfumai per bene, e non credevo di riuscirci, di essere capace a fare qualcosa del genere. Pian piano gli occhi diedero forma ad un volto e non riuscii a fermarmi più. Il suo volto, stavo disegnando il suo volto, proprio come nel mio blocco da disegno, quello che portavo a scuola. La linea del naso, quella linea che conoscevo a memoria. Le sopracciglia, le palpebre. Stavo disegnando il volto di Alex su quel muro, partendo dai suoi occhi. Non notai per niente le facce sconvolte di tutti gli altri. Ero immersa completamente nel mio disegno, nel mio obiettivo. Il mio cuore andava a mille, sentivo il sangue pulsare frenetico lungo la carotide, lungo il collo. La testa che progettava l’opera, le mie mani che eseguivano il tutto e i miei occhi non avevano più davanti né il muro, né il disegno. Avevo davanti Alex, avevo davanti a me i suoi occhi. Uno dei ragazzi, spostandosi verso dietro, urtò una delle bombolette che cadde. Quel rumore, il rumore della latta che urta terra, mi riportò alla realtà e smisi di “dipingere”, di mostrare le mie emozioni a tutti. Non avevo disegnato le labbra, né le rughe della fronte di Alex. Solo occhi, zigomi e lineamenti del naso. Come una foto zoomata solamente su una parte del viso, quella che avevo notato quella mattina.
Mi allontanai dal muro, avevo il fiatone, tremavo e avevo le mani sporche di colore. Non avevo indossato i guanti. C’erano le tracce del mio crimine, se così si poteva chiamare. Tutti gli altri mi guardarono con un misto di paura e rispetto, adesso. Alcuni sorridevano, Luke era tra questi. Aveva sempre cercato di farmi disegnare su un muro, ma avevo sempre rifiutato per via della mia insicurezza. La voce di Feather aveva distrutto quel muro che avevo sempre costruito e imposto tra me e il mondo.

-“ Diamine, sei una bomba, ragazza!” – Mi si avvicinò uno del gruppo. Era piuttosto bassino, quasi la stessa altezza di un ragazzetto del primo anno di liceo. Lo guardai stupita. Nessuno si era mai avvicinato a me per parlarmi con tanta naturalezza, come se ci conoscessimo da una vita.
-“ Gr-grazie” – Non riuscivo a parlare. Metti l’emozione per quello che avevo appena fatto. Metti il fiatone, perché ero sicura di aver smesso di respirare mentre disegnavo.

Sentii la risata di tutti. Era come essere in famiglia. Anche se non mi conoscevano, anche se non sapevano niente di me, adesso mi sentivo a casa. Era il mio mondo quello, lo sentivo. L’unico che non rise fu Feather. Adesso non faceva più lo spaccone e sentivo che era strano, quasi arrabbiato e sconvolto allo stesso tempo. Luke mi si avvicinò tutto contento e mi mise un braccio sulla spalla, al suo solito. Si stavano complimentando tutti per la roba che avevo appena disegnato e io stavo cominciando scrollarmi di dosso la mia insicurezza quando anche Feather si avvicinò a lui. Non disse nulla, applaudì solamente e calò uno strano silenzio in tutto il gruppo. Molti lo guardavano trattenendo le risate, altri come se avessero qualcosa da dire, ma tacevano, tacevano tutti, anche Luke. Quando Feather finì di battere le mani, si tolse uno dei guanti in lattiche sporchi di vernice e, con la mano libera, abbassò il cappuccio che copriva quel volto.

Non sapevo che fare, non sapevo cosa dire. Ero immobile. Sapevo solamente che non avrei mai scordato quella sera. Lo stupore, la gioia, la paura, la rabbia e tutte le altre emozioni che scorrevano in me.  Non avrei mai scordato quel volto, quegli occhi.
Mai. 
  
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