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Autore: Sottopelle    01/02/2015    0 recensioni
"Falene sugl'occhi" rappresenta la solitudine di una persona la cui vita viene man mano consumata dai vizi ed i peccati che ormai fanno parte della nostra routine quotidiana; è un viaggio che analizzerà il mondo odierno attraverso gli occhi di chi è nato e cresciuto nel degrado della città dei nostri giorni, fatta di apparenze piacevoli ma che nascondono verità ben più drammatiche, al limite del tragico. Un pellegrinaggio interiore che probabilmente, e lo dico con sincerità, non ha un capolinea preciso, ma non è forse l'ignoto a rendere l'esplorazione più emozionante?
Genere: Introspettivo, Satirico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Ogni storia, sostanzialmente, inizia da un: “rottura dell’equilibrio”. C’è bisogno del caos per avere qualcosa da raccontare: è il male che parla, scrive libri, canzoni, poesie muove le bocche, i cuori, le menti. Una persona felice non scriverebbe mai un libro intero sulla sua schifosa felicità.
In tutto ciò, nella mia stupida storia, in questa notte fredda, l’unica cosa di cui posso assicurarvi l’effettiva rottura sono le mie palle, qualora ne avessi.  Anche se mi ritengo abbastanza donna da esser convinta di non possedere testicoli. Che poi, nel corpo umano, non sono le uniche coppie di organi di forma all’incirca-sferica. Una donna ha le ovaie, le tette, i globi oculari, ad esempio, dunque quando si allude a “palle” il pensiero non dovrebbe rivolgersi subito ed immediatamente ai genitali maschili. Alla forse sì, le palle me le sono rotta veramente, stasera. Che però rimane pur sempre un modo di dire, dopotutto non rinuncerei mai al mio lato A, seppur sempre troppo scarso.
Finita la mia contemplazione dei disegni informi tracciati dal fumo, faccio nuovamente ingresso in quel buco di culo noto a tutti come “Dixie”. Non ci metto molto ad individuare i due fanciulli che mi hanno condotta e scaricata qui, bisogna ammettere che sono entrambi fin troppo facili da riconoscere, uno nel suo stato catatonico permanente e l’altra in preda a delle pseudo-convulsioni che la spingono a dimenarsi come se stesse bruciando lì sul posto. È gratificante potersi considerare come l’unico essere pensante tra bestie da ballo.
Osservazione numero uno: l’esemplare di Johan-uomo-vodka transita nelle remote zone dei bagni attorniato da altri suoi simili uomini-vodka. Potrei seriamente prendere in considerazione l’idea di andare a fare la presentatrice di documentari scientifici su qualche canale che non si fila mai nessuno nemmeno di striscio. O magari lavorare in uno zoo. E parlandoci chiaro, a volte vivere qui sembra veramente di stare allo zoo, solo che non esistono i movimenti di ambientalisti né tantomeno ecoterroristi armati di astrolite e nitroglicerina a difendere le “povere bestie” che alla fine è il genere umano.
A circa cinque metri di distanza invece c’è Anna, vittima della frenesia del posto e di qualche bicchiere di tequila di troppo, tra altri esseri alterati da sostanze più o meno illegali. Pare che qui si divertano tutti più di me.
Torno fuori: fuori ancora nevica, fuori ancora c’è qualche stralcio di silenzio, fuori ancora il mondo sembra avere un senso che non sia il raggiungimento di uno stadio mentale dove tutto perde ogni suo significato, fuori ancora il mondo sembra avere mente propria, le persone con capacità di pensiero che vanno al di fuori della squallidissima routine: “Alcol, droga, discoteca, sesso”. Dove ancora dimostrano di avere un qualcosa di umano.
C’è qualcosa di divertente nel come la mente umana possa elaborare alcune idee in tempi minimi che subito ci appaiono le più giuste, ma che una volta prese, con il lungo andare, si dimostrano non essere le migliori. Ed è proprio in questo esatto momento, quello in cui ci sono io che fisso il nulla e il mio cervello che si muove con i suoi ingranaggi offuscati dalla nicotina, che mi decido a lasciare il degrado sotto forma di night club per cercare un habitat migliore.
L’aria notturna è una frustata in pieno viso e io non sento dolore, non sento più nulla e mi va bene così: tra il dolore e l’insensibilità, quest’ultima prevale senza ombra di dubbio. La strada sembra una scia di vomito nero, umida, marcia come la gente che ci cammina sopra.  Marcia come la sottoscritta che ci cammina sopra.
Dieci metri, semaforo, gira a destra, avanti una trentina di metri e poi svolta a sinistra; la mia meta? Una panchina. Un po’ pericolante, forse, ma le mie orecchie sembrano apprezzare comunque il tentativo di allontanamento dal presunto caos a cui sono appena sopravvissuta.
A tre metri di fronte a me c’è un parapetto: oltre il parapetto dell’acqua, oltre l’acqua semplicemente dell’altra acqua, per poi essere sostituita da altra acqua e poi non riesco più a distinguere nulla. Acqua nera come l’aria che respiro ora che con indice e medio giocherello con una sigaretta accesa e nell’altra mano cerco di scaldarmi con l’accendino in perfetto stile senzatetto. Non mi considero un’asociale, non fuggo dalle discoteche perché temo il numero di suoi frequentatori e i contatti umani: è il loro scarso quoziente intellettivo [perché offuscato dall’alcol, si spera] a farmi desistere. Non è che io mi consideri una persona chissà quanto intelligente, ma vorrei avere a che fare con gente che sappia dire altro oltre che: “Che figa che è quella/che pezzo di sesso che è quello/me la farei subito/gli farei un pompino”. Sono abbastanza pretenziosa quando si tratta di relazionarmi con qualcuno al di fuori di me.
A giudicare dall’altezza della luna, del livello del mare, della frequenza con cui passano le auto rilasciando monossido di carbonio che si depositerà come un cancro nel mio respiro già pesante, a giudicare dal freddo che sento e il calore rilasciato dal mio corpo sulla panchina, non saprei fare una stima precisa dell’ora attuale. So solo che è tardi e le stelle stanotte non si vedono, e in tutto ciò sento la necessità di accendere un’altra sigaretta.
C’è qualcosa di estremamente piacevole nel ripetere continuamente gesti che risultano per noi essere familiari, la sensazione che ci sono cose che non cambieranno e che non saranno mai fonte di incertezze e liti, disagi e rabbia a meno che essi non verranno a mancare, uno delle tante tessere che compongono la nostra routine e del quale non sapremmo fare a meno. Ed è il fumo mischiato al gelo, adesso, ad essere l’abitudine che sto cercando, a farmi sentire un po’ meno sola e un po’ meno triste. Una consolazione tra le delusioni.
Dopo un tempo indefinito fatto di furgoni e automobili transitanti, mi accorgo di non essere più sola come lo ero prima. A spezzare la “quiete” di una città che non sa tacere né di giorno né di notte c’è un rumore di passi strascicati e qualche sbuffo nel mezzo.
È da un po’ che non ci si vede, dice Ingrid.
Come te la passi?, dice.
Prima mi stava per prende sotto un camion, dice.
Ridacchia, sbuffa, trascina i piedi ancora per qualche metro, si siede sullo schienale della panchina e io posso sentirne le viti cigolare come se si lamentassero del peso piuma che è Ingrid che si è appoggiato sopra. Un cumulo di ossa incastrate tra di loro, capelli, occhi e tanta capacità di urtare i nervi di qualsiasi essere che viva o respiri nel raggio di tre chilometri. Ecco cos’è Ingrid.
Dondola un po’ il piede giusto per assicurarsi che la panchina sia ancora più instabile di prima, si gratta il mento, si riallaccia una scarpa, si guarda intorno, inizia a mordicchiarsi il mignolo. Poi si gira a guardarmi.
Ma ti vesti sempre di nero?, dice. Rumori in sottofondo di lei che litiga con le pellicine dell’indice e denti che addentano il nulla.
La guardo. Lei e la sua giacca verde-cimice, i pantaloni del medesimo colore, la felpa consumata rosa, le Timberland giallo-schifo.
La guardo. Matita viola e rossetto rosso.
La guardo.
Però ho le mutande rosa.
 
 
 
 
 
 
  
 
 


Salve a tutti!
So bene che, ora come ora, la storia non ha una pressoché di piega malinconica come quella che ci si potrebbe aspettare in questa determinata sezione di racconti, ma per ora questi sono capitoli di passaggio per iniziare a inquadrare principalmente la voce narrante e i personaggi esterni; a tempo debito la storia inizierà ad assumere una piega sempre più drammatica man mano che cominceranno ad aggiungersi gli altri personaggi e a muoversi insieme. Altri verranno messi da parte per un certo periodo, ma si ripresenteranno nei capitoli sucessivi, dunque, almeno nei miei progetti, non ci dovrebbe essere un chissà quale caos nella stesura dei capitoli e l'articolazione della trama. Spero che anche nella realtà dei fatti sia così, ahah.
Che dire altro, io spero che la storia sia di vostro gradimento e rinnovo il suggerimento a coloro che hanno critiche/consigli da pormi di farmeli presenti, qualunque cosa abbiano da dire, perché mi farebbe davvero piacere ricevere qualche parere esterno. Alla prossima, fanciulli!

 
  
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