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Autore: Aleena    04/02/2015    4 recensioni
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[Urban & contemporary fantasy][Potrebbe subire modifiche di rating/avvertimenti][Linguaggio forte]
Genere: Angst, Avventura, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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We're damaged people
Drawn together
By subtleties that we are not aware of
Disturbed souls
Playing out forever
These games that we once thought we would be scared of1



Capitolo I
Il cocainomane
 
 
 


Fu solamente quando la catena cominciò a graffiargli il collo che Uriel si rese conto di essere fottuto.
Non che finora la situazione fosse stata tutta rose e fiori: era rinchiuso da almeno dieci giorni in una cella che puzzava di fumo e di piscio, un odore che gli si era piantato in gola e vi era rimasto, contaminando ogni singolo, nauseabondo pasto avesse provato a mandar giù. Non ne migliorava l’aroma. Con sua disperazione, aveva dovuto constatare che la leggenda secondo cui ai cattivi odori prima o poi ci si assuefa non era altro che questo: una cazzata. Come quella che gli aveva raccontato Antòn.
Quel russo del cazzo lo aveva incastrato. E il bello era che Uriel gliel’aveva lasciato fare.
Qualcuno gli aveva detto di stare zitto, mentre gli legava le mani dietro la schiena e lo trascinava, quasi di peso, dentro un’auto così lucida da sembrare nuova. Come in un film di serie b. Lui non aveva protestato, sapeva che non sarebbe servito: si era limitato a lasciarsi trascinare, il corpo abbandonato come un sacco privo di vita in equilibrio precario sulle gambe sottili, fin dentro la stazione e fra file di schiavi infagottati in divise nere. Non aveva fatto caso a loro. Qualcuno gli aveva chiesto le generalità e Uriel, alzando gli occhi scuri e appena vacui, aveva risposto «Fottiti!» con calma, quasi annoiato.
Il suo primo livido l’aveva collezionato lì, seduto davanti a quella scrivania di compensato nero. Un cartone dritto nello stomaco, appena sotto lo sterno, che gli aveva tolto il respiro e fatto risalire il misto di anfetamine e corn-flakes che aveva ingerito per colazione. Mordendosi la lingua, aveva rialzato lo sguardo solo per incontrare il sorriso sardonico del poliziotto.
«Ti fa male? Con tutto quello che devi avere in corpo, mi sorprende che riesci ancora a sentire qualcosa.»
Qualcuno dietro di lui aveva riso. Poi c’era stato un click sordo e la puzza del fumo, così invasiva da rischiare di soffocarlo. La ciminiera che gi stava dietro aveva soffiato un fiotto di fumo appena sopra la sua testa, avvolgendolo per un istante in una nauseabonda nuvoletta. Poi una mano era calata sulla sua spalla e l’aveva carezzata, quasi con affetto. Aveva aspettato solo un attimo, stringendo e pesandogli addosso, poi era scesa delicatamente fino al polso e quindi alla manica della giacca di pelle troppo larga, mentre l’uomo si chinava su Uriel, ammorbandolo. E poi, inaspettatamente, l’aveva sollevata, mettendo in mostra l’incavo del gomito. Bianco, liscio e intatto.
«Non è ancora del tutto andato. Ripulitelo.» Aveva ordinato con una voce arrochita che suonava familiare, lasciando andare il braccio di Uriel, che aveva ripreso a respirare. Poi era uscito, lasciandolo alle cure dei suoi schiavi – che lo avevano ammanettato e trascinato fra le file di sbarre tutte uguali e più giù, nel sotterraneo che gli ricordava tanto quei “livelli speciali” di alcuni giochi per la Xbox. Gli avevano stretto una cinghia al collo come a un cane randagio e sostituito le manette con una più pratica catena di acciaio, che gli teneva le mani boccate dietro la schiena e, con un mezzo giro che abbracciava la vita, le gambe e le palle come un serpente di ghiaccio, scendeva a bloccargli le caviglie. Così, ogni volta che respirava più forte – o urlava, o le crisi d’astinenza lo facevano tremare – le braccia si muovevano e rischiava di diventare femmina. Non era molto comodo nemmeno per mangiare: doveva strisciare verso il piatto come un maledetto gatto randagio e leccare quella merda che gli davano.
Aveva provato a lamentarsene coi suoi carcerieri: «Garçon, il servizio qui è davvero scadente, e c’è del topo nella mia minestra.» aveva detto, ridendo come un folle. Non aveva ottenuto risposta. Quelle guardie erano silenziose come sordomuti… o forse non erano nemmeno lì quando aveva parlato. Non era sicuro di cosa fosse successo durante i giorni dell’astinenza. Quando non aveva provato un dolore da farlo andare fuori di testa era sprofondato in una sorta di catalessi piena di sogni strani e visioni. Tutte ovviamente a tema prigione, morte, sangue e altre belle cose simili. Non riusciva a distinguerle dalla realtà, e nemmeno adesso era molto chiaro quali fossero sogni e quali avvenimenti. Eppure, nonostante il dolore e la puzza e la testa che faceva tilt ogni due per tre, non aveva mai pensato di essere veramente fottuto. Non come adesso.
Due poliziotti lo tenevano per le ascelle, trascinandolo più che trasportarlo, mentre un terzo dettava il ritmo della marcia con strattoni alla catena che gli stringeva il collo. Camminavano lungo un corridoio dalle pareti ocra – e come gli fosse venuto in mente il nome preciso di quell’orrendo colore neppure Uriel lo sapeva – che era troppo luminoso per essere quello di un sotterraneo di una dannatissima prigione. Illuminava vividamente le uniformi nere nei poliziotti, brillando sulle giacche lunghe e sui pantaloni scadenti. Metteva a nudo ogni cosa, e Uriel cominciò a pensare a come sarebbe sembrato a quegli agenti sotto quella luce. Un ragazzino biondo con gli occhi da bambino, il nome da angelo e il sorriso da stronzo, così lo aveva descritto una volta Antòn.
Russi del cazzo.
Sarebbe sembrato un coglione completo, lo sapeva: l’ennesimo adolescente che si fa beccare nella casa di un bravo compagno a rubare tutto quello che gli sembrava vendibile, tutto quello che poteva permettergli di farsi ancora per un giorno. Forse uno di cui approfittare, che avrebbe senza problemi dato via il culo per una sniffata -  Uriel sapeva bene che nelle carceri può succedere. Lo dicevano alla tv, no? E chissenefrega che era l’America quella che vedeva nei telefilm, se si odiavano tanto forse era perché in Russia le cose non andavano diversamente, no? Forse era proprio lì, in qualche misteriosa alcova da tortura, che lo stavano portando. O forse volevano solo sparargli un colpo in testa e buttarlo in mezzo alla neve. Succede, a volte, o così dicevano in giro.
La porta che aprirono era in tutto e per tutto anonima, e fu questo a dare il brivido lungo la schiena di Uriel. Non cigolò né si aprì su una stanza buia, ma rivelò solo un piccolo ufficio ingombro di scrivanie e catalogatori, con una bella mappa dell’ex URSS che copriva quasi del tutto la parete di fondo. Una ventola sul soffitto mandava un lieve sibilo gracchiante, certo per lo sforzo di eliminare dalla stanza l’odore del fumo – che era soffocante e pesante, troppo simile a un velo grigio. Uriel cominciò a tossire violentemente non appena l’uscio fu aperto, e puntò i piedi per terra, cercando di sottrarsi a quella tortura. «Se… se avete deciso di uccidermi questo… non è certo il… il modo… più umano.» disse, mentre suo malgrado le labbra si piegavano ad un sorriso ironico. «Tiratemi… un colpo fra le palle degli occhi e… alla prossima vita.»
Nessuno rispose, né accennò anche solo di averlo sentito. La figura che gli stava davanti era di spalle, intenta ad osservare la cartina. Aveva una giacca di un bel cotone nero lunga fino al sedere, che ne fasciava le forme asciutte, e capelli bianchi come la neve.
I due schiavi alle sue spalle cominciarono a spingerlo dentro con più forza e Uriel riprese a divincolarsi ferocemente. Allora il poliziotto che lo teneva per il collo diede uno strattone alla catena e gli altri due mollarono la presa, lasciando Uriel senza sostegno. Cadde a terra, a faccia avanti, sbattendo il naso sulla catena ancora tesa. Mentre imprecava, le due guardie dietro di lui batterono i tacchi all’unisono e uscirono, lasciando la porta aperta. L’ultimo poliziotto tese con fare marziale la catena al superiore e, quando questi ebbe allungato una mano pallida come quella di un cadavere, batté i tacchi a sua volta e uscì che Uriel era ancora a terra, cercando di trovare un filo d’aria in mezzo a tutto quel fumo, polvere e dolore.
L’uomo dietro la scrivania si sedette ed attese, accavallando le gambe come uno che stesse nel salotto di casa sua, bello rilassato, a guardare il telegiornale con la moglie. Non disse una parola.
Uriel, dal canto suo, non aveva alcuna fretta di alzarsi. Puntellò le spalle a terra con un movimento lento, cercando di far forza sullo stomaco, ma non aveva abbastanza fiato. E poi non voleva cedere per primo. Che quel bastardo si sporcasse pure le mani con lui! Se lo voleva, doveva venire a prenderlo.
Non lo fece. Si limitò ad aspettare e poi a spingere un tasto e sollevare un foglio. Poi silenzio, ancora per un minuto buono, prima che cominciassero a risuonare i passi in corridoio.
L’ombra che apparve sulla porta era massiccia, ma non in senso negativo. Si fermò al limitare della soglia per un tempo abbastanza lungo e poi afferrò la catena al collo di Uriel, usandola per sollevarlo. Il respiro si mozzò nella gola del ragazzo, che annaspò, ora fisicamente incapace di respirare.
Non durò molto. Il nuovo arrivato lo depositò quasi immediatamente sulla sedia davanti alla scrivania e lo lasciò a boccheggiare.
«Testa di cazzo.» sputò come ringraziamento Uriel. Aveva la bocca impastata di cenere e saliva, e la stanza che gli girava intorno lentamente. Stava male quasi come nei primi giorni d’astinenza, quindi non notò il fucile che pendeva dalla spalla del nuovo arrivato… almeno, non fino a quando lui glielo puntò alla tempia sinistra.
 «Non facciamo più tanto gli stronzi adesso, eh?» domandò il militare. Aveva una voce dura, da persona abituata a dare ordini e a non avere pietà. Tolse la sicura dell’arma e rimase fermo e pronto a colpire, aspettando un cenno dall’uomo dietro la scrivania. Che non si era mosso dalla sua posizione storta per metà, il viso nascosto dietro un foglio coi buchi da tutti e due i lati, di quelli che si usavano per i fax.
«Sono i risultati?» chiese il militare, allungando il collo. Girandosi appena, Uriel notò che aveva capelli lunghi e lisci che gli arrivavano fino alle spalle, di un marrone scuro su cui spiccavano ciocche bianche. Era giovane, trent’anni al massimo, e portava un bel paio di Ray-Ban neri.
L’uomo dietro la scrivania non rispose, limitandosi a far scorrere il foglio fra le dita per almeno due minuti buoni. Poi improvvisamente calò la carta sul tavolo, rivelando il proprio volto.
«Che cazzo ci fai tu lì?» urlò Uriel, muovendosi in avanti con foga. Improvvisamente non gli importava più del fucile o del fatto di essere legato come un cane: una rabbia cieca si era impossessata di lui non appena aveva posato gli occhi su quel viso attraente incorniciato dai capelli color platino, su quegli occhi leggermente allungati che sembravano volerti leggere l’anima e giudicarti una merda, su quella bocca che, con la sua piega beffarda, sembrava costantemente prenderti per il culo.
«Felice di rivederti ancora in vita, Uriel.» disse Antòn, sorridendo a mezza bocca. Un sorriso affascinante come quello di una modella e pericoloso come quello di uno squalo. Uriel ne rimase ammaliato e interdetto, come sempre da quando aveva conosciuto lo sgherro.
No, la spia, si corresse mentalmente.
«Voi russi siete tutti delle teste di cazzo, lo sapete vero? E tu sei uno stronzo e un figlio di puttana!» rispose Uriel, urlando con tanta forza che goccioline di saliva volarono dappertutto. Il soldato che gli teneva il fucile puntato alla testa scattò, pronto a farlo fuori, ma Antòn lo fermò con un secco cenno della mano. «Perché cazzo mi hai spedito dentro?»
Per tutta risposta, Antòn afferrò la catena ancora poggiata sulla scrivania e la tirò con violenza. Uriel venne trascinato in avanti, col petto poggiato al legno scuro e la testa appena rialzata. La nuca cominciò a fargli male, mentre vecchie croste di piaghe ormai chiuse si rompevano, lasciando uscire sangue nuovo.
«Perché sei un piccolo idiota cocainomane che ha qualcosa che vogliamo.» rispose Antòn con quella sua voce bella e pericolosa. Fece un cenno e il militare immobilizzò Uriel con un gomito sulla schiena, mentre Antòn estraeva una boccetta di polvere celeste da una tasca della giacca costosa.
«Quindi i risultati sono positivi?» domandò il militare.
«Sulla carta, è perfetto. L’unico suo difetto è la coca, ma dovremmo avergliela fatta smaltire quasi tutta. In ogni caso, lo scopriremo subito.» disse Antòn e si abbassò, mentre una mano scivolava sotto il mento di Uriel e gli stringeva la mascella con forza, impedendogli di muoversi. Con l’altra mano gli mise la boccetta sotto il naso. Uriel smise di respirare all’istante, ma il militare gli diede un colpo con un ginocchio appena sotto le costole che lo fece inspirare violentemente.
La polvere era fredda come ghiaccio nelle narici di Uriel, e bruciava. Sembrava farsi strada come una marea di aghi di ferro. Il ragazzo poteva sentirla penetrare nei tessuti e dà lì nel circolo sanguigno, dai capillari alle arterie dietro la testa, giù per la spina dorsale e su per il cervello. Il cuore accelerò.
«Cosa cazz…» provò a chiedere Uriel, ma non concluse. Il cervello smise per un secondo di funzionare al ritmo normale e poi accelerò, catapultandolo in una visione molto più sconvolgente di qualsiasi avesse mai avuto durante i suoi trip passati.
«Droga, amico mio. Una droga migliore di qualunque altra tu abbia mai provato.» disse Antòn lasciandolo andare. Lui e il militare si spostarono, avvicinandosi quasi spalla contro spalla. In piedi, si vedeva chiaramente la differenza d’altezza fra i due: Antòn, col suo metro e ottantasei, arrivava circa alla spalla del militare, che era più alto di lui di tutta la testa.
«Quanto ci metterà a tornare indietro?» domandò il militare, rimettendosi il fucile in spalla.
«Dipende da quanta coca ha ancora in corpo. Se ce n’è poca farà resistenza per un po’, e la visione tarderà ad arrivare. Se invece è troppa, andrà in contrasto con l’Ireinina. Il che vuol dire infarto o ictus, a seconda di cosa viene colpito prima… e l’inizio di una nuova caccia all’uomo.» tra le opzioni, quella che sembrava infastidire di più Antòn era proprio l’ultima.
«Dovevamo aspettare.» disse il militare, abbassando gli occhiali da sole per osservare meglio il ragazzino steso sul tavolo. Aveva la bocca mezza aperta e gli occhi spalancati che si muovevano velocemente, come se avesse una crisi epilettica.
«Non sono io che comando, lo sai. Non vuole più aspettare e ha dato l’ordine, scavalcandomi completamente. Non ero d’accordo, ma a chi interessa quello che voglio?» disse con teatrale dispiacere Antòn, buttandosi sulla sedia della scrivania come se la scarsa considerazione che gi veniva riservata lo ferisse a morte. Il militare sorrise, un ghigno da rapace.
«Non ti buttare giù così, Antòn.» gli disse scherzando. L’altro si limitò ad indicare una sedia piena di fogli di carta ingiallita.
«E tu vieni a sederti invece, Ivan. Bene che vada, ci vorrà almeno tutta la notte.»



 
1 Siamo persone danneggiate 
Radunate insieme 
Da sottigliezze di cui non siamo coscienti 
Anime disturbate 
Che reciteranno fino in fondo per sempre 
Questi ruoli che una volta pensavamo ci avrebbero fatto paura 
(Damaged People, Depeche Mode)

 
Piccolo Spazio-me:
Bene, eccoci. Innanzitutto vorrei ringraziare chi ha messo la storia fra le seguite e le preferite *-* e chi si interessa a questo piccolo viaggio che amo alla follia :D
Come avrete forse intuito, il prologo è un evento distante qualche tempo nel futuro :D Mi piaccino le storie che cominciano come finiscono :D Inoltre sto tentando un piccolo esperimento: vorrei dare ad ogni capitolo un'impronta diversa a seconda del narratore, che sarà a turno uno dei cinque protagonisti (quelli del banner nel prologo). Mi piacerebbe quindi sapere se notate gli abbinamenti "stile/linguaggio/personaggio" o no :D 
Inoltre, se avete qualche domanda/indicaizone/suggerimento/ipotesi/voglia di farmi un ciao, io sono qui che aspetto ;) non serve che vi dica quanto è utile a un'autorice ricevere anche due righe, di qualunque natura esse siano :D Su, sostenetemi :P
Come al solito:
 
È assolutamente vietato riportare questo scritto, sue parti o, in ogni caso, utilizzare personaggi, situazioni o qualunque altra cosa di questa storia che mi appartenga. 

Il banner è preso dalla galleria di Eun-su. Fate un salto a quel link, quell'artista è di una bravura assurda!
  
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