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Autore: Eliatheas    05/12/2008    12 recensioni
Era mia.
Era nata per me, per essere mia.
Non avevo pace, ero dilaniato, spezzato in due. Da un lato, avrei voluto assaporare il suo sangue e potarle via la vita, ma dall’altro volevo darle quei sogni, volevo che si avverassero, volevo che quegli occhi fossero felici per sempre.
Esme era la mia ossessione.
Genere: Romantico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Carlisle Cullen, Esme Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi distruggerai ~

 Gli occhi che ti salvarono

Mi distruggerai, mi distruggerai
E maledico te perché di te non vivo
Mi distruggerai, mi distruggerai
Ti abbraccio in sogno tutto il giorno e sto, di notte, sveglio
Tu mi distruggerai, mi distruggerai
Mi distruggerai.
[Notre Dame de Paris – Mi distruggerai]

Profumo.
Invitante, fin troppo.
In secoli di vita non mi era mai capitato di essere tanto attratto dal sangue umano, eppure non c’era nient’altro al mondo che volessi come volevo il collo di quella ragazza.
Lei gesticolava e parlava, con quelle guance adorabilmente rosse, mentre cercava di spiegare come aveva fatto a rompersi una gamba, ma io sentivo il suo cuore battere, più veloce del normale, e quel profumo invadermi le narici.
Le sorrisi, teso, e le sue guance si imporporarono ancora, mentre lottavo contro me stesso per non aggredirla.
Quel profumo, quel collo lievemente inclinato verso sinistra, quelle gote rosse mi chiamavano, mi dicevano di stringere a me quella ragazza, si inebriarmi del suo profumo, di posare le labbra sul suo collo e...
“Dottore, lei è la paziente di cui le avevo parlato. Dice di essere caduta da un albero”
Mi riscossi e fissai il mio sguardo su di lei, imponendomi di non respirare. E rimasi fossilizzato.
Non avevo mai visto degli occhi come i suoi.
Erano neri, ma un nero vivo, un nero che ardeva come un fuoco impossibile da dominare, un nero che mi arrivò al cuore. Quegli occhi la salvarono.
Se non avessi visto quegli occhi probabilmente mi sarei gettato su di lei, prima o poi, e avrei lentamente succhiato la sua vita, ma quegli occhi...quegli occhi cambiarono tutto.
Come potevo azzardarmi a sfiorarla, come potevo togliere la vita a degli occhi così stupendi?Come avrei potuto guardare nelle sue iridi nere quando, saziata la mia sete, avrei gettato a terra quel fragile cadavere?
Non avrei mai potuto, lo sapevo.
“Allora, signorina...posso sapere il suo nome?” chiesi, con un sorriso sincero. Il suo profumo tornò a colpirmi, il collo sembrava così invitante...
Ma quegli occhi erano troppo belli per poter restare chiusi per sempre.
“Mi chiamo Esme” sussurrò lei, con una voce debole. Le guance le diventarono ancora rosse, con quel sorriso esitante sul volto. Tutto in lei emanava fragilità, delicatezza: i suoi boccoli color caramello, che le ricadevano dolcemente lungo le spalle come una soffice nuvola, il suo corpo minuto, piccolo, magro, il suo sorriso esitante. E quegli occhi, anche quelli – e le fiamme che vi si agitavano dentro – erano fragili.
“Bellissimo nome” le dissi, esaminando la sua gamba e le sorrisi ancora. “Io sono il dottor Cullen. Ti curerò io” Sembrava particolarmente entusiasta all’idea. “Caduta da un albero?”
“Ehm..sì. Mia madre dice sempre che non dovrei arrampicarmi, ma io non le do ascolto. E’ così bello poter stare lì, sul ramo più in alto e sentire il dolce soffio del vento...” sospirò, poi arrossì ancora, bella e fragile. Umana, sussurrò il mostro dentro di me, con un sangue invitante.  “Scusi, non volevo inondarla con le mie chiacchiere”
“Figurati, Esme” assaporai il gusto del suo nome, fragile e armonioso come lei. “La tua voce è molto bella”
“Grazie, dottor Cullen”
Quelle guance rosse erano una tentazione.

Era così bella e così invitante, sembrava quasi mi invitasse a morderla, ad affondare i miei denti nella sua pelle così morbida e a succhiarle via la vita.
Era così, bella e ingenua, certa che io non le avrei fatto alcun male.
E non lo avrei fatto, almeno fino a che quegli occhi neri sarebbero rimasti aperti.

Mi parlò più volte, Esme. Mi deliziava della sua voce così stranamente soave, così incredibilmente bella, e mi raccontava di lei. Mi raccontava della sua vita, dei suoi sogni, delle sue speranze.
Sognava una grande famiglia, la piccola Esme. Sognava tanti bambini dagli occhi neri come i suoi e con un felice sorriso stampato sulle labbra. E sognava di fare l’insegnate, la mia fragile umana. Sognava di poter aiutare i bambini, di aiutarli a scrivere il loro nome su un foglio, di vederli sorridere al loro primo, disastroso tentativo.
Sognava, Esme e non sapeva che ad un passo da lei c’era chi poteva infrangere quei sogni con un solo scatto.
Certe volte l’odore del suo sangue tornava a colpirmi forte come quella prima volta, mi spingeva a voltarmi verso quel collo, candido e morbido.
La desideravo, desideravo il suo sangue. Non credevo sarebbe mai potuto accadere, dopo secoli di esperienze ci si abitua.
Mentivo.
Sapevo fin troppo bene che c’era un’attrazione che non potevo controllare, una voglia che non potevo sopprimere.
Lei, il suo sangue.
Aro avrebbe definito Esme la “mia cantante”, il suo sangue cantava per me. Il suo sangue era mio, lei era mia. Mi apparteneva. Mi apparteneva quando mi parlava dei suoi sogni, quando sorrideva esitante, quando si mordicchiava il labbro inferiore, quando piegava lievemente il capo e scopriva il collo bianco.
Era mia.
Era nata per me, per essere mia.
Non avevo pace, ero dilaniato, spezzato in due. Da un lato, avrei voluto assaporare il suo sangue e potarle via la vita, ma dall’altro volevo darle quei sogni, volevo che si avverassero, volevo che quegli occhi fossero felici per sempre.
Esme era la mia ossessione.
Mi stava lentamente distruggendo, eppure non osavo prendere una decisione.
E poi, finalmente decisi.
Le avrei dato una vita, le avrei permesso di realizzare quei sogni.
E io me ne sarei uscito dalla sua vita.

Partii senza dirle nulla, così, in fretta.
Feci le valigie e partii, senza neanche pensarci. Non la vidi neanche un’ultima volta, certo che sarebbe stato più doloroso dire addio a quel profumo. E a lei.
Esme Anne, la mia ossessione.
Non era più solo il sangue che desideravo, era lei.
Avevo imparato a conoscerla, a sentire la sua voce melodiosa, a parlarle dei miei studi da medico, della mia vita – ovviamente inventata così, su due piedi. Avevo imparato a volerle bene.
Mentre mi avviavo veloce in un'altra città mi chiesi se fosse possibile non volerle bene.

Il tempo è un’invenzione degli umani, per quelli come noi non esiste.
Per lei, per gli umani, erano trascorsi dieci anni, per me il tempo non esisteva. Ero congelato, fossilizzato nel per sempre che metteva quasi paura.
Erano trascorsi dieci anni. Con me c’era Edward, lo avevo creato io. Certe volte mi pentivo di non averlo lasciato morire di spagnola. Vedevo il suo sguardo vuoto, il suo rifiuto di accettare la sua nuova natura, il suo considerarsi un mostro...e mi chiedevo se anche io lo fossi.
Edward era capace di leggermi nella mente e mi rassicurava, dicendo che non ce l’aveva con me per il dono che gli avevo fatto.
Eppure mi sembrava che volesse tutto tranne che vivere ancora.

E poi accadde quello in cui non credevo più. Esme tornò.
Morta.
L’infermiera la portò direttamente in obitorio, disse che non c’erano speranze, che era morta.
Morta.
Quella parola mi sembrava strana, associata ad Esme, viva, allegra, piena di sogni e di speranze, con occhi che ardevano.
Morta.
La morte aveva sottratto al suo viso ogni colore ed era pallida, semplicemente pallida. Pallida come me.
Le labbra, che tanto mi avevano parlato e sorriso, erano di un viola innaturale, bagnate, umide. I boccoli di caramello grondanti d’acqua, piatti, lisci, incollati al suo volto. E gli occhi. Gli occhi neri erano chiusi.
Per sempre.
Eppure, sentivo il suo cuore.
Era debole, fragile; i suoi battiti erano sempre più tenui e radi, eppure c’era.
Non ci pensai due volte e mi chinai a morderla.
“E’ per il tuo bene, Esme” le dissi, accarezzandole il volto bagnato, adulto, devastato. Posai le mie labbra sulle sue per un secondo, sentendo un’emozione che in secoli di esistenza non avevo mai sentito. Poi le appoggiai sul suo collo.
Quel sangue era fin troppo buono, eppure seppi trattenermi.
Non so come feci, forse il sentimento che provavo nei suoi confronti superava il desiderio del suo sangue.
Fatto sta che la salvai. O la condannai, dipende da come si vede la cosa.
E da allora siamo sempre rimasti insieme.
Non so come abbia fatto ad accettare la sua natura così facilmente, senza scomporsi, senza urlarmi contro, senza implorarmi di ucciderla davvero. Non sarei stato capace di ucciderla, ero egoista.
La volevo per me, nonostante il suo sangue fosse sparito.
Volevo Esme, volevo la ragazza felice e piena di sogni.
E lei mi raccontò tutta la sua triste storia, a partire dalla mia improvvisa partenza, fino a quando aveva deciso di buttarsi dalla scogliera, per mettere fine alla sua tormentata vita.
E mi è rimasta accanto, la mia piccola e fragile Esme.
Per sempre.
Ha una grande famiglia,ora, la mia Esme, e tanti figli dagli occhi neri – ma non belli come lo erano i suoi quando era viva.
Quegli occhi erano troppo belli, Esme. E, come tutte le cose belle, erano destinati a sparire presto.

 

 

Angolo Autrice

Non so davvero cosa sia. Non so se davvero il sangue di Esme abbia attratto tanto Carlisle, anche se suppongo di no. Mi è piaciuto immaginare.
E non so neanche di che colore abbia avuto Esme da giovane, ho voluto di nuovo immaginare.
Ho sempre amato questa coppia, ma non sapevo cosa scrivere, poi ascoltando a palla “Mi distruggerei” di Notre Dame de Paris mi è venuta l’idea. Io amo quella canzone.
Spero che questa stupidaggine vi piaccia *______*

   
 
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