Non
E’ Mai Troppo Tardi
13
Ci avrebbe giurato: l’assassino era proprio la voce narrante.
Poirot aveva detto abbastanza e la scena iniziale era stranamente vaga
per una scrittrice così prodiga di particolari.
Il libro scorreva bene, e anche il tempo sembrava volare: era
già passato quasi un mese, dannazione, e lui era sempre inchiodato a quel
letto.
Ormai in ufficio doveva esserci un casino senza pari. Suo padre doveva
essersi accorto che lui da solo lavorava come dieci persone.
Da una settimana la febbre era scesa sotto i trentanove e
quella mattina finalmente aveva toccato i trentasette e mezzo… ma la cosa non
gli era minimamente di conforto.
Stava diventando un esperto di Agatha Christie, una delle scrittrici
preferite di sua cugina.
Leggere era indubbiamente un ottimo modo di passare il tempo, peccato
che capisse chi fosse l’assassino a metà libro: la soddisfazione era grande, ma
presto il tutto perdeva di interesse.
L’alternativa era Stephen King, Justin non si era perso un
libro della sua produzione, ma dopo sei dei suoi libri, l’organismo necessitava
di uno stacco.
Si era quasi scordato quanto gli piacesse leggere, da sempre.
Aveva cominciato a prelevare libri dalla biblioteca di casa ad
appena tre anni, quando aveva imparato a leggere, e andava a nascondersi sotto
i letti… era così che un bel giorno era inciampato sull’esistenza di Jawad.
Scacciò il pensiero e lanciò un’occhiata alla sveglia sul
comodino.
Jennifer e i suoi sarebbero già dovuti essere di ritorno
ormai. I quadri con i risultati sarebbero dovuti essere affissi fin dalle
dieci.
Non dubitava che Jennifer fosse stata promossa, voleva sapere
con quale media.
Un leggero bussare e Jennifer fece capolino aprendo appena la
porta.
Entrò senza dire una parola e si avvicinò al letto tenendo lo sguardo
basso.
Appoggiò il libro accanto a sé. «Allora?» le chiese.
La ragazza praticamente si gettò sul letto abbracciandolo,
«Otto» disse in un bisbiglio. «Sono stata promossa con la media dell’otto.»
Dopo di che scoppiò a piangere.
Stavolta non fu necessario fare domande: era lo sfogo della
tensione accumulata in quei mesi di studio.
Appoggiò una mano fra i suoi capelli e rispose all’abbraccio,
«Non te lo aspettavi?» chiese divertito «Un McGregory s’imbarca in qualcosa per
arrivare al massimo o non comincia neanche. Il prossimo anno arriverai al
nove.»
La sentì sorridere, «In realtà sono arrivata al sette e mezzo,
ma lo hanno arrotondato per eccesso per premiarmi dell’impegno. Oh Dio Juna,
ancora non ci credo. Papà per poco è cascato in terra quando ha letto i
risultati, mamma si è messa a piangere. I professori mi hanno fatto tutti i
complimenti e papà si è voluto fermare a prendere dolci e pasticcini per
festeggiare. Potrei chiedere la Luna adesso e me la darebbero.»
«Non ti sarai messa a piangere a scuola vero?»
Scosse la testa, «Ero troppo scioccata.»
«Ok, allora adesso hai tutti i diritti di sfogarti.»
Stavolta rise, serrando l’abbraccio «Grazie Juna, non ce
l’avrei mai fatta senza di te.»
«Ah, figurati, è stato un piacere.»
Si allontanò da lui, gli occhi ancora gonfi di lacrime, «Era
da un sacco di tempo che non piangevo perché sono felice. Adesso resta solo
quella dannata legge» aggiunse diventando improvvisamente tetra.
«Non pensarci adesso Jennie, oggi preoccupati solo di goderti
questa soddisfazione.»
Altro bussare e fece capolino Jeremy, «Posso?»
«Entra Jeremy.»
«A giudicare dai lacrimoni, Jennie ti ha dato la bella
notizia! Come stai?»
«Due ore fa la febbre era a trentasette e mezzo. Diventerò
pazzo se continuo a stare bloccato a letto.»
Jennifer sembrò attraversata da una scossa ad alto voltaggio e
lo guardò preoccupata. «In senso metaforico, Jennifer» aggiunse.
«Questa febbre è più tosta del previsto, anche il professor
McIntyre ha detto che si aspettava che sparisse nel giro di dieci, quindici giorni,
non di più» ammise Jeremy. «La bronco-polmonite?»
«I bronchi, sempre secondo Larry, si sono liberati. Quell’uomo
si è rifatto di dodici anni nei quali non ho avuto neanche un raffreddore!»
La porta si spalancò ed entrò un ciclone, «Jennie!!» esclamò
saltando letteralmente addosso alla ragazza «Mamma me lo ha detto ora! Che
bello! Sei felice?»
Sarah entrò in quel momento e si bloccò a guardare la scena
con un sorriso, «Scusate, non sono riuscita a bloccarlo.»
Jennifer strinse a sé il fratellino, «Sì, è fantastico tesoro,
sono felicissima.»
«Adesso manca Shasha, vero? Juna potrebbe aiutare anche lei a
ripassare, prenderebbe il diploma con otto.»
Jeremy scoppiò a ridere, «Juna è una garanzia vero?»
Scosse le spalle, «Se Sharon ha bisogno, io sono qui.»
«Davvero?» chiese Jennifer.
Jeremy divenne serio, «Stai facendo sul serio Jen?» chiese.
«Io dicevo sul serio. Non posso muovermi di qui, ma la stanza
è abbastanza grande per tutti.»
Jennifer sorrise, «Posso avvisarla allora. E’ stata ammessa
all’esame con la media del sette.»
«Quando cominciano gli scritti?»
«Fra circa un mese. Come orali porterà inglese, storia e
arte.»
«Ci è andata leggerina eh?»
Jennifer alzò gli occhi al cielo, «Se capitassero le stesse
materie a me, mi chiudo in convento piuttosto che dare l’esame!»
Jeremy scoppiò a ridere, «Beh, capisco la tua attuale
avversione per i libri principessa e l’asseconderò fino a settembre, te lo
meriti davvero!» L’occhio gli cadde sul libro che aveva accanto «Ma ti abbiamo
interrotto Juna? Stavi leggendo.»
«Ho già capito chi è l’assassino.»
«E’ un po’ noioso leggere così eh?» chiese Jeremy.
«Ognuno ha le sue croci.»
«Papà?» chiamò Michael «Ti ricordi cosa mi hai promesso?»
«Certo, una guerra di spruzzi in piscina!» Si alzò prendendolo
con entrambe le mani e facendolo volare in aria, Michael gridò allegramente
«Avanti campione!»
«Jennie?» chiese semplicemente Sarah.
«Resto ancora un po’ con Juna se non è troppo stanco.»
«Non sono mai stanco per la compagnia di una donna.»
Jeremy si voltò a guardarli scherzosamente accigliato ma non
commentò.
Rimasti soli, Jennifer si concentrò sulla coperta. «Come
stai?» chiese.
«Ho voglia di camminare… ho addirittura voglia di andare in
ufficio, pensa.»
«Ti rendi conto che non saresti arrivato a questo se ti fossi
degnato di andare prima dal professor McIntyre, vero?»
«Pensi che alla luce di questa verità non dovrei lamentarmi?»
«Questo lo hai detto tu, non io.»
Stava davvero arrugginendosi.
«Jennie, dove vuoi andare a parare?»
«Quanti anni avevi la prima volta che hai iniziato
l’università?»
«Avevo sette anni, mi sono laureato in economia e commercio,
poi a dieci ho cominciato lingue e in cinque anni mi sono laureato in inglese,
italiano, francese, spagnolo e tedesco.»
«Parli anche l’arabo.»
«Non ti chiederò come fai a saperlo. Per quello non sono
andato a scuola, l’ho imparato parlandolo, per far contento mio nonno.»
«E a undici anni hai iniziato a lavorare nella compagnia…»
«Esatto.» Sorrise alla sommità della sua testa, «Come mai
questo terzo grado?»
«Non te l’ho detto, ma qualche mese fa un genio è venuto a
tenere una conferenza nella mia scuola e sia io che Sharon ti abbiamo pensato
tutto il tempo. Ha cinquantaquattro anni e quattro lauree, tutte con la lode
tranne una…»
«Le ho prese tutte con la lode» rispose alla muta domanda che
quella pausa implicava.
Jennifer asserì come se lo sapesse. «Il suo quoziente è di
centottantasei… fa un test di intelligenza ogni quattro anni. Tu ne fai
ancora?»
«Certo. Il primo l’ho fatto a quattro anni. Il farmelo fare o
meno scatenò una baruffa fra mio padre e mio nonno. L’ultimo l’ho fatto a
sedici e il prossimo lo farò fra un anno.»
«Ti ricordi la domanda più difficile del primo test che hai
fatto?» chiese con una così aperta curiosità da farlo sorridere «Immagino fosse
il più semplice» aggiunse prima di accorgersi del suo sorriso. «Beh, so che il
concetto di difficile è relativo per te, ma…»
«Hai frainteso Jennie, non sorridevo per quello… te lo ha mai
detto nessuno che sei trasparente?»
Jennifer si accigliò un attimo, «Se intendi dire che non so
assolutamente nascondere cosa mi passa per la mente, sei forse la centesima
persona che me lo fa notare negli ultimi sei mesi… ma sei il primo che ha usato
quel termine.» Reclinò la testa da un lato, «Stai tergiversando?»
Quella ragazza stava veramente facendo passi da gigante con
lui.
«Allora Jennie, dimmi quale di queste parole non ha alcuna
attinenza con le altre tre: zio, asfalto, sabato e cose.
Hai due minuti di tempo per rispondermi.»
«Cosa? Solo due minuti?» Al suo silenzio sbuffò, «Tu quanto ci
hai messo?»
«A sedici anni una media di venticinque secondi per domanda,
lettura del quesito inclusa.»
«Quoziente?»
«Duecentosessanta.»
Il silenzio si protrasse per circa un minuto, poi Jennifer
sospirò con un tale abbattimento che gli fece tenerezza. «Mi stanno venendo in
mente le cose più assurde.»
«Quale sceglieresti istintivamente?»
«Mah, zio.»
«Perché è l’unica parola che leghi ad un essere umano?»
«Sì.»
«Il novantotto per cento delle persone risponde così.»
«E il due per cento genio?»
«Asfalto.»
«Ho quasi paura a chiedertelo… perché?»
«Zio d’America, sabato inglese, cose
turche: asfalto è l’unica parola non legata a qualche nazionalità.»
«Stai scherzando vero?» Al suo cenno negativo respirò
profondamente, «Non ci sarei mai arrivata» ammise come se confessasse un
omicidio.
«Sai Jennifer… il concetto di intelligenza è visto sotto un
aspetto molto distorto. Per la stragrande maggioranza della gente un genio è
colui, o colei, che riesce a fare i calcoli più assurdi senza calcolatrice,
conosce cinque lingue, può parlare indistintamente di filosofia greca,
astrologia… e bada che esistono otto differenti sistemi astrologici… chimica»
la vide sorridere alla frecciatina, stavano davvero migliorando! «matematica,
arte, storia, geografia… intelligenza è anche analizzare a trecentosessanta
gradi e scegliere l’opzione più originale… e ovviamente cogliere al volo
l’ovvio, che proprio in quanto tale sfugge sistematicamente alla stragrande
maggioranza della gente.»
«Fammi un’altra domanda!»
Scoppiò a ridere, «Non era una sfida Flalagan!»
«Fa lo stesso, mi hai incuriosita con questa storia
dell’ovvio!»
Ci pensò meno di cinque secondi.
«Mh, ok. Hai quarantotto ore per arrivare alla soluzione di
questo problema. E’ definito di informazione minima. In una stanza ci
sono dei sacchi di lingotti d’oro. Diciamo che sono quattro.» Prese il
blocchetto dal comodino e scrisse le informazioni man mano che le diceva, «Ogni
sacco è pieno di lingotti d’oro, di questi quattro sacchi solo uno contiene
lingotti falsi che pesano meno di quelli veri. Diciamo che un lingotto vero
pesa una libbra, uno falso…» decise di renderle la cosa il più facile possibile
«una libbra meno un oncia. Ci sei fin qui?» Jennifer annuì «Ecco il tuo
problema: devi scoprire quale di questi sacchi contiene lingotti falsi, hai una
bilancia a gettoni nella stanza e un solo gettone a tua disposizione.»
Il silenzio della ragazza disse più di cento parole, «Tutto
qui?» chiese poi.
Le passò il foglietto dove aveva scritto i dati, «Tutto qui.»
Jennifer guardò il foglio, poi di nuovo lui «Non ti dico cosa
penso di te in questo momento» sentenziò con l’aria di una che gli faceva un
gran favore.
«Sei stata tu a chiedermi di…»
«E’ solo per questo che non te lo dico ad alta voce.»
Ah, ecco…
Spese qualche secondo a piegare attentamente il foglio, poi
quegli occhioni tornarono su di lui. «Posso farti una domanda? Vorrei tu
rispondessi sinceramente.»
Ebbe l’improvvisa sensazione che la ragazza fosse finalmente giunta
dove voleva arrivare da quando gli aveva annunciato la sua promozione.
Si limitò ad annuire.
«Non c’è un'altra laurea che ti piacerebbe conseguire?»
La domanda, inutile dirlo, lo prese in contropiede. La sua bocca parlò
prima che la risposta passasse dal cervello.
«Ce n’è più di una, a dirla tutta.»
Subito dopo si sarebbe preso a calci.
Jennifer s’illuminò come un albero di Natale. «Quale?»
Ok, tanto il danno lo aveva fatto.
«Beh… giurisprudenza… anche se Justin potrebbe uccidermi per molto meno.
Poi psicologia, medicina e arte. Perché?»
«Beh… questo genio ha detto che un cervello come il vostro è una spugna
mia satura…»
Sorrise, sembrava di sentir parlare George!
«… e tu mi hai appena dimostrato che è vero. Perché non ricominci a
studiare? Hai una capacità di apprendimento incredibile. Hai tutto il tempo
necessario per conseguirle anche tutte, se tu lo volessi.»
Pari pari George… doveva cominciare a pensare che quell’uomo avesse
sempre avuto ragione?
Erano mesi che non lo sentiva.
«Sei carina a preoccuparti per me… come ti è venuta quest’idea?»
La ragazza si fece imbarazzata e il solito adorabile rossore le
imporporò le guance, probabilmente per l’aggettivo carina «Lo so che non
sono fatti miei, io volevo solo…»
«Flalagan, devo farti l’analisi logica e grammaticale della frase? Non
ho assolutamente detto che non sono fatti tuoi, la mia è solo curiosità.»
Jennifer rimase in silenzio qualche secondo, poi… ingranò di botto la
marcia più alta. «Sei cambiato. Non ti so spiegare bene, io mi baso su di un
tempo molto limitato… sono semplici impressioni più che altro, anche alimentate
dai commenti dei tuoi. All’inizio pensavo che fosse per Lissa e Micky, poi per
il fatto di essere bloccato a letto… ma non credo sia così. Anche i tuoi
pensano che se ricominciassi a studiare…»
Si accese il solito concerto di campanellini di allarme. «Che significa
anche i miei pensano?»
Si rese conto che Jennifer aveva lo stesso atteggiamento di Drake
quando si trattava di dover fare una confessione scomoda. «Va bene, te lo dico,
anche se non dovrei. Connor e Manaar hanno parlato con il professor Cowley quando
ti sei sentito male.»
Chiuse gli occhi. Dannazione.
George ci doveva essere andato leggero come uno schiacciasassi per
spingere addirittura Jennifer a farsi avanti!
«Come hanno trovato il numero di telefono?»
«Lo ha trovato Drake nel tuo cellulare.»
Prese un appunto mentale: strangolare Drake.
«Cosa gli ha detto esattamente?»
«Non lo so. Io ho ascoltato il resoconto che hanno fatto al resto della
famiglia.»
Di bene in meglio.
Un pensiero lo fulminò, «Era presente anche mio nonno Mansur?» chiese.
«Non quando ha fatto il resoconto, ma tuo padre gli ha fatto una specie
di relazione quando è arrivato. Drake era con i tuoi quando hanno telefonato al
professore.»
Pensò di aver capito male, «Come prego?»
Jennifer assunse l’espressione di chi si rende conto di aver combinato
un casino. «Non… non te ne ha parlato?»
«Tu che dici?» chiese di rimando dopo averla osservata per qualche
secondo.
«Probabilmente ha accantonato la partaccia per quando stai meglio.»
«La cosa dovrebbe essermi di conforto?»
Jennifer scosse filosoficamente le spalle.
«Dannazione. George ha il tatto di uno schiacciasassi.»
Ecco perché i suoi nonni erano ancora lì… aspettavano che si alzasse
dal letto per rigirarlo a turno come un pedalino, maledizione.
«Tuo padre è furibondo essenzialmente perché non gli hai mai detto i
rischi che corri smettendo di fare quegli esercizi… e ovviamente perché hai
smesso di farli.»
George gli sarebbe piombato fra capo e collo appena si sarebbe staccato
da quel letto…
«E se tu stessi pensando che probabilmente il professor Cowley ti
piomberà fra capo e collo appena ti alzerai da quel letto… beh, mi sa che hai
ragione.»
La soppesò con una lunga occhiata… a quel punto due erano le cose: o
Jennifer stava imparando a ragionare come lui, cosa che avrebbe dovuto quanto meno
preoccuparlo, o stava semplicemente imparando a cogliere i suoi stati d’animo…
cosa che avrebbe dovuto spaventarlo a morte, con tutto quello che doveva
nascondere.
Perché non era così?
«Sei diventato un efficientissimo robot, Juna e i tuoi genitori lo hanno
capito solo quando sei letteralmente crollato a terra. Adesso non puoi
biasimarli se cercano di capire come stanno le cose.»
Questa era la mazzata finale o doveva aspettarsi di peggio?
Se veramente i suoi avessero cercato di capire come stavano le cose…
«Forse è vero» ammise cauto, per la prima volta addirittura con se
stesso.
«Non volevo essere invadente.»
«Credimi: non lo sei stata. Grazie per avermi avvisato del tornado che
si abbatterà a breve sulla mia testa. E di avermi dato un’ottima ragione per
rigirare Drake come un pedalino. Questa me la paga.»
Jennifer si alzò, «Tu non hai bisogno di ottime ragioni per rigirare
quel ragazzo come un pedalino.»
«Ah ah… il fascino di Drake ha colpito ancora.»
«Scherzi? Ci tengo alla mia vita. Anche Sharon al momento potrebbe
uccidere per molto meno.»
«Già che siamo in argomento, sai qualcosa di nuovo? Il mio migliore
amico glissa sempre.»
«Beh, non le ha chiesto niente… ma li ho visti insieme e ti garantisco
che non si nota la differenza.»
Annuì con un sorriso.
«Stavo per andare a fare un cappuccino… ti va di farmi da cavia?»
«Volentieri, grazie.»
Uscì dalla stanza con un ultimo sorriso verso di lui.
Ormai stavano andando in discesa libera senza freni. Stava perdendo il
controllo su tutto quello che faceva parte della sua vita.
Anche Drake sembrava iniziare a perdere colpi.
Si abbandonò contro il guanciale e respirò profondamente… e il peggio
doveva ancora arrivare.
Più ci pensava, più era chiaro che non sarebbe stato facile difendersi
dagli Estrada.
L’unica possibilità che avevano lui e Drake era ucciderli uno ad uno. Richard
e Matthew li avrebbero sicuramente spalleggiati.
Come avrebbe fatto a tenere ancora nascosta la sua identità di killer
dei servizi segreti?
E soprattutto, come avrebbero potuto, solo lui e Drake, proteggere le
loro famiglie e quella dei Flalagan?
Rivolse lo sguardo al finestrone e sospirò profondamente.
No, non c’era altra via d’uscita.
Il resto della mattinata si svolse lentamente, entrambe le nonne gli
fecero compagnia per la maggior parte del tempo.
Di solito il pomeriggio ci pensavano Melissa e Michael a non mollarlo
un attimo.
Non poteva ancora scendere a mangiare con gli altri e la famiglia aveva
preso la sana abitudine di fermasi a parlare un po’ dopo pranzo… la cosa lo
faceva sentire un po’ escluso, ma decisamente non soffriva di solitudine.
Finì il libro solo per scoprire che aveva visto giusto sin dall’inizio
e lo appoggiò accanto a sé.
Cosa poteva fare adesso?
Sarebbe davvero uscito matto se non trovava una soluzione.
Rimettersi a studiare.
Inutile cercare di prendere in giro se stesso: era una prospettiva che
lo allettava.
A pensarci bene George stesso lo spronava da anni a rimettersi a
studiare… senza contare quale regalo sarebbe stato per lui se finalmente si
fosse deciso ad entrare nell’Omega.
L’Omega era una specie di club nel quale gli associati dovevano avere
almeno una cosa in comune: un I.Q. non inferiore a centosessanta.
Parlando con George, era saltato fuori che in realtà esisteva
un’associazione internazionale, chiamata Mensa, che raccoglieva sotto di sé
coloro che avevano il più alto I.Q. della popolazione.
L’Omega era invece stata costituita per la città di Boston, non era in
gara con la Mensa, era semplicemente un’alternativa.
George vi era entrato a soli ventun’anni e ne era il presidente da
quasi venti. Ne facevano parte solo altre dodici persone, fra cui tre o quattro
professori universitari, un paio di scienziati, un avvocato, un musicista e un
imprenditore. Lui sarebbe stato in pratica il tredicesimo socio se le cose non
erano cambiate nell’ultimo anno.
Con il tempo si era fatto sempre più evidente che il semplice fatto che
George si fosse occupato di persona di lui fosse qualcosa di cui andare fieri:
di fatto non solo il presidente era colui che vantava l’I.Q. più alto, ma chi
si occupava dell’apprendistato dei nuovi membri erano gli altri iscritti… e in
ultima analisi, come già sottolineato, lui non era un membro di quel club.
Aveva conosciuto George ad una festa, una decina di anni prima, e aveva
messo subito in chiaro che un bambino di nove anni non era minimamente
interessato ad una cosa del genere, George l’aveva comunque preso sotto la sua
ala protettrice e gli aveva insegnato con una pazienza che spesso aveva avuto
dell’incredibile ad usare al meglio le sue capacità.
Non era mai stato interessato a far parte di Omega, ma adesso si
rendeva conto che per lui non sarebbe stato affatto un sacrificio e che per
George sarebbe stato un regalo immenso.
Il leggero bussare alla porta lo strappò ai suoi pensieri.
«Avanti.»
Justin fece capolino. «Ti disturbo?»
«Affatto, entra pure.»
Insieme a lui entrò anche un piattino con tanto di fetta enorme di
dolce. «Al diavolo ok? Non ne posso più di vederti qui costretto a mangiare
solo e solo cose che fanno bene. Questa mangiatela alla faccia della
febbre!»
«Ricordami che ti devo un favore!» esclamò afferrando il piattino e
cominciando a mangiare «Fatto tutto da solo?» gli chiese dopo aver ingoiato un
paio di morsi.
«Devi ringraziare anche la tua futura fidanzata, è stata lei a distrarre
l’esercito in cucina.»
Smise di mangiare e lo guardò male, «Vuoi piantarla, per cortesia?»
Justin ridacchiò e prese posto sul letto di fianco a lui. «Come stai?»
gli chiese poi serio.
«Direi che sto bene… è questa febbre che non si decide ad andarsene che
mi indebolisce: per alzarmi e arrivare al bagno devo prepararmi spiritualmente
almeno un quarto d’ora prima.»
«Sono tutti molto preoccupati per questo… anche Larry, li ho sentiti
parlare. Si può sapere perché hai aspettato tanto a dire che non stavi bene?»
«Oh Dio Just, ricominci anche tu adesso?»
«Ok ok, come non detto. Sei abbastanza intelligente da renderti conto
di quando fai una cazzata. Hai mezz’ora da dedicarmi?»
«Certo. Dimmi tutto.»
Suo cugino lo guardò per qualche secondo, poi… «Di cosa pensi che ti
voglia parlare?»
«Mi stai proponendo un gioco a quiz?» Al suo cenno negativo sospirò,
«Diana?»
Justin chiuse un attimo gli occhi, poi sorrise appena, «Hai fatto
centro alla prima, complimenti. E’ tanto evidente?»
Sentendosi decisamente meglio con qualcosa nello stomaco che gli aveva
dato soddisfazione nel mangiarlo, appoggiò il piattino sul comodino, «Che ne
dici di cominciare dall’inizio?»
«Certo… di solito è la tattica migliore. Non so neanche se ho un
problema con Diana… sicuramente ho un serio problema con sua madre.» Si sistemò
meglio accanto a lui e riprese, «Sai bene che la storia con lei è sempre andata
benissimo: mai una litigata seria, lo screzio più grave che abbiamo affrontato
è se andare in vacanza al mare o in montagna, perché io detesto cordialmente le
altitudini e lei detesta l’aria salmastra. Ci piacciono in linea di massima le
stesse cose, io mi trovo bene con i suoi amici, lei con i miei… le sei sempre
stato simpatico anche te, pensa. Sono cinque anni che sto con lei Juna e mi
sembra ieri che ci siamo messi insieme… quando la guardo penso ancora che sia
bellissima, parlare con lei è ancora un piacere per me e l’amo da morire…»
Per un attimo si chiese se ci fosse un trucco per riuscire a mettere in
piazza così naturalmente i propri sentimenti. A lui non sarebbe mai riuscito un
discorso del genere.
«… ma…?»
Justin scosse le spalle, «Eravamo anche d’accordo che avremmo iniziato
a parlare di matrimonio dopo la mia laurea… adesso invece, da quasi sei mesi a
questa parte, si sta parlando di fissare una data entro la fine dell’anno
prossimo.»
«Da quello che mi sembra di capire è sua madre che ne parla.»
«Fosse stato per quella donna io e Diana ci saremmo sposati dopo tre
giorni che si stava insieme! Adesso però Diana le va dietro. La differenza è
tutta qui. Non capisco cosa le sia preso, è sempre stata abbastanza
indipendente da quella iena di sua madre, di punto in bianco pende dalle sue
labbra! Sto iniziando improvvisamente a sentirmi in trappola. Non la capisco
più.»
«Immagino tu non ne abbia parlato con Diana.»
«E’ quasi una settimana che la evito.»
Si sistemò meglio contro i cuscini, «E’ con lei che ne devi parlare
Justin. So che è esattamente quello che non volevi sentirmi dire, ma non hai
altre vie d’uscita. E’ evidente che ami Diana e che lei ama te… rispondi senza
pensare: quando sua madre non c’è ci sono problemi?»
«No» rispose istantaneamente… per poi bloccarsi di colpo. «Oh Cristo.
Non ci avevo pensato.»
«Allora devi portarla lontano da sua madre e parlarle con il cuore in
mano. Da quello che ho sentito fino ad ora non hai problemi ad esternare i tuoi
sentimenti. Spiegale cosa senti, come ti senti e cosa credi che ti faccia
sentire così. Già che ci sei, chiedile se per caso la cara mammina ha iniziato
a fare discorsi del tipo che cinque anni insieme sono tanti, che ci stai
mettendo un po’ troppo a prendere la laurea…»
«Troppo??? Sarò laureato entro i ventisei anni!! Mi sto facendo
un…!»
«Non devi dirlo a me. Diana è sempre stata gelosa di te, no? Sua madre
potrebbe far leva su questo punto debole della figlia per cercare di… anticipare
la sua sistemazione» disse l’ultima frase disegnando immaginarie virgolette
con le dita in aria. «Parliamoci chiaro Justin, ok? Ho sempre pensato e sempre
penserò che la madre di Diana sia un’arrampicatrice.»
«Diana la presentarono a te per primo.»
«Ecco, ci siamo capiti. Che poi quella ragazza abbia avuto più sale
nella zucca di tutta la sua famiglia messa insieme e abbia scelto te, questo è
un altro paio di maniche. Resta comunque il fatto che sua madre ha ottenuto ciò
che voleva: sei un McGregory anche tu.»
«Ho sempre saputo che da parte di quella donna c’era dell’interesse
tutt’altro che materno. Non me ne è mai importato più di tanto perché io sto
con Diana e Diana ha sempre ragionato con la sua testa… fino ad ora, almeno.»
«E’ arrivato il momento di parlare con la tua fidanzata, soli» ripeté.
«Lascia i tuoi fuori da questa storia, magari spiegagli che se restano fuori
loro sarà più facile per te tener fuori anche i genitori di Diana. Questo è un
qualcosa che riguarda solo te e lei. Resta sottointeso che potrai contare su di
me.»
«Potremmo andarcene questo fine settimana, che ne dici?»
«Potresti chiamarla oggi stesso e proporle un paio di giorni solo tu e
lei da qualche parte… potresti anche mettere da parte la tua avversione per le
altitudini e andare allo chalet.»
Justin scattò in piedi. «Sei un genio cugino! Non ti dico niente di
nuovo, ma lo sei davvero!»
Era già con un piede fuori dalla stanza quando rificcò la testa dentro,
«Ah, dimenticavo: ho fatto un salto in ufficio stamani ed è un delirio: tuo
padre ti arriverà qui con una pila di fascicoli… ho pensato di avvisarti.»
«Grazie Justin.»
«No… grazie a te.»
Rimase di nuovo solo e gli venne in mente George.
La decisione fu immediata.
Al terzo squillo rispose Maureen, la moglie.
«Ciao Maureen, sono Juna.»
«Juna! Benedetto ragazzo! Come stai?»
«La febbre è un po’ calata.»
«Ci hai fatto stare molto in pena sai? Quando ti sei preso tutta questa
intelligenza avresti dovuto fare anche una scorta di buon senso!»
Sorrise, «Starò più attento adesso, te lo prometto.»
«Ti passo George… fatti sentire più spesso, è una vita che non ti
vedo.»
«Verrò presto a trovarti, promesso.»
La voce di George lo raggiunse, «Sei davvero quel Juna? Posso
sperare che tu stia meglio?»
«Ho ancora la febbre, ma stamani era solo a trentasette e mezzo.»
«La tua sola fortuna è che sono troppo vecchio per prenderti a
sculacciate, ma te le meriteresti tutte. Ho parlato con i tuoi.»
«Lo so, mi hanno avvisato.»
«Tuo padre o tua madre?»
«Nessuno dei due… ho i miei informatori.»
«Ah già, c’era anche Drake.»
«Non è stato neanche lui, e stai certo che questa me la paga.»
«Il tuo migliore amico si è preso una bella paura stavolta, non
infierire.»
«E’ da quando sono nato che infierisco su di lui, ormai è collaudato.
Ci sei andato leggero come un masso di una tonnellata eh?»
«Mi hai chiamato per bacchettarmi?» chiese incredulo «Stai
scherzando vero?»
«So riconoscere quando sbaglio George e ho fatto una stronzata. Non
credevo di arrivare a tanto, avevo solo mal di testa.»
«Io te la stacco, quella testa. Devo dunque arrivare alla conclusione
di aver sprecato fiato per dieci anni?»
«Ti chiamo proprio per quello. Hai da fare diciamo… domani?»
«Verrei nel pomeriggio se per te va bene.»
Ovviamente non si era fatto ripetere l’invito due volte…
«Benissimo. Arriva pure quando vuoi… e calcola che resti a cena.»
«Ah… da quando non fai qualche sano esercizio mentale?»
«Sono disposto a recuperare il tempo perso.»
«Non hai neanche il coraggio di dirmelo, andiamo bene.»
«Comunque ho delle novità e un regalo per te… sai, per farmi
perdonare.»
«Adesso sono davvero preoccupato.»
Non riuscì a trattenersi dal ridere, «Allora ti aspetto.»
«A domani Juna.»
Riattaccò soddisfatto.
Suo padre resistette fino a dopo cena.
Quando sentì il suo tipico bussare veloce e nervoso non riuscì a
trattenere un sorriso.
«Avanti papà.»
«Non voglio sapere come facevi a sapere che sono io» mise in chiaro
infilando la testa dentro… ovviamente i fascicoli erano sotto il braccio ancora
nascosto alla sua vista dalla porta.
«Allora non te lo dirò.»
«Disturbo?»
«No, affatto. Entra pure.»
Entrò portandosi al seguito una ventina di fascicoli.
Alla sua occhiata assunse un’espressione colpevole, «Lo so, è tutto il
giorno che anche tua madre mi dice che non dovrei farlo… sembrano tante, ma
sono veloci. La maggior parte sono clienti tuoi che non vogliono neanche
parlare con me, roba da pazzi. Voglio sapere cosa ne pensi di come abbiamo
mandato avanti le cose in tua assenza.»
«Se qualcosa non mi andasse bene cosa succede?»
Connor McGregory sistemò i fascicoli nella poltroncina accanto al letto
guardandolo con un misto di affetto, esasperazione e divertimento tipico di un
padre che si accorge quando un figlio lo sta prendendo allegramente in giro
essendosi accorto che le sue intenzioni iniziali sono ben lungi dall’essere
quelle espresse. «Cerca di rimetterti in piedi alla svelta pargolo perché
stiamo uscendo pazzi in ufficio, sto veramente iniziando a chiedermi come
dannazione hai fatto fino ad ora a sbrigare tutto da solo.»
«C’è chi è convinto che sia un genio» gli ricordò.
Prese posto vicino a lui, esattamente dove si era sistemato anche
Justin.
Brutto segno?
«Come ti senti?»
«Non sopporto più questa febbre papà.»
«Non ti ho mai visto fermo per così tanto tempo, non credere che non
immagini che stai per dare in escandescenza. Sono contento che tu abbia
invitato il professor Cowley, la mamma me lo ha detto. Anche i nonni sono
curiosi di conoscerlo.»
«Tu cosa aspettavi a dirmi che avevi parlato con lui?»
«Di essere abbastanza calmo. Hai un altro alleato oltre Drake vero?
Proprio ora che il tuo migliore amico si è preso una tale paura da cominciare a
pensare che a volte neanche tu sei infallibile.»
«Jennifer pensava che me lo aveste già detto… ha un’ingenuità
sconcertante per la sua età.»
«Non riesci a farmi sentire in colpa.»
«Non ci provo neanche. La mia era una semplice constatazione.»
Suo padre osservò per qualche secondo il copriletto, poi sospirò, «Ok,
nessuno dei due ci sa fare con i giri di parole, arriviamo subito al punto. Ho
fatto una bella chiacchierata con tua madre… ultimamente mi piomba in ufficio
ad intervalli regolari. Juna, sono anni che io e te non parliamo di qualcosa
che non riguarda la compagnia, ma ho sempre dato per scontato che se ci fosse
stato qualche problema tu sapessi che io ero lì pronto ad aiutarti.»
«Io so che posso contare su di te, che discorsi fai?»
«Mi sto improvvisamente rendendo conto che ho dato troppe cose per
scontate con te. Sei poco più che un adolescente, dannazione, e da quando eri
un bambino hai sulle spalle delle responsabilità che io stesso ho evitato fino
a quando mi è stato possibile. Sono sempre stato talmente orgoglioso di te da
non pensare neanche per un istante che forse le cose non stavano andando come
tu volevi. Cosa c’è che non va Juna? Perché qualcosa c’è, ormai non posso più
menare il can per l’aia. Quando sei crollato per la febbre ho sperato
che quella fosse la spiegazione al tuo comportamento, ma c’è qualcosa di più
profondo e non posso più aspettare di cercare di capirci qualcosa da solo.»
Rimase sicuramente in silenzio più del dovuto, ma non era pronto a
rispondere a domande del genere… specie da suo padre.
«Forse… forse è vero che ho sbagliato a gettarmi nella compagnia così.
Non fraintendere, mi piace quello che faccio, altrimenti non lo farei. Mi piace
lavorare gomito a gomito con te e non cambierei tutto questo per niente al
mondo. Sto prendendo in considerazione l’ipotesi di rimettermi a studiare,
papà.»
L’espressione di suo padre diventò il ritratto della sorpresa. «Hai già
qualcosa di preciso in mente?»
«Sto vagliando quattro possibilità… cioè, sto decidendo in quale ordine
prenderle.»
«Addirittura quattro… stiamo parlando di lauree immagino. Ok, spara.»
«Psicologia, medicina, giurisprudenza e arte.»
«Beh, non puoi portarne avanti più di una insieme? Voglio dire, quando
studiavi economia e commercio ti lamentavi perché ti toccava stare sempre
sulle stesse cose… avevi anche il coraggio di annoiarti.»
«Allora non credi che sia follia.»
«Follia? Stai scherzando vero? Juna, adesso hai l’età
ragionevole per andare all’università. Follia è stato farti andare
all’università a sette anni e metterti l’azienda sulle spalle ad undici. Ho
sbagliato tutto e me ne rendo conto solo ora.» Scosse la testa, «Se avessi
avuto un briciolo di buon senso ti avrei permesso di fare una vita normale… hai
un dono immenso Juna e io l’ho trasformato nella tua maledizione.»
«Non mi hai mai costretto a fare qualcosa che non volessi fare.»
«Ah no? A undici anni morivi forse dalla voglia di accollarti le
responsabilità che ti ho rovesciato addosso? Tua madre me lo ha sempre detto:
oltre al senso dell’umorismo hai ripreso anche un’altra chicca da me. Il senso
del dovere. Cosa pensi che mi abbia spinto ad accettare il ruolo di presidente
quando i rapporti con mio padre erano pressoché zero? Lo scettro del patriarca
è passato a tuo nonno anche se aveva due cugini maschi più grandi perché era il
figlio del primogenito, io sono il primogenito dopo di lui e tu sei mio figlio.
Cristo Juna, assomigli a tuo nonno più di quanto lontanamente immagini. Nella
storia della famiglia questa è la prima volta che padre e figlio prendono il
controllo della compagnia con il patriarca ancora in vita e sai perché? Per la
prima volta tre generazioni lavorano contemporaneamente all’interno della
società. Intendiamoci: sono felice per mio padre e orgoglioso di te… ma per
assecondare questa situazione eccezionale è stato sacrificato qualcosa: la tua
infanzia e la tua adolescenza.»
«Papà…»
«Sei un bellissimo ragazzo, hai senso dell’umorismo, fascino,
intelligenza, hai ripreso pienamente le doti che fanno di tua madre la donna
eccezionale che è, unite ad un qualcosa di così unicamente tuo da
renderti più che speciale. Sei in grado di comunicare con chiunque e
conquistare chiunque… e hai una sola persona che consideri amica. E perché te
lo sei ritrovato fra i piedi ancora prima di cominciare a camminare. Anche mio
padre si è dato da fare per assecondare questa cosa, lo avrei strangolato
quando ha detto di tenere da parte la poltrona della vice presidenza per
Drake.»
Un senso di allarme lo portò a guardare la porta. C’era qualcuno in
corridoio, al di là della porta chiusa.
Afferrò un braccio a suo padre che si bloccò.
Senza emettere un suono gli disse cosa pensava che stesse succedendo.
Suo padre si voltò verso la porta poi tornò a guardarlo perplesso.
Si stava forse chiedendo come facesse ad esserne così sicuro?
In quel momento bussarono e l’espressione di suo padre si fece a dir
poco sbalordita.
«Avanti.»
Entrarono i suoi nonni.
«Disturbiamo?» chiese Mansur.
Come aveva fatto suo figlio ad accorgersi della presenza dei nonni in
corridoio con la porta chiusa?
Stavano parlando, non aveva sentito nessun rumore.
Osservò la porta di nuovo chiusa cercando di rendersi conto se avesse
potuto vederli muoversi da eventuali fessure appena sopra il pavimento, ma come
tutte le porte in quella casa non lasciava spazio neanche alla luce.
«Connor?»
Si riscosse, «Sì papà?»
«Ti abbiamo interrotto?»
«No, non preoccupatevi. Stavo giusto arrivando a spiegare a Juna la
nostra idea. Vuoi prima aggiornare i tuoi nonni su quello che hai intenzione di
fare?»
Juna lo stava guardando con un’espressione indecifrabile.
Era suo figlio, quella creatura. Cosa sapeva di lui?
Juna intanto aveva iniziato a informare i nonni di voler ricominciare a
studiare.
Mansur respirò profondamente, «Beh, allora l’idea che abbiamo avuto ti
sarà davvero utile.»
«Vale a dire?» chiese Juna.
«Per un po’ tornerò a occuparmi della compagnia» rispose Patrick.
«Quando avrai voglia di staccare un po’ o… beh, dovrai dare un esame o una
tesi. Quello che è certo è che non ti occuperai più di tutto da solo. Non solo,
da adesso quando ci starai tu, Drake inizierà a starti accanto per imparare a
tener testa a qualsiasi situazione.»
«Che ne dici?» chiese Mansur.
«Per me va bene.»
Suo figlio riuscì di nuovo a sorprenderlo. Non si aspettava una così
placida resa. Probabilmente quel ragazzo non aspettava altro.
«… E se tu papà stessi pensando che non aspettassi altro, sappi che
sbagli. Il fatto è che so riconoscere un mio limite quando ci inciampo sopra.»
Chiuse un attimo gli occhi. «Ricevuto forte e chiaro.»
Juna si abbandonò contro il cuscino.
«Sei stanco?» chiese suo padre.
«No nonno… non ne posso più di stare a letto. Sto per dare in
escandescenza, per usare un’espressione di papà.»
«Magari ti alzi e ceni con noi stasera» disse cauto Mansur.
La verità è che si erano presi tutti una paura pazzesca.
Suo padre fu ancora più cauto, «Sentiamo Larry?»
Juna sbuffò, «Larry non mi farà mai alzare adesso nonno: stamani per la
prima volta dopo un mese la febbre è vicina ai trentasette.»
«Ti vedo più magro… non avevi le guance così incavate prima» disse Mansur.
«Dovresti prenderti una bella vacanza appena ti rimetti in piedi. Potresti
andare qualche settimana ai Tropici, al caldo.»
La risposta passò come un lampo negli occhi di suo figlio prima di
essere moderatamente espressa dalla bocca, «Non mi va di andare al mare… e poi
mamma mi ha passato geneticamente l’abbronzatura eterna.»
Avrebbe riso alla battuta se non fosse stata la conferma ai suoi
timori: Juna non si sarebbe allontanato da Boston fino a quando non avesse
risolto cosa lo tormentava.
Cos’era per Dio?
«Abbiamo già ottenuto che si riposi e si svaghi, non chiediamogli la
Luna tutta insieme» commentò.
Lo vide sorridere per la prima volta da quando era entrato in quella
stanza. «Non vai a fare la relazione della spedizione alla mamma?» chiese poi.
«Probabilmente sta arrivando anche lei.»
Stavolta lo vide sghignazzare allegramente.
«A proposito, ti salutano le tue zie e le tue cugine» disse Mansur.
«Gli zii no?»
Non riuscì a trattenere una risata, suo figlio era davvero
irresistibile!
«Da quando hai iniziato a parlare tendi a prendermi alla lettera,
nipote!» esclamò Mansur «Ogni genero che ho è un tutt’uno con la figlia che ha
sposato!»
«Cosa aspetti a tornare al comando della tribù?»
Mansur sorrise appena, «Non vedi l’ora di togliertene almeno uno di
torno, vero?»
«Figurati. Non far finta di non capire, sai cosa voglio dire: fino a
quando stai qui equivale a dire che sto ancora male, che tu e la nonna non ve
la sentite di allontanarvi. Non aiuti le tue figlie e le tue nipoti così.»
«Quando vieni a trovarmi? E bada bene, intendo un soggiorno di almeno
due settimane. Specie Soraya e Afef sentono molto la tua mancanza. Mi hanno
detto di avvisarti che stasera ti telefoneranno in conferenza, fatti trovare.»
Fra le nipoti erano loro due le predilette. Soraya aveva due anni in
più di Juna, Afef solo uno.
«Verrò presto nonno, di più non posso prometterti.»
Mansur annuì con la testa, «Io e tua nonna abbiamo già deciso di
partire dopo aver conosciuto il professor Cowley. Massimo fra due o tre giorni
comunque.»
«Non ho mai visto quest’uomo» disse improvvisamente suo padre. «Mi
sembra incredibile.»
A chi lo diceva.
«Non preoccuparti nonno» disse Juna. «Non è mai troppo tardi.»
Sperò ardentemente che suo figlio avesse ragione.
Improvvisamente lo vide girarsi verso la porta e tempo una decina di
secondi qualcuno bussò.
«Avanti mamma» disse Juna.
Manaar entrò nella stanza a rallentatore. «Come facevi a sapere che ero
io?» chiese sbalordita chiudendosi la porta alle spalle.
«Tuo marito ti conosce a memoria.»
Certo.
E come faceva suo figlio a sentire avvicinarsi le persone ancora prima
di vederle?
Questo non glielo avevano certo insegnato loro.
La cosa che più la preoccupava adesso era che Juna stesse dimagrendo a
vista d’occhio.
Appena usciti dalla stanza, lei lo pensò per l’ennesima volta, suo
padre lo disse a voce moderata. «Non sarebbe il caso di farlo mangiare come Dio
comanda adesso? Mio nipote si sta consumando a vista d’occhio.»
Patrick sospirò, «Voglio sentire Larry. Finalmente la febbre è scesa… è
un mese che quel ragazzo è inchiodato a letto. Che ne dici Connor?»
Suo marito rispose con un mugolio.
Era lontano anni luce da quel corridoio.
Gli toccò un braccio, «Amore?»
L’uomo che aveva giurato di amare fino alla morte la guardò… e si rese
conto che era preoccupato. Preoccupato e perplesso.
«Manaar… è possibile che nostro figlio abbia la vista a raggi X?»
La domanda la fece rimanere a bocca aperta.
«Connor, sei impazzito?» chiese Patrick.
Connor li fece allontanare dalla porta. «Andiamo nello studio, vi devo
parlare.»
Lo seguirono tutti senza emettere un suono.
Come al solito suo marito cercò la sua mano e ne intrecciò le dita. Fu
un contatto che le diede conforto.
Appena entrati nello studio, Connor prese posto in una poltrona e la
fece sedere sulle sue gambe.
Suo padre e suo suocero presero posto nel divano davanti a loro.
«Che ti frulla per la testa?» chiese suo padre a suo marito.
«Non chiedetemi come sia possibile, ma Juna sente arrivare le persone
ancora prima di vederle. E’ successo con me, sapeva chi fossi ancora prima che
entrassi. L’ho visto succedere quando siete arrivati voi due… stavo parlando e
mi ha fermato trenta secondi prima che voi bussaste alla porta ed è successo
ancora con Manaar: si è girato verso la porta quando ad occhio e croce lei ha
imboccato il corridoio.»
Rimasero in silenzio per qualche secondo, poi Patrick respirò
profondamente. «Maddie è almeno un mese che mi dice che Juna sembra vivere…» si
bloccò cercando le parole.
«… con il colpo in canna?» concluse Connor.
Non riuscì a trattenere un sussulto. La stretta di suo marito si
intensificò e una leggera carezza scivolò sul suo fianco.
«Qualcosa preoccupa a morte quel ragazzo, siamo d’accordo» disse suo
padre. «Potrebbe essere particolarmente sensibile a causa di questo?»
Altro silenzio.
«Hai avuto modo di parlarci?» chiese con un filo di voce.
«Nostro figlio vuole rimettersi a studiare Manaar» disse Connor. «Ha in
mente quattro lauree e conoscendolo le sosterrà tutte. Mi ha rassicurato che è
sempre stato cosciente che se avesse avuto bisogno di qualcosa io ero lì pronto
ad aiutarlo. Mi ha detto che gli piace lavorare con me e non cambierebbe questo
per niente al mondo. Mi ha detto esattamente quello che avevo bisogno di
sentirmi dire, ma non ha detto una parola su come si sente e su cosa lo
preoccupa. Abbiamo messo al mondo una cassaforte, amore mio.»
Sobbalzò sentendolo dire ad alta voce.
Connor serrò di nuovo la stretta. «Quello che mi fa andare in bestia è
che me ne accorgo solo adesso. Prendi i suoi numeri di telefono: sono protetti
da un codice e Drake sa quel codice. Io so solo che mio figlio ha un
solo amico su questo pianeta e questo ragazzo ha spento il cellulare di mio
figlio dopo aver preso il numero che ci serviva. So che è uscito con delle
ragazze, ma non so un singolo nome. Lui e Drake spariscono per interi fine
settimana e nessuno di noi ha la più pallida idea di cosa facciano. Mio padre
ha scoperto per puro caso che conosce un generale dell’F.B.I. e questo generale
non si è fatto ripetere l’invito la seconda volta quando mio figlio lo ha
chiamato.»
«Volevano mettersi in contatto con Jeremy già da prima Connor» disse
Patrick, «hanno preso la palla al balzo.»
«Questa è la spiegazione che ci ha dato Juna, ma cerchiamo di essere
obiettivi! Arrivare ad un governatore attraverso un ragazzo di diciotto anni?»
ribatté suo marito «Mio figlio ha diciannove anni per eccesso papà. Qui
si sta parlando dei servizi segreti degli Stati Uniti. Jeremy, che è il
governatore del Massachusetts, deve restare fuori da questa storia e vanno a
parlarne con un ragazzo che in questo paese non è ancora maggiorenne? Juna
lavora nella compagnia perché lo abbiamo reso legalmente maggiorenne, ma lo si
diventa a ventuno anni da queste parti!»
Seguì un altro silenzio, pesante come un macigno, poi fu suo padre a
prendere la parola, «Cosa stai cercando di dirci Connor?»
Suo marito scosse la testa, «Non lo so neanche io Mansur. Sto cercando
di mettere insieme mio figlio come un puzzle… e ho trovato una quantità di
pezzi che ci sono e non dovrebbero esserci e altri, che ho sempre dato per
scontati, che improvvisamente non collimano più. Non ci sto capendo più niente.
So solo che in questi giorni mi sto facendo spesso una domanda che non avrei
mai pensato di dovermi porre.»
Sentì le lacrime riempirle gli occhi e terminò il discorso di suo
marito in un sussurrò «Chi è mio figlio?»
L’espressione di suo padre e Mansur si fece a dir poco allibita.
Manaar dunque percepiva la situazione nella sua stessa maniera. Per la
prima volta maledì questa cosa.
Le fece nascondere il viso contro il suo collo e sua moglie cominciò a
piangere silenziosamente.
«Forse state prendendo la cosa per il verso sbagliato…» cominciò suo
padre cauto.
«E’ un periodo molto teso per voi, lo capisco» disse Mansur, «da che
ricordo Juna non è mai stato così male da quando è al mondo, è chiaro che siete
scossi… ma da qui a pensare di non conoscere affatto vostro figlio, ce ne
corre.»
«Mansur, non è questo il punto. Mi hai ascoltato fino ad ora? Mio
figlio riuscirebbe a convincere il suo prossimo che la Terra è rettangolare,
riesce sempre a trovare una spiegazione razionale a tutto… ma non c’è una
spiegazione che regga al fatto che non ho idea di cosa faccia o dove vada mio
figlio quando esce da questa casa… o peggio ancora da quell’ufficio. Per quanto
fossi una testa matta alla sua età e la mia libertà non andava toccata i miei
genitori sapevano dove ero e con chi quando partivo per più di ventiquattro
ore.»
Manaar si allontanò dal suo collo, «Non riesco a non pensare che la
situazione mi sta sfuggendo di mano, se non è già fuori controllo. E’ mio
figlio dannazione. Papà, tu sapevi sempre con chi ero, cosa facevo e
dove mi trovassi… il primo viaggio lontano da te è stata la mia luna di miele!»
Mansur si arrese subito davanti a quell’evidenza.
In un altro contesto la cosa lo avrebbe fatto ridere.
Suo padre sembrava assorto in qualche pensiero troppo grande per
qualsiasi cervello.
«Papà?» lo chiamò.
Suo padre lo guardò per qualche secondo, poi scosse la testa, «Per me è
stato uno shock lo scoprire che razza di controllo ha su se stesso. Anche
Jennifer, la sera che andammo da loro e Juna spiegò a Jeremy come stavano le
cose, ebbe una reazione quasi di paura nei confronti di mio nipote.»
«Ha calma e sangue freddo» disse Mansur, «uniti ad un’intelligenza
superiore alla media, fascino e carisma. Sarà che mi sono perso qualcosa, ma
perché improvvisamente ciò che era un vanto vi preoccupa? Fino a prova
contraria se fino ad ora è riuscito a fare ciò che ha fatto è anche per
questo.»
«Forse ha un po’ troppo sangue freddo per la sua età» ipotizzò suo
padre.
«Oh andiamo Patrick!» riprese Mansur «A quattro anni discuteva con noi
di finanza, a dodici ti faceva uscire dai gangheri con ragionamenti che non
riuscivi a smontare… senza mai alzare la voce. Juna non ha mai avuto
atteggiamenti consoni all’età anagrafica. Mettendomi nei panni di Connor e di
mia figlia posso capire che il rendersi conto che il proprio figlio bambino o
adolescente non lo è mai stato sia una bella mazzata, ma come possiamo
pretendere adesso di stabilire cosa è normale per lui o no?»
Ragionevole.
Suo padre dovette pensare la stessa cosa perché non replicò.
Replicò sua moglie.
«Papà, se il tuo ragionamento è giusto sono doppiamente preoccupata per
mio figlio, perché se è vero che la sua intelligenza lo ha sempre portato ad
essere mentalmente oltre la sua età anagrafica, non posso non chiedermi cosa
può preoccuparlo così.»
Toccò a Mansur non replicare.
Bussarono alla porta e sua madre fece capolino. «Ah, siete qui. Volete
scendere? Fra poco si mangia.»
La seguirono.
Entrati in sala, suo fratello Paul fu il primo a rivolgergli la parola,
«Come sta Juna?»
«Meglio, la febbre è finalmente scesa sotto i trentotto.»
«Fa colazione con noi domani mattina?» chiese Justin.
Manaar sorrise al nipote, «Non sai già più cosa inventarti per far
uscire fette di torta dalla cucina?»
Rimase spiazzato, Justin sorrise birichino, «Zia, cerco di mettermi nei
panni di mio cugino e credo sia arrivato il momento di essergli solidale.»
«Porti da mangiare di nascosto a Juna?» chiese allibita Lennie.
«Ho cominciato giusto stamani, ma zia Manaar ha un radar incorporato,
non ci sono altre spiegazioni.»
«Forse hai più sale in zucca di tutti noi messi insieme» commentò Mansur.
«Mio nipote sta dimagrendo a vista d’occhio.»
«Telefonerò a Larry fra qualche minuto papà e gli chiederò cosa fare,
ok?»
Mansur diede il suo assenso alla figlia con un semplice gesto della testa.
Michael entrò nella stanza, sorrise al mondo intero e si diresse deciso
verso la sorella, impegnata a studiare in silenzio un foglio… così in silenzio
che lui si accorse della sua presenza solo quando la vide seguendo con lo
sguardo il fratellino di lei.
«Jen, che fai?» chiese sdraiandole si praticamente addosso.
«Oh, lascia perdere Micky… ho fatto l’errore di imbarcarmi con Juna in
un discorso sui tests d’intelligenza stamani. Per premiarmi mi ha dato da
risolvere un problema di informazione minima, l’ha definito lui… ho
tempo fino a domani l’altro mattina e ancora non sono approdata a niente.»
In meno di due minuti erano tutti intorno a lei.
Lui non aveva mai fatto domande del genere a Juna.
In breve la ragazza spiegò loro cosa le aveva detto suo figlio.
Lennie lesse per la terza volta il foglio, «Questo è un test di
intelligenza?» chiese affascinata.
«Credo che mio nipote abbia voglia di scherzare» disse Paul. «Com’è
possibile scoprire il sacco fra i quattro con un solo gettone?»
«Eppure Juna mi ha assicurato che è tutto qui quello che mi serve. Mi
sta ossessionando un discorso che mi ha fatto e cioè che il concetto di
intelligenza è visto in maniera distorta, come a dire che se un problema è
sottoposto a un genio è per forza un qualcosa di complicato. In realtà è l’ovvio
che in quanto tale sfugge alla stragrande maggioranza della gente. So già che
mi mangerò le mani quando mi darà la soluzione.» Si rivolse a Manaar, «Ho già
voglia di ucciderlo.»
Manaar le sorrise, «Allora ti faccio le mie congratulazioni per la tua
promozione prima che tu finisca in galera per omicidio.»
Jennifer rispose al sorriso, «Grazie… se al momento buono mi ricorderò
che è merito di tuo figlio forse lo lascio vivere.»
«Complimenti davvero, la media dell’otto è di tutto rispetto» disse Mansur.
«Che progetti hai dopo il diploma?»
«Vorrei laurearmi in arte… ma non so ancora di preciso. E’ presto per
pensarci. Al momento comunque vorrei solo risolvere questo problema.»
«Dopo cena ci piazziamo in gazebo e cercheremo di arrivare a capo di
questa cosa» disse Paul.
Il suo sguardo incontrò quello di sua moglie e le lesse negli occhi
cosa stesse pensando: loro dovevano risolvere il problema di capire cosa
preoccupava così loro figlio e arrivare a capo di quel mistero che era loro
figlio stesso.
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NOTE:
Danke danke danke!!!!!