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Autore: Aleena    06/12/2008    1 recensioni
"Lui non è mai risalito da quei corridoi; continua a vagare, senza corpo, senza voce, mentre gli anni passano, i ricordi sbiadiscono. Perfino il suo nome scompare, facendo restare solo l’Ombra, padrone incontrastata di mura e polvere.
Ma Astrea ricorda, Astrea SA.
Era Gabriel, una volta… come l’angelo… ma lui è un demone oramai.
Ed ha dei nuovi giocattoli, i primi da secoli."
I Malandrini, un'incantesimo antico quanto la stessa Hogwarts, gelosie, tradimenti, paure... riusciranno ad uscirne indenni?
Genere: Avventura, Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: I Malandrini, Nuovo personaggio, Severus Piton
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
Capitoli:
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ENJOY THE SILENCE

  

My dream is to fly
Over the rainbow, so high
Direction sky
 
Ho luci dentro e piume fuori
Chi vola prima o poi saremo anche noi…
Sparami o sarò sempre meno quello che pensi
E lo farò, colpo su colpo io risponderò
 
Preciso nel passato, perfetto nel presente, futuro omologato
Ma io non lo voglio
 
The light divining
The light defining
The light divining
The light dividing
 
Sto morendo di solitudine
E ridono di me
Delle mie ali, ali di cera
E ridono di me
Voci inseguono nel buio la mia pelle
Il vento se le porta via
Non sembra vero
 
La saggezza è una pazzia e impedisce di vedere
Ogni uomo spera di comandare
Vive per questo e uccide anche per meno
Un altro cuore che non batte più…
Continuo ad andare…
 
These bounds are shackle free
Wrapped in lust and lunacy
Tiny touch of jealousy
There bonds are shackle free
 
Get through this night,
There are no second chances
This time I might
To ask the sea for answers
 
These bonds are shackle free

  
 

Lo scroscio dell’acqua nel lavandino era un sottofondo più che sgradito alle orecchie del Malandrino mentre, seduto sull’orrenda poltrona ocra, cercava di far lavorare la sua mente, vagliando le varie possibilità e dandosi dell’idiota ogni volta che liste d’inutili incantesimi gli venivano alla mente.
«Dovreste dormire un po’»semplice, chiaro, lineare. Strano come, pur parlando a voce così bassa, Remus riuscisse a farsi udire oltre il rumore dell’acqua e dei piatti che stava sciacquando. Stravagante come la sua voce risuonasse sempre così calma e confortante. Strano come potesse dire cose talmente inconcepibili al momento facendole passare per verità.
Assurdo come neanche Sirius trovasse nulla da ridire.
Strano come anche i suoi pensieri andassero a rilento. Bhe, pensò, sorridendo al niente, in fondo non è male questa piccola pace.
«Che hai da ridere come un’ebete, Ramoso?»
James scosse il capo e, per un istante, ebbe quasi paura che i pensieri potessero andare alla deriva con quel semplice movimento e spargersi per la stanza. Merlino, di sicuro Sirius si sarebbe fatto quattro risate, mentre la Evans lo avrebbe quasi sicuramente strozzato.
«Niente. Remus ha ragione, andiamo» disse James con voce roca, scacciando dagli occhi l’immagine dell’amico che, chino al suolo, frugava fra le foto animate che erano i suoi segreti mentre Lily stava in piedi dietro di lui, scioccata. Fece per sollevarsi, con uno sforzo che gli parve eccessivo. Merlino, mi sto solo alzando!
«Ti serve un accompagnatore, grande campione di Quidditch?»
L’ultima cosa di cui aveva bisogno, l’indifferente ironia di Astrea. In piedi, lanciò un’occhiata al gruppo di reclusi distesi sulle poltrone, intenti nella loro personale lotta contro il sonno. Per i Grandi Maghi del Medioevo!, persino lui avrebbe dormito anche su quella poltrona, non fosse stato per lo spiffero gelido che aveva cominciato a ghiacciargli la schiena.
«Ci sono delle stanze di là, o sbaglio?»
L’acqua aveva smesso di scorrere, sostituita dal rumore dei passi di Remus che si avvicinava, strofinandosi le mani con un panno bianco, imprimendo su questo labili aloni d’umidità e gocce.
«Un letto doppio, un singolo e un altro doppio, di là» fece un cenno con la testa ad indicare l’uscio dietro il quale la figura di Piton si era rintanata.
«Che precisione…» fu la svogliata risposta di Astrea, che parve fermarsi prima di aggiungere qualcos’altro. Sbuffando, sprofondò un altro po’ nella poltrona «scegliete pure. Io aspetto qui che si liberi la mia» concluse, atona.
«Parla chiaro, già faccio fatica a seguirti» Sirius si era alzato, leggermente insicuro sulle gambe.
«Io dormo da sola» fu la laconica risposta.
«E con ciò? »
«… con ciò, appena il caro Piton esce da lì, mi ci insedio io. Le altre stanze sono troppo luminose» chiuse gli occhi e scosse la testa. Aveva freddo ed una vaga sensazione di malessere, correlata al non sentirsi realmente partecipe alla conversazione, come se i pensieri e le parole messi in gioco non fossero suoi.
«Ti sembra il caso di fare la bimba viziata? Alza il culo e vieni»
«’Fanculo»
Completamente sveglio ora, Sirius si rabbuiò e con passo veloce uscì dal salotto, prendendo la via del corridoio che conduceva alle camere.
Quando il rumore della porta sbattuta cessò, Remus posò lo straccio sulla poltrona che aveva occupato James e si diresse senza una parola verso l’uscio, per sparirvi oltre.
«Quanto mi piacerebbe, davvero, sapere che cazzo succede qui» sussurrò James; e su quest’ultima nota anche l’ultimo Malandrino lasciò il salotto e la pallida figura di Astrea stesa sulla poltrona, con una mano sulla fronte.
 
Remus non era mai stato un tipo calmo. Certo ne aveva tutto l’aspetto ed i modi ma nell’animo era convinto che la sua maledizione non fosse altro che la giusta trasposizione di un carattere che non sapeva appieno esprimere. Come ora. Avrebbe voluto urlare anche lui, scagliarsi contro il primo diversivo che avesse incontrato, disegnarsi sul volto più che una vaga espressione di divina calma, potersi permettere anche lui la stessa lugubre espressione, la tremula impazienza di James o l’ira ingiustificata di Sirius. Avrebbe dato qualunque cosa per potersi sfogare e piano, nella parte più nascosta della sua anima, invocava l’arrivo della luna piena.
Avrebbe dato qualunque cosa per poter divenire qualcun altro; perfino Severus, perfino il povero Peter.
Scosse il capo impercettibilmente e guardò i suoi compagni da sopra quel misero pasto che era riuscito a metter su. No, forse non avrebbe scambiato il suo posto proprio con chiunque; e mentre formulava questo pensiero, labile e distorto dai vapori dell’insofferenza, della stanchezza e del vago malessere, i suoi occhi si erano posati sulla rigida e gelida maschera di Astrea.
No, decisamente, non avrebbe voluto essere nei suoi panni.
 
Aveva predisposto quel piccolo banchetto, lavato i piatti perfino.
Quale persona normale si metterebbe a cucinare e pulire dopo una nottata come questa?
Era stanco, sfinito da tutta quella logica, fredda e indifferente calma. Ora se ne stava disteso a cercare il sonno, invidiando il respiro calmo di Ramoso accanto a sé. Almeno nel sogno c’era quiete per James.
Per lui era diverso: oltre il velo delle palpebre era in attesa Il Lupo, famelico e diabolico regista, abilissimo nel mostrargli la nuda realtà della sua anima. Sognava spesso di corse, del vento e del sapore metallico delle sue vittime. Fantasticava di distese infinite bagnate dalla luna e di una figura lontana, verso la quale correva, che desiderava sopra ogni cosa e così diversamente d’ogni altra.
Era un abilissimo regista, Il Lupo. Poteva sentire il suo cuore fremere della sottile ebbrezza della corsa, il pelo del suo dorso attraversato dalla velocità del vento, la mente completamente libera, svuotata da ogni pensiero; e poi quella figura, lontana e nitida, che non voleva ammettere d’aver riconosciuto, alla quale non aveva mai nominato o ripensato, la mattina successiva. A questo punto l’ebbrezza cominciava a mutarsi, il battito accelerava improvvisamente e perfino la sensazione dell’aria si acuiva. Il suo cervello perdeva ogni cognizione finché non arrivava ad esistere solo quella figura indistinta e vivida verso cui correva, ormai uomo. Poi…
Poi non c’era altro. O meglio, quello stesso logico impulso che lo rendeva così pateticamente perfetto cancellava dalla sua mente quell’immagine, quei suoni, quei rumori, quei colori, quelle sensazioni; e pur volendo, non sapeva osare d’ndugiare su quei secondi che precedevano la veglia.
Il respiro di James si era fatto irregolare. Un incubo. Sorrise al nulla, abbassando le palpebre, e il suo ultimo pensiero, in quell’istante di dormiveglia in cui la coscienza dorme già, fu la speranza di poter vivere ancora quel sogno.
 
Il sole era al suo Zenit, oltre le mura, e mentre nessuno notava la loro assenza, un ombra scura e quasi inconsistente s’allontanava furtiva dalla figura pallida ed addormentata di Astrea.
 
Sirius s’era rintanato nella piccola stanza dalle pareti celesti, sbattendo la porta alle spalle e serrando l’uscio dietro le proprie spalle, finendo col buttarsi pesantemente sul letto.
Era arrabbiato, in collera con tutti e con nessuno o, forse, solo con sé stesso, anche se quest’ovvietà non aveva un perché definito. Solo, ogni parola, ogni gesto, ogni silenzio, ogni pensiero sottinteso lo infiammavano come alcool su una fiamma. Aveva paura, e molta, ed anche se non l’avrebbe mai ammesso ad altra voce non poteva tenerselo nascosto: lui e quella sua stupida idea erano la causa di tutto questo.
Era sprofondato nell’angoscia e tutto il suo corpo pareva soffrirne: tremava, la pelle gelida quasi si trovasse ancora all’esterno, nel vento freddo della notte invernale. Scivolò su di un lato, le braccia ad avvolgerlo, a difenderlo dal gelo della sua paura che scivolava prepotente lungo la spina dorsale. Non aveva voglia di trascinarsi dentro la coperta e una parte recondita della sua testa diceva che, in fondo, non sarebbe servito a nulla. Il calore materiale non poteva combattere la forza del senso di colpa.
Chiuse gli occhi. Aveva sonno, una sensazione improvvisa di pesantezza come se tutta la rabbia ed il rimpianto pesassero sulle sue palpebre, simili a mani dalle dita affusolate che, delicate ed invitanti, gli chiudessero le palpebre.
Scivolò nel torpore senza accorgersene, con sorprendente rapidità, paragonabile al fluire delle ombre su di una parete quando soffia il vento. Il volto del ragazzo però non era sereno, anzi recava su di sé il peso degli accadimenti, come se fosse ancora sveglio o il sogno fosse vicino alla realtà.
Corrugò la fronte,  girandosi sul fianco opposto e rannicchiando le gambe, mentre silenziosa un’ombra scivolava sulle pareti, viaggiando lesta e sorvolando il copriletto blu scuro, confondendosi fra i capelli del giovane e avanzando, scendendo più giù, fino al petto.
Poi furono solo silenzio e la mano dalle lunghe dita del ragazzo a stringere la coperta.
 
… inizia il gioco… fin troppo facile…
 
L’aveva sognata ma non per questo era meno inquietante. Un’ombra nera, la stessa che, lo sapeva, aveva preso il Topo, si era alzata leggera dal suo petto per volarsene via.
Era stesa sulla poltrona, una mano sulla fronte, gli occhi chiusi ed il respiro in rantoli stentati; si vedeva come se fosse fuori dal suo corpo e provava una sensazione di schifo mista a pietà alla vista di quella sé stessa in cui non riusciva a riconoscersi. Aveva provato a muoversi, a volgere il capo lontano, verso la stanza o le pareti, ma nulla c’era, solo sé stessa ed il buio intorno a sé.
E quella figura stesa sulla poltrona.
Mosse il braccio perché sentiva male al petto, un peso opprimete che saliva fino alla gola, amaro. Era frustrante non aver nessun controllo sul proprio corpo; aveva voglia di piangere ed osservava la figura, ora, perché l’oscurità intorno a lei si era popolata di visioni con le quali non voleva dover fare il conto, ricordi ed immagini e pensieri che la attiravano e disgustavano ad un tempo, molto più della figura dinnanzi a sé. Eppure, quelle immagini erano un così giusto quadro.
L’aveva appena pensato che la morsa al petto ed al collo s’allentò e lei poté chiudere gli occhi a quelle visioni, per riaprirli in un sogno in cui tutto era diverso, perfino lei stessa.
 
È in piedi nella stanzetta dalle pareti celesti. Solo che ora le pareti sono grigie, come il letto, come i suoi abiti. Tutto pare essersi tinto del colore della polvere, o sporcato, nel brevissimo lasso di tempo in cui i suoi occhi si sono chiusi. Eppure è tutto così uguale, così terribilmente reale.
La coperta è morbida sotto le sue dita ed i suoi passi riecheggiano nel silenzio della casa addormentata. È notte, notte fonda. Non si chiede comefaccia a saperlo, la sua stessa certezza è motivo più che sufficiente. Avanza di pochi passi ed è alla porta, che guarda come stupito, quasi a chiedersi cosa volesse fare; è allora che se ne accorge. Al braccio sinistro c’è qualcosa che string, fastidiosamente. Abbassa lo sguardo su un piccolo braccialetto. Non riesce a distinguerne il colore, nel grigio, ma ricorda che ne esiste un gemello.
Come esiste una copia di sé stesso.
Ed allora apre la porta con un pensiero nella mente, il rumore dei suoi passi un’esplosione nel silenzio della notte, così sbagliati e così giusti, colpevoli di aver infranto la calma.
È reale, tutto troppo reale per non essere vero. Perfino la grigia immobilità nella quale si trova è troppo e questo è quasi insopportabile. Vorrebbe che tutto avesse i contorni del sogno perché non riesce a concepire questa realtà. Non vuole concepirla.
E nel silenzio è al salotto e volge lo sguardo alla poltrona sulla quale è certo d’averla lasciata.
Lo straccio di Lunastorta è caduto dallo schienale della seduta finendo scomposto sui cuscini che hanno ancora la forma di Ramoso. Uno sportello è lasciato aperto e rivela delle bottiglie dalle etichette ovali, mentre il lavandino perde gocce che cadono a distanza di uno o due minuti. Ormai è convinto che sia reale, ha smesso di pensarci. Si muove, dirigendosi verso il lavabo, forse per chiudere il rubinetto dato che il rumore lo infastidisce. Plink plink plink. L’aria è pesante e, passando, potrebbe aver urtato l’incorporea figura di qualcuno che osservi la poltrona, un’espressione di disgusto e timore sul volto. Ma si volta e non c’è nessuno, solo quel rumore che lo infastidisce. Plink plink plink. Chiude con uno scatto nervoso il lavandino e torna indietro, sbadigliando. È vicino al corridoio quando lo sente.
Plink plink plink.
Forte, come una serie di piccole esplosioni nel silenzio della notte.
Si volta, la rabbia che gli colora il volto, solo per accorgersi che non c’è nessuna goccia che cade.
Perfino il rumore è cambiato. Ritmato, frammisto di voci e respiri concitati, famelici ed entusiasti.
Conosce quel rumore e con orrore volge lo sguardo alla stanza nella quale si è rintanato Piton. La porta è chiusa ma nulla può nascondere quei rumori alla notte.
Rumori di risate e sorrisi divertiti sui loro volti. Ridono, ridono di lui e della sue espressione, della sua mano tesa alla maniglia. Ridono della sua paura, della sua immobilità, della sua rabbia, del braccialetto che stringe troppo al polso, quello stesso groviglio di fili che l’altra, lo sa, non indossa.
Ridono e ride la notte con loro, sospira la notte con loro, ansima e chiude le palpebre, li osserva.
Chiude la mano sulla maniglia, e apre l’uscio sulle due figure.
 
Lontano, nella quiete del primo pomeriggio immerso nel sonno, una figura ride, alle spalle del giovane Sirius addormentato che, ignaro, nel sogno stringe le lenzuola e serra le labbra.
 
… che il gioco cominci.

 
 



[Le song nell’ordine sono: Rise Up – Yves La Rock / Sparami – Litfiba / Si Pùò – Litfiba / Allergic (to Thoughts of Mother Earth) – Placebo / Ballata – Litfiba / Sulla Terra – Litfiba / Ask For Answers – Placebo]
  
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