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Autore: MartiM_04    21/02/2015    3 recensioni
CS AU/ Dopo essersi trasferita a Boston lasciandosi alle spalle un passato doloroso, e avendo capito che neanche questo sarebbe bastato per dimenticare, Emma ha la certezza che la sua storia sia una delle più complicate da raccontare. Ma nel momento in cui questa si intreccia con quella di qualcun'altro, comincia a pensare che forse ci sia la possibilità di riscriverla. Forse, la possibilità di imparare a vivere di nuovo, si trova qualche piano più in basso.
Genere: Angst, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, David Nolan/Principe Azzurro, Emma Swan, Killian Jones/Capitan Uncino, Mary Margaret Blanchard/Biancaneve
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 1- BOSTON
Era restia ad ammetterlo, ma nulla poteva essere paragonato alla sensazione che si provava guidando il suo vecchio maggiolino giallo: come rimanere fermi in una bolla  mentre attorno il mondo continuava a scorrere fino alla prossima fermata; come allontanarsi da casa, senza mai lasciarla davvero.

Era proprio per questo che aveva affrontato il viaggio fino a Boston a bordo di una Station Wagon di seconda mano, e solo l’enorme massa di pensieri che si erano succeduti  nel frattempo l’avevano distratta dalla grande scomodità nel  guidarla. Fra tutte le cose che si era lasciata alle spalle, la sua auto sarebbe stata una di quelle di cui avrebbe avuto più nostalgia.
Ma si era ripromessa di tagliare ogni filo che la legasse a quella vita, ed era una promessa che intendeva mantenere, non importava quanto difficile sarebbe stato.

Il clima caotico della grande città fu senza dubbio la prima cosa che notò non appena arrivò in quel disomogeneo ma perfetto susseguirsi di palazzi imponenti e altissimi grattacieli che sarebbe stata la sua nuova casa, e forse non era troppo resto per cominciare a considerarla tale. Era stata a Boston altre volte prima, aveva passato diversi mesi a cercare un appartamento decente e non troppo in periferia, e dopo averne trovati un paio, era stata in città diverse volte per vederli di persona e prendere una decisione. Senza contare  tutti gli svariati incontri con il proprietario dell’appartamento per la vendita di quello che infine aveva scelto come suo nuovo piccolo inizio, e gli incontri con quello che a tuti gli effetti sarebbe diventato il suo nuovo capo ,dopo il trasferimento.
Ma questa volta era diverso. Fare ingresso in città con la consapevolezza di non essere solo di passaggio, con la consapevolezza che il caos avrebbe preso il posto della tranquillità cui era abituata; che i suoi occhi si sarebbero abituati al confusionario panorama della metropoli costituito da alte costruzioni che si perdevano nel cielo limpido, dimenticando l’orizzonte del mare che circondava la sua vecchia casa e la invadeva con il suo caratteristico odore, conferendone  freschezza. Era impossibile negare che continuasse ad amarla: la piccola città in cui era cresciuta e aveva passato gli anni migliori della sua vita; ma anche i peggiori. E proprio quel  pungente, doloroso passato legato ad essa le ricordava il motivo per cui in maniera così drastica aveva deciso di rinunciare a tutto ciò che amava. Lo aveva deciso nel momento in cui aveva perso una delle cose più importanti fra queste. Allora aveva deciso di cancellare e ripartire da zero.


E Boston era senza dubbio un posto in cui si respirava smog e aria di nuove opportunità, ma anche il più lontano possibile da casa. Era il luogo perfetto per ricominciare.

Osservava attentamente  la folla che frettolosamente passava da un marciapiede ad un altro, popolava le strade e subito le lasciava libere al passaggio non meno frenetico delle auto, centinaia di voci, rumori di ogni genere si mescolavano ai fumi della città e ne riempivano l’aria, in modo tale che bastasse una sola folata di vento a far entrare l’intera Boston attraverso il finestrino. Ed era meravigliata al solo pensiero che presto anche lei avrebbe avuto quel tipo di vita.

Dieci minuti fu il tempo che impiegò per raggiungere il quartiere in cui si trovava quello che sarebbe stato il suo nuovo appartamento, e nello svoltare l’angolo della strada la sua attenzione fu colta da quello che sembrava essere il palazzo più basso e meno imponente dell’isolato, per quanto un palazzo potesse esserlo in una grande città come quella. Mantenendo una mano sul volante e procedendo con cautela, afferrò con l’altra mano un piccolo pezzo di carta che giaceva leggermente accartocciato nella tasca della sua giacca, e gettando lo sguardo su ciò che c’era scritto e poi di nuovo sui palazzi che costeggiavano la strada, si fermò in corrispondenza dello stesso edificio che aveva attirato la sua attenzione. Il numero 158 a caratteri cubitali vicino all’ingresso principale era il segnale che quello era il posto giusto.

In breve tempo, riuscì a trovare parcheggio lì vicino, e scesa dall’auto si precipitò ad aprire il bagagliaio per tirarne fuori , uno alla volta, due scatoloni ben sigillati: la sua roba, le sue cose. Tutto ciò che aveva deciso di portarsi dietro dalla sua vecchia vita, riempiva il limitato spazio di due scatoloni di media grandezza.
Avrebbe voluto fermarsi per un istante e cercare un posto dove pranzare, avrebbe voluto aspettare l’agenzia dei traslochi prima di entrare nel nuovo appartamento, ma l’idea di poter dare un’occhiata a quello che era un frammento della nuova esistenza che le si prefiggeva era talmente forte, che poteva giurare di sentire le chiavi nuove di zecca bruciare nella tasca in cui le aveva relegate all’inizio del viaggio, quasi fossero roventi, E inconsciamente  portò la mano alla giacca e afferrò quella fonte di calore inesistente, facendo dondolare le chiavi mentre a grandi passi sicuri si dirigeva verso il portico, e tremò mentre oltrepassata la porta d’ingresso, saliva impaziente le scale; come tremò nel maneggiare le chiavi quando si accinse ad aprire la più piccola porta bianca al terzo piano di quel palazzo che ne aveva sette.

Aprì la porta senza neanche accorgersi di stare trattenendo il respiro, e alla vista di quell’ambiente vuoto e privo di identità fu colta improvvisamente da un lieve panico: il pensiero di voltare le spalle e correre via, di afferrare il cellulare e chiedere scusa per aver così stupidamente rinunciato a tutto ciò che aveva, perché non era pronta per ciò in cui si sarebbe trasformata la sua vita, le balenò nella mente per un momento, lungo il quale rimase ferma, quasi paralizzata a fissare quello spazio vuoto sul quale in quel momento non poteva avere che dubbi. Del quale non poteva avere che paura. Nei mesi precedenti,  c’era stato un solo momento in cui era riuscita a prendere una boccata d’aria e a mettere fine a quella costante sensazione di star annegando: quando  inaspettatamente una delle sue più grandi aveva preso vita ,tutte le sue certezze erano crollate rovinosamente, e l’unico, piccolo scorcio di luce, che si era espanso giorno dopo giorno  era la prospettiva di un nuovo inizio., e tutto quel tempo passato a rimuginare su quella decisione, a pensare a quali conseguenze avrebbe portato , all’impedirsi con tutte le sue forze dal cedere alle parole di chi voleva che restasse e a trattenere lacrime per non mostrare più debolezza, ora sembrava essere stato vano. Ogni singola promessa che aveva fatto e che fino a qualche istante prima era stata sicura di poter mantenere, sembrava svanire sempre di più ad ogni respiro, mentre il ricordo di tutte le vite che si era lasciata alle spalle, tutti i volti a cui non senza rimorso aveva dovuto dire addio e tutte le lacrime che aveva trattenuto per non mostrare più debolezza sembrava tornare insistente e allora tutto ciò che aveva fatto per arrivare a quel punto, e non solo il tempo, sembrava essere stato vano. Perché difronte a quel nuovo inizio tanto agognato lei stava tremando.


Era davvero arrivata a quello? Al punto in cui la paura prendeva il sopravvento sulla determinazione, distruggendo tutto ciò che aveva costruito un’altra volta?
Chiuse gli occhi, stringendo nella mano le chiavi ancora nella serratura e portando il suo peso del suo corpo su un lato.

I ricordi dell’ultimo periodo (le pagine più brutte della sua storia) le scorrevano veloci davanti agli occhi serrati, e cominciò a sentire quello strano e lieve sentimento di rabbia espandersi all’interno; partire dal centro e scorrerle nelle vene per raggiungere infine ogni angolo del suo corpo. Avrebbe mandato tutto al diavolo senza neanche tentare di combattere un’ultima battaglia, avrebbe rinunciato ad aprire gli occhi perché sapeva di non essere in grado di guardare ciò che aveva davanti. Dio, l’avrebbe data vinta a chi non si era fatto scrupoli a ridurla in un cumulo di frammenti di un’esistenza un tempo fiera e le aveva fatto pesare gratuitamente la sua debolezza negli ultimi tempi. La rabbia cominciò ad invaderle il pensiero interrompendo lo scorrere imperterrito di immagini che le avevano ricordato uno dei principali motivi per cui aveva deciso di spezzare tutti i fili che la tenevano legata alla sua vecchia vita.
Si era sentita come un burattino, distrutto a tal punto da farsi pilotare da altri. E ora che aveva la possibilità di riprendere il controllo, non l’avrebbe lasciata andare.

Riaprì gli occhi, e la rabbia svanì come vapore, spannandole la vista, e lentamente lasciò la presa sulle chiavi, portando la mano lungo il fianco.
E mentre osservava la forte luce (del sole coperto da alcune nuvole) illuminare gli spazi vuoti e anonimi difronte a lei, sentì anche la paura svanire a poco a poco.
Era lì, la sua pagina bianca. Stava a lei ora decidere come scriverla.
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“Ah!” serrò le palpebre, sul viso un’espressione sofferente. Poggiò per un attimo la schiena contro la parete, solo il tempo necessario o far passare il dolore, mentre riaprì gli occhi per lanciare uno sguardo omicida alla piccola cassettiera poggiata contro la parete difronte a lei, quasi come se potesse vederla. Era piccola, e di un legno dal colore scuro; a dire il vero, non rientrava molto nei suoi gusti, ma ricordava ancora gli occhi supplicanti con cui sua madre le aveva chiesto di portarla con sé a Boston, e come lei si era stupidamente lasciata convincere. L’aveva piazzata nell’ingresso,  sotto gli interruttori, solo per compiacere qualcuno che forse non avrebbe neanche mai messo piede in casa sua, date le circostanze, e si ostinava a volerlo tenere per qualche ragione, nonostante stesse diventando parte della routine quotidiana sbatterci  il ginocchio contro ogni volta che usciva. Ovviamente, il dolore che seguiva era allucinante.

“Ti odio.” disse con astio rivolta al mobiletto, per poi distogliere lo sguardo e posarlo sull’orologio in cucina. Era in anticipo, come lo era stata nelle due settimane precedenti ,da quando aveva cominciato a lavorare come membro del Dipartimento di Polizia di Boston, e nonostante il suo cellulare non stesse squillando e nessuno l’avesse avvertita di un’emergenza, si sarebbe comunque recata lì prima del dovuto. L’appartamento era stranamente silenzioso al mattino, e non ci aveva ancora fatto l’abitudine.
Scese le scale di corsa, e aperta la porta d’ingresso, si ritrovò subito immersa in un’atmosfera umida. Pioveva, prevedibile. E non ci aveva fatto caso. Ancora più prevedibile, come poteva esserlo  il fatto che di questo passo un giorno avrebbe scordato il proprio nome, senza farci troppo caso.

Svegliati Emma, dannazione. Pensò subito mentre si preparava all’idea di correre sul marciapiede bagnato per una decina di metri per raggiungere la sua auto; ma al primo scivolone preso dopo poco tempo, decise che finire in una corsia d’emergenza al pronto soccorso non sarebbe stato il modo migliore per cominciare la giornata, e cominciò a camminare tenendo invano una mano sulla testa per proteggersi dall’acqua.

La stazione del Distretto A-7 non era che a qualche chilometro di distanza dal suo quartiere, ma la forte pioggia, l’asfalto bagnato e il traffico mattutino resero il tragitto interminabile. Dopotutto non sarebbe stata esattamente in anticipo. Dopo minuti infiniti passati fra code e semafori, riuscì a trovare fortunatamente parcheggio vicino all’ingresso della stazione, in modo tale che una volta fuori dall’auto, la condizione in cui verteva  non potesse peggiorare più di tanto. Le luci della stazione, già accese a causa della giornata cupa, erano di un bianco fastidioso, e illuminavano gli elementi dell’ingresso in modo tale da rendere perfettamente visibile anche il più piccolo dei particolari in una maniera irritante, eppure, una volta dentro, tirò un sospiro di sollievo per l’ambiente asciutto in cui si trovava. Sentiva il tessuto della camicia incollarsi sulla pelle ad ogni movimento e ad ogni respiro, per quanto era bagnato, e notò specchiandosi nel vetro della porta che l’acqua le aveva reso i capelli più scuri di qualche tono, lasciando però intatto quel poco trucco che ogni mattina si convinceva a mettere. Era senza dubbio il ritratto del perfetto membro delle forze dell’ordine, pensò ironicamente.
Sospirando nervosamente, si avvicinò alla scrivania difronte all’entrata, poggiando i palmi sul legno rovinato e regalando un sorriso involontariamente sarcastico a chi si trovava dall’altro lato.

“ La sua è una delle prime facce che vedo ogni mattina,” disse sorridendo la ragazza dai capelli scuri mentre sfogliava l’ammasso di documenti difronte a lei, come se ne stesse cercando uno in particolare. “ mi chiedo come faccia ad arrivare qui tanto presto pur non avendone il bisogno, soprattutto in giornate come questa.” Indicò con lo sguardo la porta,  ripetendo a voce alta quello a cui Emma non aveva fatto che pensare dal momento in cui era incappata nel primo semaforo rosso quella mattina. Perché lo facesse, non lo sapeva neanche lei.
“Non sono un tipo mattiniero, se è questo che vuoi sapere.” Disse infine continuando a sorridere pensando alla riluttanza con cui si buttava giù dal letto ogni mattina, prima di notare come lo sguardo della ragazza si fosse posato sui suoi abiti fradici. Apparentemente sorvolando sullo stato in cui era ridotta, continuò.
“Ciò nonostante non si concede il lusso del ritardo, signorina Swan.”  se avesse dovuto descrivere l’espressione che la giovane sfoggiò in quel momento, Emma avrebbe detto fosse di  ammirazione nei suoi confronti.  Nonostante fosse arrivata lì da poco più di due settimane, aveva notato sin dai primi giorni lo strano ascendente che aveva su Meredith.  Non riusciva ancora a spiegarsi cosa di una persona come lei, con nulla di speciale se non un vecchio distintivo chiuso in cassetto(parte integrante del suo vecchio lavoro), potesse affascinare qualcuno, soprattutto se questo qualcuno non era che qualche anno più giovane e con una brillante carriera davanti. Lei si sentiva solo “Emma”, eppure entrare in stazione ogni mattina ed essere accolti da un caldo sorriso di benvenuto da una persona che la conosceva a malapena, la faceva sentire ,anche solo per un momento, più determinata; al pensiero che se davvero era ancora in grado di suscitare ammirazione, forse qualcosa della vecchia Emma Swan era rimasto, forse c’era ancora qualcosa di cui essere fiera.

E lo scambiare qualche parola ogni mattina con l’unica persona che lì dentro poteva considerare un’amica, riusciva sempre a strapparle un sorriso.

Sollevando un documento dalla pila sulla scrivania, il sorriso di Meredith venne sostituito da un’espressione dubbiosa.
“Il suo turno di pattuglia non è che fra un’ora” disse rivolgendole lo sguardo “Mi dispiace sembrare ripetitiva, ma che accidenti ci fa qui a quest’ora?” . Emma trattenne una risata alla sua incredulità, pensando ironicamente che avrebbe potuto benissimo rispecchiarne la propria.
Oh, non avevo nient’altro da fare. Sapeva che se avesse davvero risposto così, sarebbe stata la semplice verità. Non aveva nessuno da svegliare al mattino, o a cui preparare la colazione, o da aspettare per uscire di casa. Avrebbe potuto, ma non era così, e mentire non avrebbe avuto senso.
“Avevo delle cose da sbrigare in stazione stamattina” tagliò corto allontanandosi dalla scrivania. Aveva davvero alcune cose da compilare in ufficio prima di cominciare il turno, ma dopotutto, non doveva niente a nessuno, al diavolo quello che sarebbe potuto essere, al diavolo la verità.

“Meredith” disse accostandosi nuovamente al banco, questa volta chinandosi leggermente “Mi chiamo Emma. Non credo neanche che Miss. Swan ci viva in Massachusetts” . In effetti, l’ultima volta che l’aveva vista (prima che la rispedissero in affidamento, lasciandole nient’altro che un cognome che aveva conservato), era  stato a Philadelphia; pensò sorridendo.
“Oh, va bene.” La ragazza annuì con un accenno di risata mentre , mantenendo il lieve sorriso, Emma imboccò il corridoio, sperando che ,visto il tempo da lupi, Boston rimanesse tranquilla almeno per un giorno.
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Senza dubbio, la vita da sceriffo era molto più semplice. Non facile e scevra di ostacoli, ma sicuramente fare pattuglia per ore in una grande città ad alto tasso di criminalità e rischio di incidenti si era rivelato molto più stressante del tenere sotto controllo una piccola città, spesso abbastanza tranquilla da permetterle di svolgere il proprio lavoro da dietro una scrivania. La stanchezza riusciva a raggiungere i livelli più alti anche nelle giornate meno impegnative, e cominciava a notare quanto le fosse inevitabile tirare un respiro di sollievo ogni qual volta tornava a casa sua; anche solo fermarsi a contemplare il portico del condominio era una grande gioia.
Tuttavia, dovette farne a meno quella sera, dal momento che il freddo pungente di metà Novembre aveva reso la forte pioggia che non aveva smesso di venire giù ancora più insostenibile, e raggiungere l’interno era diventata una delle sue priorità. Dimenticando ciò che si era ripromessa quella mattina a proposito del marciapiede bagnato, corse per tutto il tragitto dalla sua macchina fino al numero 158, pensando che date le circostanze e la sua mancata voglia di prepararsi la cena, passare la serata al pronto soccorso sarebbe stata un’ottima opzione.  Fortunatamente, dovette mettere da parte quel pensiero nel momento in cui raggiunse la porta principale, scostando i capelli fradici dal viso per cercare le chiavi e fuggire definitivamente da quell’inferno.

Le chiavi.

“Cazzo..” mormorò accorgendosi di non avere con sé la borsa, e imprecò  una seconda volta nel constatare che le chiavi non erano nelle tasche dei suoi jeans, né in quelle della giacca. Si voltò verso la strada cui aveva dato le spalle un’istante prima e alzando gli occhi al cielo si preparò ad un’altra corsa sotto l’acqua.
Dopo circa una decina di minuti e qualche litro d’acqua in più, riuscì finalmente ad aprire la porta di ingresso, osservando con estremo sollievo lo spazio spoglio, ma asciutto e illuminato da una calda luce fioca, dell’ingresso. Pur non essendo ancora propriamente a casa sua, lasciò che per un attimo la stanchezza prendesse il sopravvento e lasciando cadere la borsa sul pavimento, si accasciò contro la parete, sospirando. Sentiva alcune gocce scorrerle ancora lungo il viso e le asciugò con una mano. Non era stata una delle giornate più impegnative, ma il turno doppio per coprire un collega l’aveva resa infinita: due tamponamenti in zona e un ingorgo stradale intorno a mezzogiorno, e il cielo sapeva quante volte avevano ripetuto il giro della zona Est di Boston sotto l’interminabile pioggia. Eppure, insieme al peso dei vestiti bagnati poteva sentire anche quello della fatica, e pensò che forse non sarebbe stato tanto grave se avesse saltato la cena e fosse immediatamente sul letto,  ne lo sarebbe stato se per una volta si fosse concessa quel lusso del ritardo di cui parlava Meredith.
E in più, era già mercoledì, e non aveva ancora trovato il tempo di chiamare i suoi genitori, ai quali aveva espressamente detto di aspettare che si facesse sentire. Forse avrebbe dovuto smettere di fingere e parlare loro espressamente, dire che più che il tempo, era la forza di chiamarli ad essere difficile da trovare, almeno con loro sarebbe stata onesta. Sarebbe stato un inizio, ma avrebbe sicuramente aperto un discorso sulla sua scelta di andare via dal Maine che non era in vena di affrontare, e chissà se mai lo sarebbe stata. Almeno per quella volta, si convinse che andava bene così.

“In effetti a volte sa essere davvero fastidiosa,”. Era talmente da un’altra parte con la testa da non essersi neanche accorta di non essere più sola, che qualcuno le si era avvicinato e che ora le stava parlando. Avendo probabilmente capito di averla colta alla sprovvista dall’espressione incredula che le si stampò sul volto, l’uomo dai capelli corvini a fianco a lei continuò . “La pioggia, intendo. Anche se devo ammettere che per me ha il suo fascino.” disse voltandosi leggermente verso la porta ,attraverso la quale si riusciva ad intravedere la miriade di gocce che martellavano il suolo con violenza, per poi rivolgersi nuovamente a lei con un inaspettato sorriso. E fu la sicurezza in esso racchiusa che la fece tornare definitivamente alla realtà, abbassando lo sguardo per mantenendo quell’espressione incredula.
Nel silenzio di entrambi cercò di capire il motivo per cui, quest’uomo dall’aria vagamente familiare ma che avrebbe giurato di non conoscere, le aveva parlato e continuava a stare fermo accanto a lei, quasi aspettasse una sua reazione. D’un tratto, sempre mantenendo quel suo sorriso, lui sollevò le sopracciglia spostando lo sguardo verso il basso, e fu solo allora che Emma capì di essersi involontariamente poggiata con la schiena davanti ai pulsanti per l’ascensore, e di essere rimasta lì ferma a fissare incredula l’uomo che con ogni probabilità aspettava solo che lei si scostasse. Fantastico.

Sentendo le guance arrossire per l’imbarazzo, si chinò in uno scatto per raccogliere la sua borsa da terra, allontanandosi di qualche passo dalla parete e passandosi una mano fra i capelli ancora umidi, nel tentativo di guadagnare tempo per trovare qualcosa da dire ed evitare di fare ancora una volta la figura dell’idiota., ma senza successo, dal momento che alzando lo sguardo per farfugliare delle scuse,  percepì la sensazione bruciante dei suoi occhi percorrere l’intero suo corpo, dalle mani leggermente tremanti ai capelli ancora umidi fino ad incontrare i suoi, e fu sorpresa nel cogliere nel suo sorriso, simile a quello precedente, una punta di divertimento, come se si fosse accorto di quanto l’avesse messa in imbarazzo e si stesse godendo la sua reazione. No, di certo si sbagliava.

“Mi dispiace, ero…”
“Nessun problema.” La interruppe premendo il pulsante e sistemandosi la manica della giacca, e in quel momento, non sapeva per quale motivo, avrebbe giurato di aver visto il suo sguardo intensificarsi.
“Davvero, non ci avevo fatto caso.” Trovò infine qualcosa di sensato da dire prima di rispondere al suo sorriso con un lieve cenno del capo nell’intento di dissolversi, e distogliendo lo sguardo da lui cominciò a dirigersi verso le scale, finché non sentì la sua voce coglierla alla sprovvista una seconda volta.
“Non sembri un tipo molto attento ai particolari, non è così?” disse d’un tratto con lo sguardo basso, accennando una risata nello scandire quelle parole nelle quali non sembrava esserci neanche un minimo di sarcasmo. Voltandosi lentamente, non sicura  se fosse stata la stanchezza a farle immaginare una cosa simile o lo avesse detto per davvero, sgranò gli occhi nel constatare che il suo sguardo era ora tornato su di lei ,quasi esigesse sul serio una risposta. E senza riflettere troppo su cosa fosse o non fosse opportuno dire, rispondergli fu esattamente quello che fece.

“Noi ci conosciamo?” domandò lei, chiedendo non troppo implicitamente una spiegazione.
Lo sguardo di lui si concentrò sul suo volto.
“Oh no, credo l’avrei ricordato.” e ancora una volta fu sorpresa dall’ostentata sicurezza percepibile anche da quella breve risposta, e si trattenne dall’alzar gli occhi al cielo quando le sorrise ancora compiaciuto. In quel momento, le porte dell’ascensore che le sembrava avesse impiegato anni per arrivare, si aprirono alle sue spalle, e senza neanche accorgersene Emma tirò un sospiro di sollievo al pensiero di poter mettere fine a quella conversazione del tutto insensata, e poter finalmente scomparire su per le scale, cancellandola. Ma, ancora, si sbagliava.
Bloccando le porte con un braccio, portò lo sguardo leggermente in alto ,aggrottando le sopracciglia prima di parlarle ancora una volta, come se non fosse rimasto soddisfatto della sua breve risposta.

“Swan. Terzo piano, credo. Il tuo è l’unico spazio bianco sul citofono.”

Lui elencò quella serie di parole con una tale disinvoltura, che Emma dovette quasi trattenere una risata all’assurdità di quella situazione. Per qualche strano motivo, un uomo che era sicura di non aver  mai visto prima e di cui lei non sapeva nulla, aveva appena, pur implicitamente, ammesso di sapere di lei più di quello che potesse aspettarsi. A dire il vero, più di quello che lei stessa potesse sapere:  non aveva mai neanche notato di non aver inserito il suo nome sul citofono.
E subito capì il motivo per cui le aveva detto che sembrava non essere molto attenta ai particolari: non aveva notato di non aver lasciato lo spazio bianco, come in un primo momento non si era accorta di lui. Più che assurdo,  del tutto inaspettato. Non aveva mai incontrato nessuno dei condomini prima d’ora, al massimo solo incrociato qualcuno di sfuggita nell’ingresso, o sentito il rumore di passi per le scale quando usciva di casa, ma non aveva mai scambiato parola con nessuno e a volte si era anche stupidamente chiesta se  davvero qualcuno oltre e lei ci vivesse in quel palazzo; ma dopotutto non era l’unica a condurre una vita frenetica, non era una tragedia.

“Sei un osservatore, a quanto pare.” Ribatté lei, questa volta liberandosi della sua espressione incredula, accompagnando la risposta con un sorriso sarcastico, mantenendo lo sguardo verso le scale, pronta a cogliere la prima occasione per uscire da quella situazione.

Lui rise. Un accenno di risata che, seppur lieve, le parve risuonare in tutto lo spazio dell’ingresso, e dovette trattenere l’impulso di colpirlo (colpire un perfetto sconosciuto, che in ogni caso sembrava volersi prendere gioco di lei, quindi forse non si sarebbe sentita tanto in colpa se l’avesse fatto sul serio). Si, era assurdo, tanto che per un attimo si chiese ancora se quello non fosse che uno scherzo giocatole dalla stanchezza.
Tornò a posare lo sguardo su di lei. No era reale, completamente fuori dal normale, ma reale.
“Non esattamente” disse con tono leggermente compiaciuto, ma avendo forse colto lo sgomento sul volto di lei, serrò le labbra, per poi aggiungere “Vivo qui da un po’, è stato abbastanza semplice cogliere il nuovo particolare nella monotonia che regna in questo posto.” 
E improvvisamente, la prima  persona che si degnava di parlarle lì dentro, le aveva allo stesso tempo rivelato (e non mancando di una certa sfacciataggine, a dire il vero) di averla notata da un po’. Dio, che cosa ancora le riservava quella giornata. Lui sorrise brevemente, e non essendo ricambiato che da un impassibile sguardo severo, continuò “A proposito, benvenuta.”
E con quello, entrò in ascensore potandosi la mano ,che prima bloccava le porte, in una delle tasche e abbassando lo sguardo. Il suo sottile sorriso non era svanito per un secondo.

“Sei al sesto piano.” Disse improvvisamente, al ricordo di quella stessa immagine vista di sfuggita più volte nel corso di quelle due settimane, della stessa figura dai capelli scuri della quale non aveva mai incrociato lo sguardo o a cui non aveva mai fatto caso, fino ad ora. Emma non riuscì neanche a fermare le parole che, nonostante fossero state più rivolte a se stessa, lo fermarono dal premere il pulsante.
Il suo sguardo tornò alto, e l’espressione sorpresa venne immediatamente sostituita da un sorriso compiaciuto.
“Chi è che osserva adesso?” disse, tenendo comunque la mano poggiata alla parete dell’ascensore, pronto a chiudere le porte e a mettere fine a quella conversazione.
E fu esattamente quello che accadde:  con un cenno del capo, scomparì dietro le porte dell’ascensore senza neanche aspettare una risposta e lasciando sospese quelle poche parole. Non che lei l’avesse, una risposta. Aveva appena avuto una delle conversazioni più strane che avesse mai avuto con qualcuno, per giunta con uno sconosciuto dall’assurda sicurezza, che se l’era giocata sul disagio e l’imbarazzo a cui l’aveva portata, facendola sembrare una perfetta idiota. E in un attimo era scomparso, tornato ad essere un fantasma come tutti gli altri.

Forse colpirlo non sarebbe stata per davvero una cattiva idea.
 
E forse, pensò mentre imboccava finalmente le scale dopo la giornata più stressante che avesse mai avuto nelle ultime settimane, avrebbe evitato di prendere l’ascensore per un po’.
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E rieccoci! Questo è il primo, vero capitolo della storia e si, ci sono un po’ di informazioni in più. Senza dubbio è un capitolo carico dei pensieri di Emma: nella prima parte che parla dell’arrivo a Boston (quella in corsivo, lo specifico perché penso di utilizzare la stessa dinamica per raccontare il passato anche in futuro), ho cercato di rendere al meglio possibile le paure del personaggio, e so che potrà sembrare un p’ troppo introspettivo, ma l’ho fatto con l’intento di mettere un po’ (ma decisamente non abbastanza ) in luce il suo passato rispetto al prologo, anche se come ho detto, per avere il quadro completamente chiaro bisognerà attendere.  E qui c’è anche un po’ di più sulla vita che Emma conduce a Boston, sul suo lavoro, la sua giornata tipo e coloro che ne fanno parte….. E a proposito di questo, so che avevo detto che sarebbe stato un capitolo Emma- centrico, ma non ho potuto evitare di inserire un po’ del nostro lui nel capitolo, così ho smesso di pensarci troppo, l’ho fatto e basta. Ovviamente spero che il capitolo in generale vi sia piaciuto.
Infine ci tenevo tantissimo a ringraziarvi non solo per aver letto il prologo, ma anche per tutte le belle parole che mi avete lasciato nelle recensioni. Davvero, ognuna di loro è riuscita a stapparmi un sorriso e vi ringrazio infinitamente, continuate a farmi sapere cosa ne pensate J. Detto ciò, non mi rimane che rimandarvi al prossimo capitolo. Alla prossima!
Marti .
  
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