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Autore: Lost In Donbass    22/02/2015    2 recensioni
Londra, 1888. Midford High School, istituto maschile per nobili rampolli.
Viole MacMillan è uno strano ragazzo; pittore senza pari e genio sconclusionato, malinconico ma deciso, curioso ma riservato, oscuro e dannato.
Edgar Cole è bello come il sole; intelligente e aggraziato come pochi, poeta e sognatore, idealista e innamorato del bello e del perfetto, popolare e avventuroso.
Queste due diverse personalità si fonderanno l'una con l'altra, si incendieranno a vicenda, si amalgameranno nonostante le diversità seguendo il tenebroso e sanguinario filo del destino. Filo che li conduce in un mondo maledetto, nascosto nel giardino interno della scuola. I due ragazzi si lasceranno trascinare in un mistero più grande di loro, dove demoni e dei della morte, streghe e corvi parlanti si dilettano in un banchetto senza fine, in cui gli umani non sono altro che pedine e biscotti da sgranocchiare nell'attesa.
Viole e Edgar intraprenderanno il viaggio nel baratro dell'orrore più nero, cercando di uscirne vivi e tagliare il filo sanguinolento del destino.
Ora loro sono gli scacchi, e la scuola la scacchiera.
Genere: Avventura, Dark, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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PARTE QUARTA : IL GIARDINO
Edgar si ritrovò circondato dall’oscurità più nera e soffocante, incerto sulle gambe. Vedeva perdersi in lontananza piccole fiammelle, lungo una stretta scala scivolosa. Toccò le pareti strette e opprimenti, di pietra bagnaticcia. Quanta umidità aleggiava in quel passaggio segreto! Chiamò a bassa voce il suo compagno di sventura, pregando silenziosamente che fosse ancora nei paraggi e che non si fosse avviato troppo nei meandri di quel cunicolo
-Viole! Sei ancora         qui?! Viole!
-E piantala di strillare Edgar sono qua sotto!
Edgar non seppe se rallegrarsi per la presenza di Viole o se offendersi per essere stato trattato ancora una volta come uno sguattero appena assunto. Decise di lasciare correre e si affrettò per i gradini scivolosi, finché non raggiunse il conte che lo aspettava con aria annoiata. I due si guardarono con un misto di ansia mista a voglia di avventure e si avviarono silenziosamente giù per le scale. Più si addentravano, più l’umidità cresceva e più le candele si infittivano. Ora che la misteriosa galleria era illuminata, i due ragazzi poterono constatare che era completamente scavata in quella che pareva ossidiana. Roccia nera, vetrosa, smerigliata, muschiosa, gelida. Nessuno dei due osava parlare, semplicemente camminavano fianco a fianco da quando il cunicolo si era allargato e spianato. Probabilmente ora sarebbero usciti, siccome una vampata di aria fresca aveva sferzato delicatamente i loro volti. Affrettarono senza rendersene conto il passo, curiosi di sapere dove sarebbe sbucata quella galleria misteriosa. Nei giardini? In un aula? Nella sala grande? Nell’aula dei professori? Eppure, erano scesi talmente tanto … pareva quasi di essere scesi al livello delle cantine. Che fosse la strada segreta del rettore per andare a ubriacarsi? Che fosse … milioni di interrogativi danzavano nelle teste dei due, mentre si avvedevano di una pallida e fredda luce in fondo al corridoio. Si scambiarono un’occhiata emozionata, carica di curiosità. Aumentarono il passo, verso la luce che inondava la fine del cunicolo. Giunti alla fine, si resero conto che la luce che li aveva avvisati della fine del passaggio proveniva da quella che pareva … una luna?! Eppure dovevano essere le sette di sera, non poteva già essere sorta la luna.
-Viole, ma secondo te usciamo fuori dalla scuola? Perché sai … - iniziò Edgar.
Viole non lo ascoltò nemmeno e si immerse nella luce lattea che li attendeva al varco. Sbucò fuori, all’aperto, accolto da una brezza gelida che sembrava soffiare direttamente dalla luna, gigantesco occhio ciclopico che riluceva in mezzo al cielo notturno. Tese il collo e si avvide di trovarsi all’ingresso di un giardino fiorito, ben curato.
-Ma io non sapevo che a scuola ci fosse un giardino così bello!- esclamò Edgar, piombatogli vicino. Viole alzò gli occhi al cielo : ma possibile che non sapesse tenere la bocca chiusa?! Erano sul gradino più alto di una breve scaletta di pietra che portava in un viale acciottolato circondato da archi composti di enormi rose fiorite. La porta che avevano appena traversato, anch’essa di pietra grigia, era finemente scolpita. Piccoli fauni guardavano verso la grossa iscrizione che troneggiava sull’arcata. Tutto intrecciato da grossi fiori blu e delicati serpenti che si protendevano verso l’iscrizione, la quale riportava scritto, con caratteri talmente arzigogolati che i ragazzi fecero fatica a decifrare “La vita che cos’è, se non un sogno?” Viole fece un rapido schizzo di ciò che lo circondava mentre Edgar fissava intensamente un piccolo fiore blu, che colpito dai raggi pallidi della luna, si tingeva dello stesso verde degli occhi di Viole. Fu quasi tentato di prenderlo e di appuntarglielo sul mantello quando un sordo rintocco li fece sobbalzare. Pareva quasi il triste rintocco delle campane da morto che si sentivano a volte nelle bucoliche campagne intorno a Londra. Si voltarono simultaneamente verso il corridoio di rose e notarono un piccolo corvo nero come l’inchiostro inchinarsi maestosamente al loro cospetto, abbigliato con un colorato papillon a strisce e un elegante paio di ghette.
-Se lor signori vogliono seguirmi … - gracchiò il corvo, alzando lo sguardo su di loro.
I due ragazzi ci misero qualche secondo a registrare il fatto di avere veramente un corvo parlante vestito di tutto punto davanti.
-Ma … ma … Viole, che significa?- Edgar si voltò verso il compagno con gli occhi fuori dalle orbite. Non era possibile … assolutamente no … era un terribile incubo, sicuramente, non poteva essere vero, i corvi non parlavano, lui era …
-Cerca di non essere sconveniente Edgar – gli sussurrò Viole, con uno strano sorriso stampato in volto, a metà tra il sarcastico e il serio –Se sua Grazia volesse gentilmente comunicarci il luogo dove siamo stati così gentilmente invitati … - disse poi rivolto al corvo, atteggiando le labbra a un sorriso che aveva un qualcosa di irriverente e terribilmente oscuro, come ebbe modo di notare Edgar.
-Ma mio Conte, non è il caso di chiamarmi Grazia … sono solo un umile paggio, che risponde al nome di Esso. Vorrei introdurvi al Regale banchetto del Solstizio di Mezz’Inverno, al quale siete stati formalmente invitati da coloro la quale identità è segreta ai comuni mortali.
-Scusatemi, Esso, non vorrei sembrare maleducato, ma precisamente, quando ci è arrivato l’invito?- interruppe Edgar, schiarendosi la voce e dandosi un contegno. Era comunque il prossimo maggiordomo reale, doveva essere pronto a qualunque situazione. Per quanto incredibile fosse.
-Vi è arrivato, graziosissimo Marchese, la prego guardare nel suo taschino.
Viole e Edgar si guardarono stupefatti e infilarono meccanicamente la mano nel taschino del panciotto, da dove ne trassero due delicati biglietti di carta di riso, finemente decorati con inchiostri rossi e verdi e sui quali vi era scritto, in una complessa e arzigogolata calligrafia
“E’ ufficialmente invitato al Grande Banchetto del Solstizio di Mezzo Inverno, la notte delle Calende della settima luna”
-Solstizio di mezzo inverno?! Ma noi siamo a Maggio!- esclamò Edgar, spalancando gli occhi azzurri.
-Taci, Cole, piantala di essere così convenzionale!- lo rimbrottò Viole, guardandolo in tralice
-Ma mi hai detto tu di esserlo!- ribattè il marchese, non capendo più nulla. E poi da dove veniva quel vago profumo di miele e di orchidee?
-Non hai capito niente, come al tuo solito. Sii educato e cortese come sempre, ma sappiti adeguare alla bizzarria di questo mondo come si addice a un vero lord inglese dell’alta società.
-Sinceramente, Viole, non avrei mai immaginato che saresti stato tu a farmi certi discorsi … - commentò Edgar assumendo un’aria il più possibile adeguata.
-Infatti non ti avrei mai fatto un discorso simile, se non si fosse presentata quest’occasione e siccome so che tu sei facilmente impressionabile, è meglio che ti bacchetti come farebbero i nostri professori. Quindi, schiena dritta, sorriso serio, galanterie e assolutamente, bocca chiusa.
Edgar scosse la testa e si rassegnò a ubbidire a Viole, che puntualmente si mostrava come il genio che era.
-Bene, Esso. Guidaci allora.
Il corvo si inchinò blaterando una serie di parole senza senso e si avviò ballonzolando lungo il corridoio di rose.
-Ehm, Viole, ma è proprio tutto vero?- Edgar non riuscì a trattenersi dal prendere il pittore sottobraccio.
-Beh, Edgar, si da il caso che le probabilità che sia tutto reale sono decisamente alte. E comunque, anche fosse un sogno, sarebbe particolarmente strano il fatto che entrambi stiamo sognando la stessa cosa.
-E se invece tu fossi parte del sogno?
-E se invece di riempirti la testa di domande a cui ora non possiamo rispondere, ti dessi una calmata e ti stampassi sul viso il tuo splendido sorriso?
-E se tu ti decidessi a dipingere invece che sulle tele un sorriso sulle tue labbra? Non sarebbe poi male, non trovi, MacMillan?
Il conte si voltò verso il marchese con un’espressione di difficile interpretazione, e Edgar si ritrovò a pensare a come sarebbe stato splendente Viole se avesse tentato di sorridere e non si ostinasse ad avere sempre la stessa smorfia annoiata e sarcastica. --Se sorridessi, saresti il ragazzo più bello del Creato- sussurrò a bassa voce, anche se l’altro non lo sentì. Le sue parole si persero nel vento, furono soffiate alla Luna, dove giacevano tutte le cose perdute dagli uomini. Le sue parole si erano perse, come sempre. Perse nel vento e nel mare, verso il cielo nero come l’inchiostro. Ricordò un libro che gli avevano fatto leggere, un libro italiano del 1500, intitolato “Orlando Furioso”. Ser Astolfo era andato a recuperare il senno perduto di Orlando sulla Luna, dove giacevano in ampolle tutte le cose smarrite dagli uomini e ora lui era sicuro che su quel gigantesco occhio bianco vi erano mille ampolle con le sue parole e … parte di sé voleva cavalcare un ippogrifo, come ser Astolfo, andare a ripescare l’ampolla che recava scritto “Sorriso del conte Viole MacMillan” e riportarglielo, soffiarglielo delicatamente sul volto e bearsi dell’ottava meraviglia del mondo. Ma sapeva che per sua sfortuna era impossibile. Sempre che Viole fosse capace di piegare le labbra all’insù, avrebbe dovuto cavarglielo lui di bocca.
-Miei Signori, eccoci arrivati- annunciò il corvo, anticipandoli in una piazzetta circolare circondata da siepi fiorite – Mie Graziose Signorie, il marchese Edgar Cole e il conte Viole MacMillan ci onorano della loro presenza.
Viole si guardò velocemente intorno. Erano in uno spiazzo circolare dal pavimento finemente decorato, le siepi emanavano un fortissimo profumo di fiori esotici e esattamente davanti a loro stava un immensa tavolata imbandita come una merenda pomeridiana, alla quale sedevano ogni sorta di persone. O meglio, erano quelle persone umane? Il ragazzo ne dubitava fortemente. Imitò Edgar e si inchinò, lasciando frusciare il mantello per terra, il più graziosamente possibile.
-E così siete finalmente arrivati, milords.
Una risata gracchiante si levò, e un uomo dai lunghi capelli arancioni si alzò dal tavolo, dirigendosi verso di loro. Le mani di Viole fremettero, tanta era la voglia di dipingere le meraviglie che aveva davanti, eppure si trattenne. Edgar lo guardava spaventato, e sicuramente il pittore non lo rassicurava. Viole raccolse tutta la sua curiosità e il suo coraggio, inspirò una boccata d’aria che sapeva di miele e fiori, alzò la testa e disse, serio e composto come si addiceva a un vero lord inglese
-Ci scusiamo per il ritardo, milord.
-Siamo onorati di essere qui adesso- intervenne Edgar, stupendo non poco Viole. Era sicuro di dover fare tutto da solo … insomma, il marchese che per una volta si dimostrava intelligente … certo che non finiva mai di sorprenderlo. Viole realizzò in quel momento che Edgar era l’unica cosa che lo teneva legato a quel suo noioso mondo. Perché Edgar era un mistero per lui, ancora tutto da capire, da studiare, da realizzare. Quasi lo stupiva più il proprio compagno di viaggio che tutta quella strana faccenda.
-Miei Preziosissimi, non perdiamo tempo! Accomodatevi, forza- l’uomo indicò loro due posti vuoti attorno al tavolo, mentre tutta la tavolata li fissava sorridendo. Viole guardò per bene colui che li aveva accolti. Era un tipo alto, longilineo, vestito completamente di nero, dai capelli di un arancione quasi abbagliante che gli ricadevano fino sotto la vita, le mani ricoperte di strani disegni tribali e un viso affilato e pallido. Sorrideva, mostrando una dentatura decisamente troppo aguzza. Viole tentò di individuare gli occhi di quello strano figuro  sotto la frangia terribilmente lunga per poi ritrarlo, perché meritava sicuramente un ritratto, quando lo sentì esclamare, facendo addirittura tacere il vento
-Vi diamo il benvenuto al Grande Banchetto del Solstizio di Mezzo Inverno! Mio conte, mio marchese, ecco a voi … il Giardino degli Scacchi Caduti.
 
  
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