II
L’immenso
palazzo sorgeva al centro dell’Universo. Sospeso nel vuoto
cosmico, riluceva
come una stella. Il lato ovest ed il lato est non avevano punti di
incontro, se
non uno stretto corridoio centrale, lucido, terminante con un
terrazzino
semicircolare che dava sullo spazio tempestato di infiniti punti
brillanti.
L’intero edificio si ergeva su due piani, provvisti sulle due
facciate opposte
di aree aperte affacciate sull’immensità. Una
coppia di torri gemelle si
innalzava agli antipodi della struttura, una ad est ed una ad ovest.
Altissime,
terminavano ognuna con un ripido tetto spiovente sormontato da una
lunga asta.
Questa, una sorta di freccia dorata, faceva da perno ad un disco
movente con
sopra incisi i simboli appartenenti agli abitanti di quel luogo.
Kosmos,
il padrone e regnante del lato ovest, era una delle creature
più belle e
potenti dell’Universo, e ne era perfettamente consapevole.
Seduto, con le gambe
allungate sul tavolo, guardava fuori dalle finestre ad arco che
circondavano la
torre occidentale. Raramente vi scendeva, non ne aveva bisogno. Aveva
tutto
sotto controllo. I suoi occhi, scintillanti di punti
d’argento, scrutavano il
nero dello spazio infinito. Solo di sfuggita notò la torre
orientale e vide la
sua occupante, Kuruma, che si era affacciata per sospirare alle stelle.
Kosmos
non ci badò più di tanto. Scostò un
ciuffo di lunghi capelli blu dal viso
pallido. Erano mossi e ribelli, ingabbiati in un singolare sistema di
spuntoni
di vari colori, che sfioravano il volto e le labbra color oltremare del
loro
padrone. Quella sorta di armatura, le cui propaggini sottili
d’argento
ricoprivano parte del viso di Kosmos e una notevole area del suo corpo,
lo
aiutava a mantenere sempre sotto controllo il suo potere, anche se lui
era
fermamente convinto di non averne bisogno. Sul capo indossava una
specie di
corona composta da due cerchi dorati, tenuti assieme da sottili fili
dello
stesso colore, ed un altro ornamento, sempre d’oro, ma ricco
di eleganti
riccioli. Sferette d’argento contornavano le sottili
sopracciglia, il mento ed
il petto di quella creatura e portava due spessi anelli alle orecchie,
che erano
a punta ed in parte coperte dai capelli. Sbatté le palpebre,
mentre vide
crearsi un buco nero a migliaia di anni luce. Quegli occhi, azzurri,
erano
contornati di rosso, a formare un disegno simile ad una maschera o ad
un fiore.
Pure lui, come la torre in cui viveva, portava un’asta
d’argento, con dettagli
rossi e turchese, che fungeva da perno e da freccia sul disco che lo
sovrastava. Simile ad una grossa aureola, era diviso in dodici spicchi
regolari
di colore diverso. Rappresentava i dodici segni zodiacali e ne portava
i
simboli, gli stessi incisi sul disco che sormontava la torre
d’ovest. In quel
momento, la freccia di entrambi puntava sul segno dello scorpione ma
già
lentamente si muoveva verso il segno successivo, il sagittario. Kosmos
portava
al collo un disco più piccolo, con gli stessi segni degli
altri, con la freccia
ormai prossima ed entrare nel quadrante dell’acquario, stando
sul bordo dei
pesci. Aveva un moto molto più lento. Ci metteva circa 2160
anni per passare da
un simbolo all’altro mentre agli altri due congegni bastavano
circa trenta
giorni. Il padrone della torre si alzò, dopo aver riposto
uno delle migliaia di
libri contenuti in quel luogo, e si affacciò ad una delle
finestre, fra una
colonna ed un’altra. Guardò in alto,
distrattamente, e la sua sagoma si notò
chiaramente dalla torre orientale.
Kuruma,
affacciata a sua volta, puntò gli occhi verso ovest. Kosmos
non la degnò di uno
sguardo con quei suadenti occhi azzurri. Lei si morse il labbro
inferiore,
infastidita da come il suo “coinquilino” riuscisse
sempre ad ignorarla. Si
voltò e si allontanò dalla vista esterna.
Tentò di rilassarsi sfogliando
distrattamente un libro. Quei volumi, come tutti quelli
dell’edificio,
provenivano da varie parti dell’Universo. Erano di tutti i
generi, di ogni
scrittura e grandezza. Particolari creature, chiamate dai loro padroni
col nome
di “procacciatori”, volavano per i pianeti e ne
portavano sempre di nuovi agli
abitanti del palazzo. Kuruma e Kosmos ne avevano uno ciascuno di questi
“procacciatori” e, in quel momento, erano entrambi
in cerca di nuove pagine
scritte. Oltre a leggere, sulle torri si dipingeva, si cantava, si
suonava ma,
principalmente, si controllava ogni singolo movimento di ciascun corpo
celeste,
attenti a non farne andare nessuno fuori posto. E si creavano stelle,
pianeti,
buchi neri, galassie e comete. Kuruma quel giorno non era
dell’umore adatto per
fare nulla di tutto questo. Tornò a girare il capo verso
l’esterno. La sagoma
di Kosmos era ancora lì. A lei venne spontaneo chiedersi se
il suo dannato
vicino lo facesse apposta ad irritarla. Si sentì spiata e si
voltò di scatto.
Fu tentata di aprire la porta scorrevole che la divideva dalle scale,
ma
preferì sospirare e distendersi sul letto, in cerca di
ispirazione.
L’architettura
e l’arredamento delle due torri erano molto diversi. Quella
occidentale era in
pietra grigia, con i sassi in vista. Aveva finestre ad arco,
sottolineate da
delle colonne, e mobili in legno scuro, con tavoli e sedie alti e
riccamente
decorati, incisi. Kosmos sedeva sempre su una sedia a dondolo di legno
massiccio, color blu scuro, realizzata con materiali provenienti da un
pianeta
lontano, ovviamente dello stesso colore. Una massiccia porta
scricchiolante
separava la sala della torre dalle scale, che conducevano ai piani
inferiori.
Il letto della parte occidentale aveva un alto baldacchino con un
pesante
tendaggio scuro, con su ricamati dettagli in argento e perle lucenti.
Sparsi un
po’ qua e là, i fogli scritti e scarabocchiati dal
proprietario frusciavano sotto
i piedi. Alle pareti vi erano dei ritratti e delle immagini realizzate
da un
paio dei coinquilini occidentali. Tappeti di varia fattura coprivano in
parte
il pavimento nero. Il soffitto era affrescato e svettante verso la
punta in
cima al tetto. Le tende cupe erano sorrette da grossi anelli lucenti e
regolari. Un grosso specchio ovale, decorato ed eccessivamente
riccioluto,
stava sopra ad un piccolo armadio d’ebano contenente tutto il
necessario per la
maniacale cura che Kosmos riservava ai suoi capelli. C’era
una stupenda
vetrata, rappresentante lo zodiaco e le sue stelle, a dividere il
piccolo
spazio che la torre riservava alla doccia per il suo padrone,
semitrasparente e
piuttosto esibizionistica. In un altro armadio, arcuato e alto fino a
quasi il
soffitto, erano riposti i ricchi abiti ed i molti accessori di Kosmos,
assieme
a vari strumenti musicali e riproduttori audio di vario genere. Non
c’erano
lampadari ma solo qualche piccola candela, inutile perché
era la pelle del
padrone di casa ad illuminare l’ambiente senza sforzo.
Nessuno degli abitanti
di quel luogo necessitava cibi o bevande, e quindi non era presente la
cucina o
alcun luogo adibito agli alimenti.
La
torre orientale era più chiara, con un’elegante
carta da parati color pastello.
Una porta scorrevole, leggera e circondata di listelli in legno crema e
carta
velina, la divideva dal resto dell’edificio. Sul soffitto
erano appese piccole
lanterne rosse. I mobili erano tutti bassi, dai colori tenui. I vari
libri
erano riposti su mensole sospese, coperte in parte da tende leggere.
Numerosi
vasi dipinti decoravano la sala, assieme a disegni, miniature e puzzle,
che Kuruma
stessa aveva realizzato, o altri abitanti del lato orientale. Il letto
era
basso, semplice, con un elegante tendaggio colorato appeso al soffitto.
Il
pavimento era in legno lucido ed un bello specchio tondo stava accanto
ad una
delle finestre rettangolari, sopra un mobiletto pieno di creme, oli
profumati e
tutto l’occorrente per la cura della persona. Accanto al
letto stava un piccolo
telaio su cui la signora realizzava vari lavori, che poi donava ai suoi
colleghi orientali o indossava lei stessa. Alle pareti, oltre alle
pitture, si
potevano notare delle affascinanti spade dalla lama sottile, regalo
dell’abitante
orientale che le realizzava. In piedi sulle alte scarpe in legno,
Kuruma si
guardò allo specchio. Aveva piccole labbra, dipinte di nero,
la pelle quasi
bianca e grandi occhi rosso fuoco con puntine dorate, fin troppo spesso
accigliati. I capelli neri, dritti e lunghi, li portava semiraccolti in
una
crocchia. Due grandi orecchini, simili a dei soli, le pendevano dalle
orecchie,
avvolte dai capelli corvini. Un velo scuro e rilucente le ricadeva fino
a metà
della schiena. Attorno
al suo sguardo e
sul viso aveva decisi disegni blu e anche lei, come Kosmos, conteneva
il suo
potere con una specie di armatura, perlopiù fatta
d’anelli d’oro. Fra le mani
stringeva un ventaglio color argento, di metallo, con un lungo nastro
sul
manico e piccoli anelli lungo l’arco d’apertura. Ne
aveva cinque: uno verde,
uno rosso, uno marrone, uno blu e, appunto, uno argento. Legno, fuoco,
terra,
acqua e metallo, ovvero i cinque elementi legati
all’astrologia che governava.
Sul capo portava anche lei una piccola corona terminante con un diadema
centrale
luminosissimo e l’armatura andava a formarle due strane corna
dietro la nuca,
protese verso il cielo. Pure lei, come l’abitante del lato
occidentale, aveva
una lunga freccia ed un disco movente che la sovrastava. Sopra di esso
erano
incisi dodici simboli e, al momento, era fermo
sull’ideogramma “Tù”, la
lepre.
A differenza di Kosmos, lei non portava lo stesso disco anche al collo.
Kuruma
sospirò. Il suo disco ci metteva circa 348 giorni per
passare da un simbolo ad
un altro e, in quella circostanza, a lei parve così noioso
ed inutile starlo ad
osservare. Vide che il suo collega occidentale si stava ancora
affacciando.
Forse poteva provare a parlargli… annoiarsi, avendo avanti a
sé l’infinito e
l’eternità, è altamente sconsigliabile.
“Kosmos!”
lo chiamò, con voce decisa, sporgendosi leggermente dalla
finestra.
“Kuruma…”
rispose lui, facendo solo un lieve cenno con la testa.
“Posso
parlarti?” riprese lei, decisa come non mai a riempirsi la
giornata.
“Non
lo stai già facendo?” borbottò Kosmos,
come infastidito.
“No…io
intendevo lungo il corridoio, o sul terrazzino…”.
“Che
cosa vuoi?”.
“Niente
di particolare…solo passare un po’ il
tempo…”.
Kosmos
sospirò, come se spostarsi dalla torre gli costasse
un’enorme fatica, ed annuì.
“Veramente io il tempo lo passo benissimo, anche senza il tuo
aiuto” mormorò a
bassa voce, storcendo la bocca, e si avviò verso la porta
che dava sulle scale.
Il
corridoio centrale in comune fra est e ovest era collegato direttamente
alle
torri tramite una ripida scalinata in pietra. Altri due accessi erano
raggiungibili, sempre tramite una scala, dai saloni del piano terra e
del primo
piano. Kosmos scese i gradini con indicibile lentezza, e piedi scalzi,
con i
capelli spettinati e gli abiti stropicciati di chi avrebbe voluto fare
di
tutto, tranne che alzarsi dal letto. Fra le mani stringeva un lungo
bastone
d’argento, da cui non si separava mai, terminante con una
curiosa forma
attorcigliata. Trascinando dietro di sé un lungo mantello
nero, aprì la pesante
porta e si affacciò sul corridoio lucido, sormontato da una
cupola trasparente.
Ad attenderlo, con aria lievemente spazientita, stava Kuruma. Era
vestita di
rosso con decori luminosi, in un abito di seta piuttosto aderente, con
il
colletto ed un generoso spacco. Un manto d’oro copriva parte
dell’armatura.
Elegantissima, chiuse il ventaglio e fece cenno al collega di seguirla
sul
terrazzino. Kosmos non aprì bocca e la seguì,
lentamente.
“Allora,
Kosmos, come stai?” iniziò lei, appoggiandosi al
balcone.
“Come
sempre. Come altro dovrei stare?” rispose lui, con tono
neutro.
“Io
sono un po’…stanca, ultimamente”
continuò Kuruma, guardando le stelle.
“Ed
io invece sto benissimo” ghignò Kosmos, lasciando
intendere che della sua
collega poco gli importava.
“Sono
stanca e sai perché? Perché mi sento poco
importante. Intendo dire…fra poco
inizierà la famosa Era dell’Acquario, ma non
avrà niente a che fare con me e
con i miei dodici segni”.
“E
allora? Che vuoi farci…è la vita!”.
“Allora
mi chiedevo: dato che per miliardi e miliardi di anni il potere delle
Ere è
stato in mano tua, perché, per una volta, non lasci che sia
io a controllarlo
questo potere? Dopotutto, si tratta di soli 2160 anni…cosa
vuoi che sia?!”.
“Scherzi,
Kuruma?” scoppiò a ridere Kosmos “Lo sai
che la cosa non è possibile e, anche
se lo fosse, non darei mai quel potere a te!”.
“Perché
non è possibile? Nessuno te lo vieta! E perché
non lo faresti? Perché non mi
daresti quel potere?”.
“Perché
è evidente che non saresti all’altezza, piccolina.
Non saresti in grado di
gestirlo. Io sono molto più potente di te”.
“Ed
arrogante!”.
“Dico
solo quello che penso…”.
“Beh,
fammi provare! Solo qualche anno! Se fallisco, ti ridarò
subito il comando”.
“Non
se ne parla!”.
“E
dai!! Mancano meno di due anni e non mostri nemmeno un pizzico di
emozione o di
ansia, non te ne frega niente!”.
“Capirai!
Sai quanti cambi di Ere ho vissuto fin ora? Quanti cambi di Ere ho
vissuto?”.
“Gli
stessi che ho vissuto io, genio. Ti rammento che siamo apparsi nello
stesso
istante…”.
“Appunto.
È sempre la stessa menata. Sempre la stessa
routine”.
“Cambiamola!
Fai provare me!”.
“Senti,
bella, occupati degli anni e delle tue bestioline, che io penso alle
Ere e ai
mesi, intesi?”.
La
voce di Kosmos era divertita, ironica, strafottente.
“Io
non credo che tu sia più forte di me…”
mormorò lei.
“Smettila
di farti strane idee e torna in te. Rilassati…ad ognuno il
suo destino!”.
“E
se io ti dimostrassi che sono più forte di te? Se ci
riuscissi, mi lasceresti
al comando di un’Era? Una soltanto! Se
io…”.
“Non
potrai mai dimostrarmi di essere più forte di me
perché non lo sei, rassegnati!
Torna dai tuoi animaletti a giocare e lascia fare i lavori importanti a
chi li
sa fare!”.
“Ti
odio” sibilò Kuruma, incrociando le braccia e
lanciando un’occhiataccia da far
rabbrividire.
“Lo
so che non è vero!” le sorrise Kosmos, lasciando
la terrazza e tornando alla
sua torre.
Rukbat
si svegliò di colpo. Un altro incubo. Nonostante tutti i
suoi libri e gli studi
da lui compiuti, ancora non riusciva a capirne il significato.
Sicuramente
erano il presagio di qualcosa di terribile, di negativo, nel futuro. O
forse
no? Scosse la testa. Non poteva farsi influenzare da simili scemenze!
Non
riuscendo a prendere di nuovo sonno, decise di alzarsi.
Sbatté i luminosissimi
occhi d’argento in cerca di qualcosa di interessante da
leggere. Fu quasi
tentato di andar a raggiungere il suo capo, Kosmos, chiedendogli
qualche volume
nuovo, ma lasciò perdere. Appassionato di storia e
mitologia, aprì un grosso
volume cremisi e si stese sul letto. La specie di criniera nera che
portava in
testa era solo leggermente spettinata. Sentì bussare alla
porta.
“Rukbat,
sei sveglio?” parlò una voce maschile.
“Sì,
entra pure” rispose, con tono profondo.
Entrò
Al Risha, rappresentante della costellazione dei Pesci.
“Ciao,
Sagittario” salutò, stiracchiandosi leggermente e
sorridendo “Ti scoccia se ti
chiedo di passare un po’ di tempo con me?”.
“No,
per niente. Qualcosa non va?”.
“Tutto
ok. Sentito il capo, prima?”.
“Dormivo.
Che è successo?”.
“Ha
litigato di nuovo con Kuruma, mi pare. Lei era furiosa”.
“Ed
io me lo sono perso, peccato…”.
“Avrai
altre occasioni!”.
I
due si sorrisero. Al Risha aveva grandi occhi azzurri e lunghi capelli
blu
elettrico, dritti e lucenti. Il suo vestito era dello stesso colore,
quasi
accecante.
“Le
ragazze sopra che fanno?” domandò Rukbat, rizzando
le orecchie a punta.
“E
io che ne so?! Potremmo andare su a scoprirlo…”.
“No,
grazie. L’ultima volta che sono salito le ho sentite da Hamal
e Adhafera…ma
soprattutto da Astrea!”.
“Astrea
protesta tanto, ma alla fine è contenta di vederti,
fidati!”.
“Quella
è la donna più complicata che io abbia mai
conosciuto in tutta la mia vita!”.
“Capirai….qui
a palazzo ce ne sono sei!”.
“Intendevo
prima di divenire ciò che sono ora…”.
“I
tempi cambiano, amico mio…”.
Sagittario
si sporse dalla finestra e guardò verso l’alto. La
stanza di Astrea stava
proprio sopra la sua e, a volte, riusciva a scorgerla quando si
affacciava.
“Chi
è sveglio?” domandò, dopo un
po’, Rukbat.
“Credo
Antares…”.
La
reazione a quel nome fu una smorfia da parte del Sagittario. Non
correva buon
sangue fra lui e lo Scorpione Antares.
“Gli
altri credo stiano ancora dormendo…”
continuò Al Risha “…le ragazze non so.
Io
non le spio!”.
“Allora
vado fuori ad esercitarmi un po’” tagliò
corto Rukbat, uscendo dalla finestra.
Pesci
scosse il capo divertito, quando vide il suo collega allontanarsi con
l’arco e
le frecce, da lanciare fra le stelle, fluttuando a mezz’aria.
“Esibizionista…”
commentò Astrea, notando Rukbat nei suoi esercizi.
Sadalmelik,
la coinquilina rappresentante dell’Acquario a cui stava
pettinando i capelli,
le sorrise.
“Guardo
che lo so che ti piace…” ghignò,
facendo arrossire Astrea.
“Ma
che dici?!” si sentì rispondere “Quello
è solo un pomposo egoista troppo
concentrato su se stesso per notare
qualcos’altro…”.
“Però,
se notasse te…”.
“Io
sono la Vergine…anche se fosse, ho un ruolo da rispettare.
Non posso fare certe
cose”.
“Sono
certa che il capo chiuderebbe un occhio…”.
“Cambiamo
argomento?”.
“D’accordo…”
sospirò Sadalmelik, guardandosi allo specchio.
Le
due donne si erano appena alzate e si stavano pettinando a vicenda i
capelli.
Astrea li aveva lunghi e scuri, raccolti in una treccia che le si
appoggiava
sulla veste grigio chiaro che trascinava dietro di sé.
Sadalmelik li aveva
leggermente più corti e di colore verde scuro, mossi e molto
gonfi, in continuo
movimento. Le sfioravano i piedi scalzi, che spuntavano da sotto la
semplice
veste zaffiro. Aveva occhi viola e labbra in tinta con il vestito.
Astrea,
invece, aveva scintillanti occhi dorati e labbra nere, che spiccavano
sulla
pelle solo leggermente abbronzata della Vergine. Quando furono pronte,
uscirono
dalla camera per dirigersi verso il salone assieme alle altre quattro
donne
occupanti il primo piano del lato ovest del palazzo.
Fra
loro e gli occupanti della parte orientale non vi erano quasi mai
contatti.
Nessuna finestra dava sul lato opposto, se non sulle due torri, dove a
loro era
limitato l’accesso. A volte si incontravano lungo il
corridoio centrale o sul
terrazzino in comune, ma piuttosto raramente. Anche perché
fra est ed ovest
preferivano evitarsi, o ignorarsi.
Nel
grande salone del primo piano, quattro donne erano impegnate in varie
attività.
Salutarono Astrea e Sadalmelik, appena entrate, e poi riportarono
l’attenzione
sugli affari propri. C’era Hamal, l’Ariete, vestita
con abiti larghi arancioni,
con due lunghe trecce castano chiaro arrotolate attorno alle orecchie
ed
accigliati occhi nocciola. Teneva la sedia inclinata e i piedi sul
tavolo
circolare. Borbottava sommessamente, affilando il piccolo pugnale da
cui non si
separava mai. Al suo fianco sedeva Acubens, il Cancro. Aveva un viso
giovane,
l’aria distratta, sognante, ed indossava una tunica corta
bianca come il latte.
La sua pettinatura era decisamente singolare: sei trecce di colore
rosso, non
molto lunghe, rassomiglianti a piccole zampette, le circondavano il
capo.
Portava il rossetto dello stesso colore e grandi occhi verde chiaro,
con
riflessi azzurri, distratti e sfuggenti. Stava raccontando i sogni che
aveva
appena fatto a Zubeneschamali, la Bilancia. Lei, con lunghi capelli
bianchi e
lisci ed occhi neri, la ascoltava attentamente e tentava di
interpretarli. Il
suo abito rosa era aderente e con ampie spalline. Sadalmelik ed Astrea
si erano
messe a leggere in silenzio. Adhafera, la rappresentante del Leone, era
all’esterno, spada alla mano, per esercitarsi a combattere.
Non aveva tempo,
diceva, di pettinarsi e di conseguenza i suoi capelli biondi se ne
stavano
disordinati e gonfi attorno alla sua testa, come una criniera. Nel buio
si
vedevano chiaramente i suoi occhi, verde scuro, brillanti e con pupille
sottili
e verticali come quelle dei gatti. Ed il suo abito giallo, aderente e
corto.
“Rukbat!”
chiamò Adhafera “Ti va di fare un po’ di
movimento con me?”.
“La
tua frase è
piuttosto equivoca ma,
dopotutto, non mi dispiace per niente. Accetto volentieri!”
rispose lui,
portando solo dei pantaloni granato con un’ampia cintura
viola scuro, per
favorire i movimenti.
“Mi
bastava un sì…” mormorò
Leone, prima di caricare il suo avversario per allenarsi.
Astrea
guardò entrambi di sfuggita e poi tornò a
concentrarsi sul volume che aveva fra
le mani.
“Sempre
il solito…” commentò Antares, vedendo
Rukbat e Adhafera affrontarsi ridendo.
Anche
lui, Scorpione, era un guerriero ma non si allenava mai con gli altri.
Un po’
perché era una cosa che non gradiva e un po’
perché soffriva di improvvisi
attacchi di rabbia incontrollata che potevano risultare piuttosto
pericolosi
per la salute altrui.
“La
tua è solo invidia” gli disse Mek, il volto di
sinistra del rappresentante dei
Gemelli.
“Taci!”
sibilò Antares, incrociando le braccia.
“Sei
sempre girato di balle…” rispose Buda, il volto di
destra.
Aldebaran,
il Toro, sorrise. Lui era il più calmo del gruppo ed il
più grosso. Con corti
capelli ricci, castani e con due piccoli ciuffi simili a corna, aveva
folte
basette e profondi occhi neri. Vestiva sempre di verde, in varie
tonalità, e
raramente alzava la sua profonda voce. Anche Mekbuda aveva i capelli
corti, per
metà mori e per metà biondi, ed il volto diviso
in due. Sulla sinistra, il lato
biondo, stava Mek, di certo il più irritabile, e sulla
destra vi era Buda,
quello un pochino più diplomatico. I due visi avevano
caratteri diametralmente
opposti. Mek prevaleva quando Gemelli era arrabbiato, triste,
infastidito. Al
contrario, Buda aveva la meglio quando provava sentimenti di gioia,
calma,
pazienza. In quel momento era Mek il più attivo, non si
sapeva bene per quale
motivo, ed i suoi occhi azzurri erano spalancati ed accigliati. Lo
sguardo
castano di Buda, invece, era come assente, socchiuso e silente. Portava
un
abito grigio scuro piuttosto semplice, che in parte celava la sua
doppia
natura, avendo il cappuccio.
“Fatti
gli affari tuoi!” sbottò Antares, con furiosi
occhi rossi.
Vestiva
dello stesso colore, in una sorta di tunica con ampie maniche ricamate.
Aveva
splendidi capelli neri che teneva raccolti in una treccia terminante
con una
specie di bulbo, simile alla coda del segno che rappresentava: lo
Scorpione.
“Non
iniziate a litigare, per favore…” parlò
Aldebaran, senza alzare gli occhi dal
foglio che stava dipingendo, iniziando ad essere un po’
stanco delle continue
risse insensate di Antares.
“Lascia
che litighino. Prima o poi si stufano…”.
A
parlare era stato Deneb Algiedi, detto Dabha, il Capricorno. Sembrava
il più
anziano della compagnia, con lunghissimi capelli grigi che lasciava un
po’
sciolti lungo la schiena ed un po’ raccolti in due trecce
arrotolate simili a
corna. Era leggermente inquietante, vestito interamente di nero, con un
alto
colletto, e gli occhi bianchi. Giocava a carte per conto suo, ignorando
gli
altri cinque colleghi. Al Risha, distratto e sognante come sempre,
guardava il
cielo dove Rukbat e Adhafera si stavano affrontando. Trovava la cosa
divertente
e ridacchiava, reggendosi la testa con le mani, con i gomiti appoggiati
alla
finestra senza vetri.
Kosmos
arrivò fra loro con uno strano sorriso.
“Di
buon umore oggi, Signore?” domandò Antares,
ghignando soddisfatto.
“Discreto
direi. Non mi posso lamentare. E voi? Tutto bene?”.
“Come
sempre, nei secoli dei secoli…” si
lamentò Mek.
“Amen”
ridacchiò Dabha, sottovoce.
“È
il mio ed il vostro scopo. La cosa non
cambierà…” gli rispose Kosmos, con un
tono neutro che non lasciava intendere se fosse ciò che
desiderava oppure no.
Nessuno
disse altro. Tornarono a concentrarsi sulle stelle che controllavano.
Pur
morendo di curiosità, i rappresentanti delle costellazioni
presenti non ebbero
il coraggio di domandare al loro capo che cosa fosse successo
esattamente fra
lui e la Signora del lato Orientale. Dal sorrisetto di Kosmos dedussero
che non
era nulla di irreparabile.
In
realtà Kuruma era furiosa, molto più di quanto
Kosmos fosse in grado di
immaginare. Lei per millenni aveva avuto pazienza ed aveva represso la
rabbia e
la frustrazione, optando per il quieto vivere, ma ora la calma
l’aveva
abbandonata ed era pronta ad esplodere.
“Come
si premette?! Come ha osato?!” sbraitava, continuando a
camminare
incessantemente per la torre d’oriente “Sono
miliardi di anni che me ne sto
buona, in silenzio, senza protestare, abbassando la testa…
Ma ora ha passato il
segno! Non può trattarmi così e prendermi in
giro! Cosa crede che io abbia meno
di lui?! Chi si crede di essere?! Gli farò vedere io!!!
Io…io…”.
“Cosa
succede, mia Signora?” parlò una vocina.
Kuruma
si guardò attorno e vide che a parlare era stata Shu, una
piccola topolina
grigio chiaro con vispi ed enormi occhi rossi.
“Oh,
Shu, sei tu!”.
Lei
sedette e la prese delicatamente fra le mani. La accarezzò e
le riassunse tutta
la conversazione con Kosmos, sforzandosi di non mostrare quanto le
dispiacesse.
“Io
credo, mia Signora…” iniziò Topo
“…che dovremmo dargli una prova tangibile
delle nostre capacità”.
“Hai
qualcosa in mente?”.
“Sì.
Datemi solo il tempo di elaborare per bene il piano”.
“Non
avevo dubbi! Il tuo magnifico cervello è una fonte
inesauribile di idee!
Anticipami qual cosina…”.
“Meglio
di no. Preferirei prima parlarne con qualche mio
collega…”.
“Prendetevi
pure tutto il tempo che vi serve”.
“Ne
verrà fuori un bello scherzo, Madama!”.
“Che
è proprio quello che ci vuole, per quel cretino esaltato,
sensibile come un
pachiderma egocentrico!”.
Shu
la guardò, inclinando la testa con aria interrogativa, e poi
se ne andò, dopo
un inchino. Uscì dalla torre ed attraversò il
corridoio, raggiunse il salone al
piano terra, dove sapeva che stava l’aiuto di cui aveva
bisogno. L’aiuto si
chiamava Hòu, la Scimmia, abilissima con le mani e con il
cervello. Assieme,
non ebbero difficoltà ad elaborare un piano nei dettagli.
Kuruma aveva dato
loro carta bianca: era esattamente il momento che stavano aspettando!
Agirono
non appena notarono che la luce sulla torre ovest non si vedeva, segno
che il
suo proprietario non era in quel luogo oppure dormiva profondamente,
spegnendo
la luminescenza della propria pelle. Hòu
attraversò agilmente la cupola
trasparente che sovrastava il corridoio centrale
dell’edificio e si diresse in
fretta verso la sua meta: la torre occidentale. Vi si
arrampicò velocemente,
fino a raggiungere una delle finestre sulla cima. Entrò, con
Shu saldamente
aggrappata ai peli della sua schiena marrone scuro.
“Fai
piano, amica mia” sussurrò Topo.
“Sarò
silenziosissima!” lo rassicurò Scimmia.
Entrarono
da una finestra e si guardarono attorno, nel buio. Il loro scopo era
sottrarre
a Kosmos qualcosa di prezioso, di cui di certo avrebbe sentito la
mancanza, e
fargli notare quanto facilmente il furto fosse avvenuto. Il tutto per
smorzare
il suo ego smisurato. Non avevano un’idea chiara su quale
oggetto portar via ma
poi lo videro… Il lungo bastone d’argento! Con la
sua strana punta leggermente
attorcigliata, se ne stava là, contro la parete, emanando
solamente un leggero
bagliore. Quello ero il furto perfetto! Sapevano bene che Kosmos non si
separava mai da quell’affare. Scimmia e Topo si fissarono,
costatando con
soddisfazione di aver avuto la stessa idea, e si sorrisero. Con un
cenno del
capo, Hòu lo afferrò fra le mani. Doveva stare
attenta. Se quel coso era lì,
voleva dire che il suo padrone non era lontano. Lo strinse e lo mosse,
leggermente. Questi, inaspettatamente, tintinnò. La punta
ricurva aveva piccoli
anellini dorati su di essa che risuonarono quando furono spostati. La
stanza si
inondò di luce azzurra, segno che il Signore Occidentale si
era svegliato. Hòu
e Shu si consigliarono mentalmente di nascondersi dietro la pesante
tenda che
copriva la finestra da cui erano entrati.
“Speriamo
non ci trovi…” trasmise a Scimmia il Topo.
“Stiamo
immobili…” rispose, sempre mentalmente, Scimmia.
“Chi
c’è? Chi è là?”
sbottò Kosmos, mettendosi a sedere sull’alto letto
e scostando
il tendaggio del baldacchino.
La
sua inconfondibile luce azzurra pulsava, infastidita. Il padrone della
torre si
alzò lentamente, andando verso il bastone. Sembrava tutto in
ordine. Lo prese
fra le mani, osservandolo da vicino, e poi lo ripose. Si guardo
attorno,
circospetto.
“Chi
c’è?” domandò di nuovo e poi
sorrise “Chi vuoi che ci sia, coglione?” si
rimproverò “Hai solo tu accesso a questa
torre!”.
Tornò
a letto, borbottando un “Me lo sarò
immaginato” prima di distendersi. Non era
stanco, non aveva bisogno di dormire, ma gli piaceva sognare. Chiuse
gli occhi
e, lentamente, la sua luce iniziò ad affievolirsi fino a
spegnersi del tutto.
Topo
e Scimmia attesero il ritorno del buio totale per muoversi. Uscirono,
furtive,
dal loro nascondiglio. C’era mancato davvero poco!
Fortunatamente a Kosmos non
era passato nemmeno per la testa di scostare la tenda accanto al
bastone!
Rabbrividirono solo all’idea di che cosa sarebbe successo se
le avesse scoperte!
“Facciamo
in fretta!” squittì Shu.
“In
un baleno!” rispose Hòu, afferrando il bastone per
i cerchietti, impedendogli
di suonare.
Dopodiché
balzò giù dalla finestra, raccomandando Topo di
tenersi forte, atterrò sulla
cupola e tornò alla torre della sua padrona, senza che
nessuno la notasse.
Kuruma
fu entusiasta della loro impresa. Strinse il bastone fra le mani e
sorrise,
soddisfatta.
“Ottimo
lavoro!” disse, orgogliosa.
“Non
è ancora finita, mia Signora!” si
affrettò a spiegare Shu “Quel bastone è
quello che permette al suo proprietario di ricaricare il meccanismo di
rotazione della sua porzione di cielo ed è simbolo del suo
potere. Ma c’è un
altro simbolo che loro possiedono…”.
“Lo
Scettro delle Ere! Quello che ora ha in custodia il controllore dei
Pesci!”
spalancò gli occhi Kuruma.
“Precisamente.
E ora andremo a prendere pure quello. Senza quei simboli, Madama,
dovranno per
forza riconoscerle la degna importanza ed il giusto rispetto”.
La
Signora Orientale continuò a rigirarsi il bastone fra le
mani, mentre Topo e
Scimmia si avviavano verso le stanze di Al Risha. Non aveva alcuna
intenzione
di nasconderlo. Non vedeva l’ora di avere entrambi gli
oggetti fra le mani e
chiamare Kosmos, per sfotterlo un po’.
Quell’esaltato avrebbe dovuto
riconoscere le sue capacità, o sarebbe stato peggio per lui!
“La
casa dei Pesci è al pianterreno, la prima dopo la
torre” spiegò Shu, mentre Hòu
tornava ad attraversare la cupola trasparente, attenta che non vi fosse
nessuno.
Rimpianse
il fatto di non aver abbastanza forza nelle mani, o avrebbero potuto
sottrarre
entrambi gli oggetti in una volta! Controllarono che Acquario, che
aveva la
residenza sopra a quella di Pesci, non fosse presente e ridiscesero,
sfruttando
il suo balcone. Udirono la risata di Al Risha ma non proveniva dalla
sua stanza
bensì da quella accanto, quella di Capricorno. Entrarono
senza problemi e
sottrassero lo scettro, lasciato incustodito, e tornarono in fretta
alla loro
torre.
Kuruma,
con entrambi gli oggetti fra le mani, scoppiò a ridere.
“Splendido
lavoro, saprò come ricompensarvi” disse, rivolta a
Shu e Hòu.
Sempre
ridendo, si affacciò alla finestra. Il suo collega ancora
dormiva. Avrebbe
atteso un po’ prima di svelargli l’accaduto!
“Se
è uno scherzo, è di pessimo gusto!”
tuonò Kosmos, piombando nel salone dove i
maschi della casa stavano seduti.
I
sei si fissarono con aria interrogativa. Antares smise di esercitarsi
con la
lunga spada, Deneb Algiedi ed Aldebaran ignorarono i rispettivi lavori
di
pittura che stavano realizzando, Rukbat depose il libro che stava
leggendo,
Mekbuda smise di insultarsi da solo e Al Risha scese dalle nuvole,
smettendo di
guardare fuori dalla finestra in cerca di chissà che cosa.
“Chi
di voi sei piccoli stronzi cerca di farmi fesso?”
ringhiò di nuovo Kosmos, con
un’inquietante luce rossastra negli occhi.
“Piccoli
stronzi?!” sibilò Antares, non nascondendo di
essersi irritato nel sentirsi
definire così.
“Cosa
è successo?” parlò Aldebaran, tentando
di riportare la calma.
“La
Chiave!” urlò Kosmos
“Dov’è la chiave della porta del
cielo?!”.
“Vi
riferite a quella specie di cavatappi gigante che vi portate sempre
dietro?”
domandò Rukbat.
“Proprio
quello. Dove sta?”.
“Perché
dovremmo averlo noi? Che ce ne facciamo?” sbottò
Antares.
“In
effetti…” mormorò Al Risha.
“Qui
non c’è, Signore. Avete provato fra le
ragazze?” propose Buda “Loro sono più
infime di quanto possiate pensare!” concluse Mek.
“Prima
voglio essere certo che non sia stato uno di voi a prenderlo. Pretendo
ed esigo
vedere le vostre stanze, immediatamente!” ordinò
il padrone del lato ovest.
“Non
è che semplicemente lo avete perso?”
azzardò Antares.
“Come
faccio ad averlo perso, inutile parassita del mio sistema
nervoso?” fu la
risposta .
“Non
lo so e non me ne frega un cazzo! Quello che so è che
nessuno può accusarmi di
essere un ladro!”. Scorpione ormai aveva perso del tutto la
pazienza ed il suo
sguardo rosso ne era un chiaro segnale.
“Uno
di voi dodici dev’essere stato!” riprese Kosmos
“Lui, il mio bastone, non se ne
va di certo in giro da solo! Perciò…”.
“Ma
noi alla torre non abbiamo accesso!” interruppe Rukbat.
“Sarete
entrati dalla finestra, che ne so! So che non c’è
più!”.
“Avete
guardato bene nella torre, Signore?” sorrise Al Risha, con lo
sguardo ancora
perso nel vuoto delle sue fantasticherie ad occhi aperti.
Kosmos,
decisamente fuori di sé, lo afferrò per i
capelli, lo sollevò e lo guardò in
viso.
“Ok…”
gemette Pesci, consapevole della forza che poteva richiamare il suo
padrone
“…evidentemente avete guardato
benissimo!”.
“Dov’è
lo Scettro delle Ere, Al Risha? Non dovresti lasciarlo
mai…” sibilò Kosmos,
rimettendo lentamente a terra il suo sottoposto.
“Vado
subito a prenderlo, capo…”.
Pesci
se ne andò per qualche minuto per poi ricomparire,
leggermente pallido.
“È
sparito!” mormorò, aspettandosi una reazione
esplosiva da parte di Kosmos.
Questi,
inaspettatamente, rimase calmo.
“Noi
sei siamo rimasti qui nel salone per un sacco di
tempo…” iniziò Aldebaran,
mostrando il complesso quadro che stava dipingendo e che ormai era
quasi
completo.
“Mi
spiace allora constatare che sono state le ragazze”
sospirò il padrone
“Peccato. Speravo che i delinquenti, qui, foste solo voi.
Dai, andiamo…”.
“Andiamo
dove?” si incuriosì Mekbuda.
“Di
sopra, genio!” sbottò Kosmos, dando le spalle ai
sei ed avviandosi spedito
verso la scala che conduceva al piano superiore.
“Nelle
case delle donne? Possiamo?” si stupì Al Risha.
“Per
stavolta sì. Non fatene un’abitudine,
però. Vi avviso: vi romperò il cazzo
finché il colpevole non confesserà, statene
certi!”.
Il
capo occidentale entrò nel salone femminile senza ritegno,
sbattendo la porta.
Le donne presenti sobbalzarono e lo fissarono sconcertate, specie
notando i sei
uomini del piano inferiore dietro di lui.
“Vi
voglio tutte a rapporto qui, immediatamente!”
ordinò, sbraitando, Kosmos.
“Ma…”
iniziò Hamal, l’Ariete.
“Niente
ma! Tutte qui, ora!”.
Dopo
qualche istante di proteste e corse lungo il corridoio, le sei furono
in fila,
a rapporto davanti al loro capo. Sadalmelik, l’Acquario, era
coperta solamente
da un asciugamano, non molto grande. Stava facendo il bagno ed era
decisamente
infastidita da quell’interruzione. Dentro di sé
sperò che fosse davvero
urgente. Adhafera, Leone, rientrò in sala dalla finestra. Si
stava esercitando
e ringhiò infuriata dall’impossibilità
di continuare.
“Spero
sia una cosa di vitale importanza…”
sbottò Hamal.
“Credo
proprio di sì…” le sussurrò
Zubeneschamali, Bilancia “…hai visto che rabbia ha
Kosmos negli occhi? Fa paura…”.
“E
poi si è portato dietro gli uomini…”
aggiunse Acubens, Cancro.
“La
Chiave del Cielo e lo Scettro delle Ere mi sono stati
sottratti” parlò il capo
occidentale “Chi di voi li ha rubati? Fuori il colpevole,
all’istante, e vedrò
di non ucciderlo…”.
“Io
no. Che me ne faccio?!” si affrettò a dire Hamal.
“Io
neppure. Non mi sono mossa da qui” aggiunse Acubens.
“Vero.
È stata tutto il tempo accanto a me”
confermò Zubeneschamali.
“Io,
come vedete, ero impegnata in altre attività”
sbuffò Sadalmelik, gocciolante.
“Pure
io ero impegnata in altre attività”
ringhiò Adhafera.
“Logicamente
parlando…” iniziò Astrea, dato che
tutti la fissavano “…non avrebbe senso per
noi sottrarre lo Scettro delle Ere, dato che spetterà a noi
donne gestirlo fra
meno di due anni…” e guardò Acquario,
che annuì, non potendole dare torto.
“E
per quanto riguarda la Chiave?” chiese Kosmos, incrociando le
braccia, per
niente convinto.
“Un
oggetto del genere non può essere nascosto facilmente. Lo
cerchi pure. Se lo ha
preso una di noi, salterà fuori di sicuro” rispose
Vergine, rimanendo seria ed
incredibilmente calma.
“Benissimo!
Ragazzi…pensateci voi!” ordinò il capo
“Uno per stanza e ricordatevi che lo
noto subito se mentite. Non costringetemi a punirvi
tutti…”.
I
sei maschi, con evidente imbarazzo, si fecero portare ognuno ad una
stanza
diversa.
“Potete
cercare quanto volete” parlò Astrea, rivolta
all’ispettore della sua stanza,
Rukbat “Non troverete da nessuna di noi quegli
affari!”.
“Da
qualche parte devono essere, no?” rispose Sagittario, aprendo
tutti i cassetti
della camera d’Astrea.
Lei
ne osservò tutti i movimenti a braccia incrociate,
appoggiata alla porta.
Ovviamente
gli oggetti non furono trovati. Kosmos era sempre più
alterato dal fatto che,
uno dopo l’altro, nessuno trovò ciò che
cercava. L’ultimo a dare responso fu
Aldebaran, sempre piuttosto lento, dalla stanza di Hamal.
“Qui
non c’è niente, Signore”
parlò, chinando il capo.
“Qualcuno
mente, è ovvio! Oppure siete ciechi, impediti,
rincoglioniti, e non vi siete
accorti della Chiave e dello Scettro in una delle stanze!”
affermò, convinto,
il signore del lato ovest.
“Un
momento…e se fossero loro, gli uomini, a nascondere quei
cosi?” domandò Hamal.
“Infatti…”
annuì Astrea.
“State
dando la colpa a noi?!” si arrabbiò, come sempre,
Antares.
“E
a chi se no? Ad un buco nero?!” rispose l’Ariete.
“Che
faccia tosta…” ghignò Rukbat.
“Da
che pulpito!” sbottò Vergine.
Sagittario,
punto nell’orgoglio, girò le orecchie a punta
all’indietro e la fissò, senza
parlare, con aria minacciosa. Astrea incrociò le braccia e
sostenne quello
sguardo in silenzio.
“Noi
siamo innocenti!” affermò Al Risha.
“E
come credervi?” domandò Sadalmelik.
“Qualcuno
dev’essere stato!” quasi urlò Kosmos.
“Ma
taci!” lo zittì Antares
“L’avrai tu in camera ma, dato che sei rintronato,
non
te ne sei accorto!”.
“Ma
come ti permetti, inutile ammasso di stelline
sopravvalutate?!”.
Nel
giro di qualche istante, fu rissa. Tutti contro tutti, in un insieme di
urla,
insulti e percosse più o meno forti. Ci fu pure qualche
morso.
“Caspita…basta
così poco per farvi litigare…”
parlò una voce, femminile, dopo qualche minuto.
“Kuruma!”
sbottò Kosmos “Cosa vuoi?! Non ti è
permesso entrare qui!”.
Con
un gesto della mano, il padrone del lato ovest fermò i suoi
dodici sottoposti,
che smisero di picchiarsi, anche se qualche insulto e pernacchia ancora
si
sentì.
“Piantatela!
State buoni!” ordinò il capo e fu silenzio.
“Non
ho resistito” spiegò Kuruma “Volevo
vedere la tua faccia davanti alla realtà,
Kosmy!”.
“Kosmy?!”
ridacchiò Antares e ricevette un’occhiataccia
terribile dal suo padrone.
“Quale
realtà?” domandò Kosmos, pronto a
ricominciare a litigare.
La
signora orientale fece un cenno con la testa ed apparve Hòu,
Scimmia, porgendo
la Chiave del Cielo alla sua padrona.
“L’avevi
tu, stupida femmina!” sibilò il proprietario
dell’oggetto.
“Attento
a come parli!” lo minacciò lei, stringendo il
lungo bastone fra le mani.
“Anche
lo scettro lo avete voi?” domandò Al Risha.
“In
questo momento, ci stanno giocando Shu e Long” fu la risposta.
“Come
sarebbe a dire che ci stanno giocando?!” si
allarmò Kosmos.
“Rilassati!
Non lo rompono mica!”.
“Li
rivoglio! Rivoglio Scettro e Chiave!” si lagnò il
signore occidentale, con un atteggiamento
decisamente infantile che stupì i suoi sottoposti.
“Io
te li rendo solo se ammetti che il mio potere è pari al
tuo”.
“Questo
mai. Io non dico balle!”.
“Non
è una balla! Io sono potente tanto quanto te!”.
“Non
farmi ridere! Tu possiedi solo il misero Scettro degli Anni. Se
permetti, si
capisce che i miei oggetti sono molto più potenti ed
importanti!”.
“Solo
perché tu sei in possesso di gingilli simili, non significa
che tu sia migliore
di me…”.
“Sei
proprio una femmina testarda”.
“E
tu un misogino esaltato!”.
“Patetica
creatura!”.
“Pomposo
pagliaccio!”.
“Irritante
nanerottola!”.
“Sanguisuga
nullafacente!”.
“Sei
noiosa come una coda in autostrada o una zanzara nelle
orecchie!”.
“E
tu sei irritante come le tasse e la pubblicità messe
assieme!”.
In
quello scambio di insulti, i dodici abitanti delle case
dell’ovest si fissarono
con sempre maggiore preoccupazione.
“Cos’è
un’autostrada?” mormorò Antares.
“E
la pubblicità?” gli rispose Hamal.
Nessuno
di loro usciva da quel palazzo da millenni e non gli erano chiari
parecchi dei
termini di paragone usati dai loro padroni. Non avevano mai visto i
loro
signori insultarsi in quel modo. Solitamente si ignoravano, oppure si
limitavano a qualche parola tanto per passare il tempo.
“Perché
arrivare ad un gesto così stupido, Kuruma?”
“Perché
tu mi ignori, qualsiasi cosa faccia, e non mi consideri
all’altezza. Almeno
così posso dimostrarti che sono più forte e sei
costretto a vederlo!”.
“Quindi
tutto questo è solo un esagerato modo di attirare
l’attenzione?!”.
“Solo
un esagerato modo di farti abbassare un po’ la cresta e farti
accorgere che
esistiamo anche noi d’Oriente. Che, ovviamente, valiamo tanto
quanto voi
d’Occidente!”.
“Patetico…”.
Kosmos
ora sghignazzava, probabilmente convinto che fosse tutto uno scherzo.
Hòu
guardava la padrona e capiva che la sua era rabbia e frustrazione
autentica,
nei confronti di un uomo che aveva rispetto e considerazione solamente
per se
stesso.
“Signora…”
provò a dire, ma Kuruma la zittì, con un gesto
della mano.
“Portami
lo Scettro delle Ere” disse, senza guardare negli occhi
l’animale, che corse
via in fretta.
“Me
lo rendi?” sorrise Kosmos “Bene! Vedo che, in
fondo, sai anche ragionare. Del
resto…cosa te ne fai tu dello Scettro delle Ere?!”.
Scimmia
riapparve e porse lo scettro a Kuruma.
“Vieni
fuori con me, Kosmos” parlò la signora orientale,
ostentando una calma
innaturale.
I
due uscirono sul terrazzino, dopo aver attraversato il corridoio in
comune. I
dodici dell’Ovest guardarono entrambi con preoccupazione.
Anche i dodici
dell’Est si erano affacciati lungo il tratto comune
dell’edificio, allarmati
dal volto teso di Hòu. Così erano in
ventiquattro, uno vicino all’altro, a
circondare l’ingresso del terrazzino e ad osservare i due
signori. Da un lato
Ariete Hamal, Toro Aldebaran, Gemelli Mekbuda, Cancro Acubens, Leone
Adhafera,
Vergine Astrea, Bilancia Zubeneschamali, Scorpione Antares, Sagittario
Rukbat,
Capricorno Deneb Algiedi, Acquario Sadalmelik e Pesci Al Risha. Dal
lato
opposto Topo Shu, Bue Niu, Tigre Hu, Lepre Tù, Drago Long,
Serpente Shè,
Cavallo Ma, Capra Yang, Scimmia Hòu, Gallo Ji, Cane Gou e
Maiale Zhu.
“Sono
pronto a farmi rendere ciò che mi appartiene e ricevere le
tue scuse” disse
Kosmos, una volta che entrambi ebbero raggiunto la terrazza
semicircolare.
Di
tutta risposta, Kuruma afferrò lo Scettro delle Ere e glielo
sbatté in faccia,
con rabbia e forza.
“Era
da miliardi di anni che sognavo di farlo!” mormorò
lei, soddisfatta, mentre lui
si premeva il viso fra le mani, gemendo incredulo e bestemmiando.
“Ho
fra le mani i simboli del tuo potere, Kosmos! Inchinati, ammetti di non
essermi
superiore, e non ti farò alcun male!”
parlò la signora orientale, spalancando
le braccia con un oggetto magico per mano.
“Ma
sei impazzita?!” biascicò l’occidentale
“Vai a farti curare e stai lontana da
me!!”.
“Perché
ti è così difficile dire che le nostre forze si
equivalgono?! Perché ti è
impossibile ammettere che pure io esisto? Che pure io ho un
senso?”.
“Non
so che senso tu abbia, sinceramente. Per quanto riguarda il fatto che
tu esista,
non ho dubbi al riguardo! Mi hai appena spaccato la faccia con il MIO
scettro!!”.
“E
per quanto riguarda l’equivalenza
dei
nostri poteri?”.
“Piantala
con questa storia assurda! Ridammi ciò che mi appartiene e
torna al tuo posto,
insolente torturatrice della mia ormai misera pazienza!”.
“Long!”
gridò Kuruma “Portami subito il ventaglio
rosso!”.
“Cosa
pensi di fare?!” ghignò Kosmos, mentre Drago
porgeva alla sua padrona ciò che
gli era stato chiesto.
“Hi!”
urlò l’orientale, evocando il fuoco.
Aprì
di colpo il ventaglio, lasciando temporaneamente lo scettro fra le mani
incredule di Drago, e le fiamme iniziarono ad espandersi a spirale
verso
Kosmos.
“Non
puoi fare sul serio…” mormorò lui fino
all’ultimo momento, quando schivò solo
in parte il colpo.
“Signore!”
si allarmò Sadalmelik, avanzando d’istinto di un
passo.
“State
fermi dove siete, tutti quanti!” ordinò il padrone
d’occidente, rivolto ai suoi
dodici sottoposti.
“Kinzoku!”
riprese Kuruma, evocando il metallo del ventaglio che aveva tenuto
legato alla cintura.
Una
fila di acuminate punte argentee si diresse rapide verso Kosmos, che le
respinse spalancando gli occhi ed espandendo la sua luce. Alcune
riuscirono a
colpirlo di striscio e la cosa lo irritò parecchio.
“Vuoi
proprio giocare, a quanto pare!” ringhiò
“Ho perso del tutto la pazienza,
bambina. Ora vedrai cosa è in grado di fare il signore
più potente
dell’universo creato!”.
“Pomposo
cretino!” fu la risposta, per nulla turbata, della signora
d’oriente, che
ricambiò la provocazione con un attacco combinato dei due
ventagli.
Lui
si librò in aria, schivandoli, e si apprestò ad
attaccare. Non potendo
utilizzare la forza della Chiave del Cielo o i poteri dello scettro,
girò gli
occhi verso Antares, che trattenne il respiro sapendo bene cosa lo
attendeva. Un
vento gelido avvolse il rappresentante della costellazione e poi
andò verso il
suo padrone, che ne acquisì le capacità. Una
grossa coda da scorpione spuntò da
Kosmos e con lei il suo mortale veleno. Kuruma lo fissò,
soddisfatta del fatto
che prendesse finalmente la cosa sul serio. Di risposta, lei
acquisì i poteri
di Shè, Serpente.
“Veleno
con veleno…divertente!” ghignò lui.
“Presto
scoprirai quel’è il più
mortale!” sibilò lei, con la lingua biforcuta ed
un
paio di denti affilati ben in evidenza, pronti ad attaccare.
Kosmos
mosse rapidamente la coda ma Kuruma fu più veloce e il colpo
trafisse il
pavimento della terrazza, lasciandoci un bel buco.
“Io
voto per rientrare in casa alla svelta…” propose
Mek.
“No!
Noi non ci muoviamo di qua!” lo fermò Buda, e
Gemelli riprese a litigare da
solo.
“Non
li ho mai visti fare così. E sì che son qua da un
sacco di tempo…” commentò
Deneb Algiedi.
“A
chi lo dici!” gli rispose Hamal “Ma ci han detto di
non intervenire…”.
Si
susseguirono una lunga serie di attacchi da parte del signore
d’occidente, che
però non riuscirono ad andare a segno, per
l’impressionante velocità della
signora d’oriente, e lasciavano solo segni devastanti
sull’architettura
dell’edificio. Con un balzo, Kuruma fu addosso a Kosmos e lo
strinse con le braccia
e le gambe, sempre più forte.
“Non
costringermi a morderti! Arrenditi!” sibilò.
“Mai!”
gemette lui, tentando invano di liberarsi.
Lei
non lasciò la presa. Kosmos cadde in ginocchio, avvertendo
il fatto che lei
stava assorbendo la sua energia e lo stava sfinendo. I dodici
già si
mobilitavano per intervenire, ma lui li fermò di nuovo,
colpito da
un’improvvisa idea. Mutò, lasciando Antares
sfinito, ed acquisì Aldebaran,
Toro. Questo fece sì che il suo corpo divenisse
più grosso e massiccio e
Kuruma fu costretta a lasciare la presa. Pure
lei cambiò acquisizione, scegliendo Niu il Bue. Divenuta
altrettanto grossa e
pesante, i due ripresero ad affrontarsi in una sorta di strana lotta
libera.
Approfittando delle maggiori dimensioni, Kosmos riuscì, dopo
un po’, ad avere
la meglio.
“Arrenditi!”
ansimò, tenendola bloccata con il pesante corpo.
Lei,
di risposta, gli ringhiò in faccia, assimilando i poteri di
Hu, Tigre.
“Fottiti,
stupida donna!” ringhiò a sua volta lui, divenendo
in parte Adhafera, Leone.
“Prima
tu, irritante mongolfiera di autocelebrazione!”.
La
lotta fra i due ora era più aspra, fatta di graffi e morsi,
fra un ruggito ed
un altro. La furia della tigre, accentuata dalla rabbia che provava
Kuruma in
quel momento, fece sì che il Leone Kosmos finisse a terra,
con la mano
artigliata della signora d’oriente che gli premeva la gola
sempre più forte,
ridacchiando. Lui, ovviamente, non si diede per vinto.
Lasciò che il viso di
lei si avvicinasse, nel tenerlo ancorato al pavimento del terrazzino, e
le diede
una testata, emettendo uno strano verso simile ad un belato. Aveva ora
dentro
di sé il potere di Hamal, Ariete. Kuruma lo
lasciò andare temporaneamente e poi
rispose con lo stesso attacco, sfruttando le capacità di
Yang, Capra. Il loro
scontro a testate fece sorridere più di qualcuno dei
presenti. Sfortunatamente
per la signora orientale, era impossibile avere la testa più
dura di quella di
Kosmos e, dopo qualche colpo ben assestato, lei finì
scaraventata lontano. Lui
si alzò, tutto orgoglioso e convinto della sua vittoria,
incrociando le braccia
e ghignando soddisfatto. Lei non si vedeva, essendo finita oltre la
balaustra
della terrazza.
“Bene,
bene. Possiamo tornare a farci i fatti nostri, come sempre!”
parlò il signore
occidentale.
“Non
ancora!” si sentì dire, e lei tornò al
galoppo, sottoforma di centauro, avendo
in parte Ma il Cavallo dentro di sé.
Kosmos
fu rapidissimo ed assimilò Rukbat, divenendo a sua volta un
bellissimo centauro
blu.
“A
noi due, signorina!” rise, nitrendo.
“Fatti
sotto, pony!” ribatté la signora
d’oriente.
Iniziò
una scazzottata senza esclusione di colpi con tanto di calci a
zoccolate. Le
loro forze, però, si equiparavano e lo scontro non giungeva
ad una conclusione.
Chiave e Scettro erano abbandonati in terra.
Kosmos,
riuscendo temporaneamente a spingere la sua avversaria sufficientemente
distante, allungò la mano verso il bastone, ma una fiammata
improvvisa gli
bruciò la mano. La ritrasse d’istinto e
un’ombra inquietante oscurò parte delle
stelle. Il signore
occidentale alzò lo sguardo
e abbassò le orecchie a punta. Kuruma era diventata enorme e
sputava fuoco,
sfruttando il potere di Long, Drago.
Preso
dal panico, il signore d’occidente non sapeva con cosa
controbattere. Forse le
ali di Astrea…
“Sei
più fastidiosa di un’ape nelle mutande!”
gridò contro la sua avversaria,
ignorando il fatto che questa continuava ad aumentare di dimensioni a
dismisura.
“Io
ti ci infilo un intero alveare nelle mutande, microbo dai capelli
blu!” ruggì
lei, afferrando la Chiave del Cielo,decisa ad usarla.
La
punta attorcigliata dell’oggetto si illuminò e
tutti furono costretti a serrare
momentaneamente gli occhi. Quando li riaprirono, Kuruma occupava tutta
la
visuale, con i lunghi capelli neri che si erano sciolti e si
arricciavano,
mossi da un vento invisibile, e la splendida veste rossa che si muoveva
dolcemente. Con l’affusolata mano, teneva sospeso a
mezz’aria Kosmos, minuscolo
in paragone con le dimensioni attuali di lei. Nessuno ebbe il coraggio
di
parlare. La Chiave si era adeguata alle dimensioni della signora
orientale e
pulsava, come un cuore vivo.
“Sarà
il Cielo a decidere qual è il tuo posto”
mormorò Kuruma, dolcemente.
Con
un sorriso, serrò il pugno e lui ne rimase intrappolato. I
dodici d’occidente
si allarmarono e corsero verso quel pugno, volando mossi dai loro
poteri
astrali.
“Che
volete voi, moscerini?” si stizzì Kuruma.
“Lascialo
andare!” le gridò Hamal, tentando di avere
un’aria minacciosa.
“È
quello che ho intenzione di fare, ma levatevi dalla
traiettoria!” ringhiò la
signora.
“Quale
traiettoria?!” cadde dalle nuvole Al Risha.
“Come
volete…” alzò le spalle Kuruma,
spalancando la mano e racchiudendo all’interno
anche i dodici segni d’occidente senza difficoltà.
Iniziò
ad agitare il pugno come a lanciare un dado.
“Ultima
possibilità, Kosmy. Ammetti che i nostri poteri sono pari e
farò finta che
nulla sia successo. Torneremo ognuno al nostro posto e via
così, per millenni e
millenni…”.
“Scordatelo,
arrampicatrice sociale imbrogliona!” biascicò
Kosmos, sballottato contro i suoi
sottoposti all’interno del pugno della donna a capo del lato
orientale.
Lei
non capì del tutto quell’insulto, ma comprese che
il suo collega non si
arrendeva. Strinse più forte fra le mani la Chiave del
Cielo, richiamandone
l’energia.
“L’hai
voluto tu!” ringhiò.
“Signore…io
credo che sarebbe saggio ammettere che lei…”
iniziò Aldebaran, ma il suo
superiore lo zittì subito, impedendogli di tentare di farlo
ragionare.
“Che
cosa ha intenzione di fare?” sussurrò
Tù, Lepre.
“Niente
di buono, spero!” sghignazzò Ji, Gallo.
Kuruma
alzò il braccio e lasciò la presa, lanciandone il
contenuto lontano, fra
l’universo di stelle e pianeti lontani e fra lo stupore
generale. Kosmos,
resosi conto della situazione, tentò di frenare la caduta ed
indirizzare quella
degli altri, in modo che non finissero dispersi
nell’eternità. Cadevano
rapidamente, allontanandosi l’uno dall’altro. Il
signore occidentale,
raccogliendo le ultime forze, espanse la sua luce ed avvolse
l’intero gruppo.
Antares, ancora stanco a causa della battaglia in cui il suo padrone
aveva
sfruttato l’energia dello scorpione, chiuse di nuovo gli
occhi, accecato.
Quando li riaprì, era a terra, da solo, nel buio di un
pianeta, lontano dalla
sua casa e senza più una sola briciola di forza magica.