Part I
Chapter II
Memorie infrante
“Il ricordo avrebbe dovuto riempire il tempo, ma
rendeva il tempo un buco da riempire.”
Jonathan Safran Foer
La pupilla era dilatata,
l’occhio scrutava, il naso tirava. La sua mente stava viaggiando: era un
acquario infestato da sostanze tossiche. Le pareti potevano anche essere lucide
e trasparenti, ma rimaneva pur sempre una prigione. Per gli squali come lei
ancora di più. Le malignità erano peggio
di un pugno allo stomaco, soprattutto quando erano vere.
Anastasia appena aprì
ask.fm
dal cellulare notò che era presente la notifica di una nuova domanda.
Alzò gli occhi al cielo: sapeva benissimo che era la stessa persona che
la stava tormentando nelle ultime due ore con delle futili domande in anonimo.
O meglio, più che domande, ingiurie.
“Tua madre è un’attrice, no?
Perché non prendi la sua stessa strada e diventi la protagonista di un
nuovo film? Ho già il titolo: ‘la ragazza
che sussurrava ai cadaveri’. Anzi, ancora meglio:
‘la troia che sussurrava ai cadaveri’, che ti si addice di
più”.
La ragazza digrignò
i denti dalla rabbia, per poi cancellare la domanda senza esitazione.
Era arrivata da quindici
minuti all’Old Denver’s Tales ed era già strafatta. Aveva cominciato a
tirare coca qualche ora fa, poco dopo aver letto il primo di una
lunga fila di spietati messaggi da parte di quell’anonimo.
Era passato un anno da
quel giorno per lei delicatissimo, e a quanto pare non era l’unica a
saperlo. Ciò che tormentava maggiormente la giovane era dovuto al fatto che
lo aveva rivelato solo alle persone a lei più care, ed
i messaggi che continuava ad inviarle quell’anonimo i quali cancellava
categoricamente potevano significare solo due cose: o qualcuno era andato a spifferarlo
in giro, oppure uno di loro era soltanto uno sporco traditore. Aggrottò
le sopracciglia al solo pensiero.
Anastasia notò una
sagoma lungo il marciapiede avvicinarsi sempre di più: non le ci volle
molto per realizzare che si trattava di Diane
Courtney Hannon, la sola persona la quale –
probabilmente – avrebbe potuto definire sua vera amica.
«Ehi, faccia da
schiaffi», la salutò questa, presumibilmente divertita dal fatto
che l’altra stesse barcollando con tanto di ultimo modello di iPhone tra le mani e che avesse
un’espressione da totale rincoglionita.
Anastasia non fece in
tempo a ricambiare il saluto che il telefono vibrò. Un
altro messaggio da Ask: “Che poi, vogliamo parlare delle tue performance con gli amanti degli
incesti? Ti sei fatta padre e
figlio. Ahahah, che triangolo! Sei peggio
di una dinamite”.
Si era ripromessa di non
rispondere a quegli insulti, ma quell’anonimo stava davvero esagerando.
Le dita cominciarono quasi a digitare le parole automaticamente: “La dinamite te la ficco nel culo, così magari ti esplode. Non ti azzardare
più a scrivere qualcosa su di me. Tu non sai niente della mia vita, non
eri presente durante quegli avvenimenti e non sai com’è andata.
Tranquillizzati: quando uscirà fuori chi sei,
farò sparire te e la tua identità dalla circolazione. Ricordati
che sono la figlia di Philippe Hamilton. Guardati le spalle,
pezzo di merda!”.
Appena pubblicò la
risposta, la giovane fece un lungo respiro, socchiudendo gli occhi per qualche
secondo.
«Tutto bene?»,
domandò cauta Diane.
«A parte qualche povero
sfigato che non sa che fare la sera», la rossa
incrociò lo sguardo dell’altra e si bloccò per un attimo,
per poi terminare la frase. «Direi normale».
«Che cazzo significa “normale”? Hai
fatto i conti con il passato?».
«Con il passato ho
già chiuso da un bel po’ di tempo».
«E allora qual
è il problema?».
«Nessuno».
«Io non riesco
proprio a capirti!», esclamò Diane, visibilmente esasperata,
tirando l’amica per un braccio e lasciandola di fronte ad una delle
finestre principali del pub, dove potevano intravedere
i loro riflessi. «Guardati! Lavori come modella,
hai delle tette da paura, i capelli fino al culo, sei
una strafica. Di che cazzo ti preoccupi, mica l’ho capito, sai?»,
fece una pausa, per poi concludere: «Al tuo
posto me ne sarei approfittata di un corpo del genere e sarei piena di
miliardi».
Anastasia – anche se
tentata – non cedette a quell’indefinita provocazione, mentre continuava
a bloccare e sbloccare instancabilmente la schermata
dell’iPhone.
«Poi non mi hai mai raccontato cosa è
successo con quello lì. Me lo vuoi dire adesso? Era il tuo ragazzo, no?», insistette Diane, che sembrava non voler mollare la
presa.
«Non era il mio
ragazzo», quasi urlò infastidita. «Smettila di tormentarmi
con questa storia, non ne voglio più sentire parlare fino alla fine dei
miei giorni».
L’amica si era
addentrata in un terreno minato, nella sfumatura più fragile
dell’anima della ragazza, ma era troppo orgogliosa per
chiederle scusa. «Bella, ma chittese’ncula! Sei te che stai
facendo la depressa, mica io!», e si voltò dall’altra parte,
fingendo di rispondere ad un messaggio inesistente.
Anastasia si accese
l’ennesima sigaretta, la quarta nelle ultime due ore, e gliela porse in
segno di pace. Dopo una breve esitazione Diane l’accettò,
per poi scambiarsi con l’altra un vago sorrisetto complice.
All’interno del locale
– non molto distante dalle due – Malcolm Wilford
era seduto al tavolo di legno, circondato dal suo branco, con quel suo solito
sguardo impassibile e quel ghigno di chi la sa lunga. Tra i denti stringeva una
sigaretta e nella mano sinistra un Sex On The Beach.
«Ana,
quanto mi fa impazzire», sussurrò Diane all’amica, la quale
alzò un sopracciglio e si voltò appena verso di lui, per poi
rigirarsi con un’espressione approssimativamente nauseata.
«Ma
insomma, guardalo bene!», Anastasia tirò fuori la lingua, per poi
portarsi un dito alla bocca e chinarsi appena, mimando un conato di vomito. «È stato in carcere minorile, è storto,
pieno di tatuaggi, così strafatto che non si ricorda più come si
chiama. Qua sono io quella che non capisce te».
«Ti sembrerà
strano, ma io, te e quel coglione ci assomigliamo. Abbiamo
l’anima nera, colma di peccati e di colpe. Siamo tre demoni
dell’oscurità».
Aveva pronunciato quelle
parole con un tono così serio che la rossa non poté fare a meno
di scoppiarle a ridere in faccia. «Non ti sei ancora fumata niente e
già cominci a dire cazzate?».
Anastasia disprezzava
Malcolm, e neanche troppo segretamente. Non poteva accettare che uno
così grezzo potesse avvicinarsi a lei o alla sua migliore amica, e non
riusciva proprio a comprendere come quest’ultima avesse
potuto starci insieme per quasi un anno.
Diane le ripeteva sempre che tra loro due ormai c’era solo
sesso, ma ad Anastasia non sembrava una giustificazione sufficiente. Diane non era mai stata particolarmente bella, però aveva quell’aria
da indipendente alternativa e rivoluzionaria che riusciva a far cadere chiunque
ai suoi piedi. Con Malcolm tuttavia era diverso, tra loro due scorreva una fratellanza di sangue la quale andava oltre il
senso comune ed erompeva ogni volta che i loro giovani occhi si incrociavano.
«Didì, sei una
fata!», esclamò lui avvicinandosi al duo con entrambe le mani
inserite nelle tasche in modo trasandato e il capo leggermente inclinato da un
lato. Senza che le due se ne fossero accorte, il ragazzo le aveva raggiunte
sulla porta del pub.
«E tu un perfetto
serial killer, Mal», rispose
Diane soffocando una risata.
«Che fate? Vi unite al gruppo?».
«Preferisco lasciar perdere. Tu e i tuoi amici siete pericolosi»,
i due si scambiarono un’occhiata che Anastasia non riuscì ad intendere.
«Bello ‘sto
tatuaggio», commentò lui indicando l’avambraccio di Diane.
«È nuovo?».
«I’m on top of the world», lesse lei
mostrando la scritta.
«Sì Didì, tu fai tanto la fica, ma chi te li ha fatti
conoscere gli Imagine Dragons?»,
rivendicò con orgoglio il ragazzo.
Diane accennò
un mezzo sorriso rimanendo in silenzio, attendendo meticolosamente che il
ragazzo ricominciasse a parlare. «Ma la tua amica
sta sempre zitta? Ah giusto, ha due tette che parlano al suo posto!», e
rise sguaiato, mentre Anastasia si limitò a portarsi le mani ai fianchi
e a roteare gli occhi seccata.
«Dài,
invece di dire cazzate, tornatene dai tuoi amici», la giovane lo spinse
prima che la rossa potesse rispondere alla provocazione, e questo
indietreggiò di qualche passo.
«Se mi levo di
torno, cosa ho in cambio?», domandò malizioso, passandosi la
lingua sulle labbra.
«Vattene, prima che
ti picchi», cercò di sembrare autoritaria e seria, ma non
riuscì a trattenere una risata divertita.
«Il solito
pompino?», urlò lui allontanandosi.
Diane alzò
il dito medio.
«Ti amo, Didì!», gridò il ragazzo mentre si
sedette nuovamente al medesimo tavolo dove risiedeva il suo gruppo.
Malcolm la amava
veramente. A modo suo, ma la amava. E Anastasia lo aveva intuito da tempo. Entrambi sapevano che l’altro flirtava con altre persone, ma questo per loro non era un
problema. Si incontravano poche volte, non si
scrivevano mai. Di tanto in tanto si chiudevano in casa e si sfogavano con
l’aspra tenerezza di due animali. E questo univa due anime più di
mille parole.
Anastasia tirò un
sospiro di sollievo, contenta che quel grezzo si fosse allontanato; si infilò le mani nelle tasche degli shorts di jeans,
poggiò la nuca sul muro e guardò in alto, osservando il cielo
stellato. Una lieve brezza estiva alitò su di lei, e la ragazza chiuse
gli occhi, risucchiando quell’attimo di serenità e cercando di
farlo durare il più a lungo possibile, di renderlo suo.
«Vai da lui»,
sussurrò quasi impercettibilmente. L’amica si voltò,
confusa.
«Cosa?».
«Non fare finta di non capire, vai da lui. Da
Malcolm», Diane fissò la rossa con
un’espressione mista tra lo sconvolto e il perplesso. Anastasia
sospirò amaramente, e cercò di trattenere le lacrime.
«Allora non era la solita infatuazione superficiale.
Lo sapevo, l’ho sempre saputo».
«Vedi Diane, la differenza
tra il tuo amore e il mio, è che tu hai una possibilità di essere
felice».
Il colpo decisivo
costrinse Anastasia ad aprire gli occhi e ad affrontare ancora la realtà:
le immagini di Diane, di Malcolm e del suo vecchio locale preferito si
sgretolarono rapidamente, lasciando spazio ad un bagno
buio ed angusto. La lampadina era rotta oramai da un tempo indefinito e un
timido raggio di luce lunare arrivava da una finestrella dal vetro rotto. Sul soffitto
una chiazza ingiallita dall’umidità le ricordò che anche
l’acqua lasciava un segno.
Era seduta sulla tazza del
gabinetto con le gambe divaricate. La bestia aveva appena eiaculato dentro di
lei e sentì il suo sperma invaderla. L’unico suono
all’interno del bagno erano i loro ansimi, i quali echeggiavano appena in
quella stanza così spartana e anonima.
Toby era sempre eccitato prima di dover compiere un
omicidio, e sentiva uno smisurato bisogno di scaricare la tensione. E
quello era il sistema più efficace che conoscesse.
Una volta terminato il
rito, sfilò il membro con discreta lentezza e si passò
le mani tra i capelli scuri, inspirando profondamente. Guardò la sua
amata: era così bella con quegli occhi stanchi, le guance rosse per la
fatica e le labbra semiaperte. Vederla così passiva e sottomessa a lui
lo riempì di soddisfazione; finalmente aveva smesso con tutti quei
frigni, quelle lacrime, quella sua continua opposizione e quel futile desiderio
di ribellarsi. Toby si sentiva appagato e
compiaciuto. In una vita piena di maltrattamenti e di abusi finalmente era
stato lui ad imporre il suo dominio su qualcuno.
Eppure il benessere che
provava in quell’istante lasciò presto spazio ad
un’altra sensazione, qualcosa simile ad una mancanza. Si strinse nelle
spalle e alzò il capo, osservando il proprio riflesso sullo specchio. Si
sentiva perso, confuso, non capiva: aveva tutto ciò che desiderava. Che
cosa mancava nella sua vita per permettergli di raggiungere l’apice della
felicità? Da cosa era angosciato? A cosa ambiva?
Lanciò
un’occhiata veloce alla ragazza, ancora immobile sulla tazza del
gabinetto. Forse non era riuscito a scaricare al completo la tensione. Forse
quella sera l’aveva trattata con troppa leggerezza.
Cercò di
convincersi delle ultime ipotesi. Ebbe un tic, ed il
collo scricchiolò. «Avanti, pulisci dove
hai sporcato», alzò il tono di voce, come per farsi rispettare.
Anastasia sembrò
comprendere le parole di lui e si alzò dalla
tazza, mentre con uno sguardo vuoto, assente e privo di luce fissava un
punto indefinito della parete. Si inginocchio e
aprì la bocca come un automa. Un brivido di piacere percosse di nuovo il
corpo di Toby, il quale alzò la testa. Le mani
viaggiavano sulla parete alla ricerca di un appiglio. Rantolò.
«Mio Dio, sei così brava. Si vede che sei
un’esperta e che non sono il primo a cui lo fai.
Però adesso sei mia, tutta mia»,
sibilò a denti stretti, e, notando la mancanza di reazione da parte di
Anastasia, non poté fare a meno di ridere sguaiatamente. Il successo, la
vittoria, il potere. Niente valeva come possedere
Toby osservò nuovamente il suo riflesso e sullo
specchio lurido comparve un ghigno famelico. Adesso era davvero pronto per uccidere.
Note dell’autrice: Già, eccomi qua con il secondo capitolo di
questa Fan Fiction. So che ci
ho messo tanto, troppo tempo per aggiornare, ma a livello scolastico è
stato un periodo difficile perché ho dovuto recuperare in diverse
materie. Sì, se ve lo state chiedendo, sono una di quelle studentesse
che durante il primo quadrimestre non fa un cavolo, e poi all’inizio del
secondo fa una corsa olimpionica per recuperare.
La pigrizia prima di
tutto, ricordatevi ragazzi! (?)
Ovviamente sto scherzando
e vi consiglio di non seguire mai il mio esempio, soprattutto se frequentate un
liceo come la sottoscritta. çç
Bando alle ciance! Allora,
il primo capitolo è stato diviso in due parti: la prima, la quale
è un ricordo di Anastasia, e la seconda, che si svolge nel presente.
Ho voluto provare a
vederla un po’ dal punto di vista di Toby nella
seconda parte. Ammetto che è stato complesso entrare nella mente di uno
psicopatico, ma ho fatto del mio meglio e spero che voi abbiate gradito. Tra l'altro ci tenevo a ringraziare Autieri ed il suo splendido romanzo, il quale mi ha molto aiutata nel trovare ispirazione per questo capitolo.
Da come potete vedere,
Anastasia è sempre meno lucida…è un bene o un male?
“Old Denver’s Tales” non
è un pub o comunque un luogo realmente esistente.
C’est tout, je pense.
À la prochain chapitre~
Au revoir~
Coffee Pie.
E…sì, mi
sento molto francese in questo momento.