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Autore: Aries K    26/02/2015    1 recensioni
Quando la giovane Emily Collins mette piede nel collegio più cupo e spaventoso di Londra non sa che la sua vita sta per cadere in un mondo oscuro fatto di sangue e creature che credeva vivere solo nei suoi incubi. Quando pensa che la sua esistenza non possa cadere più in basso di così incontra William Delacour, figlio della temibile preside Jennifer Delacour. William -così enigmatico e onnipresente in quel convitto esclusivamente femminile- nasconde un segreto che sembra coinvolgere anche la giovane. I due non potranno che avvicinarvi anche se, non molto lontano da loro, qualcuno cova una centenaria vendetta che sembra non volersi compiere...
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Diciottesimo Capitolo








Cercai di riprendermi nel minor tempo possibile e, una volta affondata nelle acque calde della vasca, sentii i miei nervi sciogliersi e lasciare posto ad uno stato d’intorpidimento dei sensi.
Ancora stordita e confusa mi cambiai indossando un maglione a collo alto azzurro e un paio di jeans neri; fatto ciò nascosi lo zaino nel cestino dei panni sporchi accanto al lavandino e uscii per dirigermi in soggiorno, pregando silenziosamente che William fosse rientrato.
Non appena feci capolino dalla rampa delle scale, però, constatai che le uniche persone nel soggiorno erano ancora Herny e Genevieve.
Il primo era comodamente affondato nella poltrona accanto al divano e al tavolino di cristallo, appoggiato con il gomito sul bracciolo, nella mano un bicchiere a coppa su cui del sangue roteava fino a fermarsi ai bordi. Mi portai istantaneamente una mano a coprirmi la bocca e sentii nella mia gola gorgogliare un moto di protesta. Dunque mi concentrai su Genevieve di cui, da quella distanza, potevo vederne solo la schiena e i lunghi capelli neri.
“Vorrei capire qual è il problema di tuo fratello nei miei confronti.” La voce di lui tradì un sorriso.
La spalla di lei abbozzò un movimento, come per respingere tale affermazione.
“Non ha nessun problema è solo geloso, come qualsiasi altro fratello sulla faccia della terra.”
“Gelosia. Che sentimento stupido.”
Henry saggiò il liquido portandosi lentamente la coppa alle labbra, socchiuse gli occhi –chiaramente estasiato- tirando indietro il capo.
“Stupido, tu dici?”
“Stupido, mia Genevieve”, schioccò la lingua lui,-“nessuna persona ci appartiene veramente –che sia una sorella come un’amante- perché si dovrebbe essere corrosi da un tale sentimento maligno se quella persona, alla fine dei conti, non è nemmeno veramente nostra? Pensaci, mon petit.”
Di contro, Genevieve gli scoccò una risposta evasiva.
“Probabilmente hai ragione.”
Io, china su uno degli scalini, ero divisa in due: una parte di me voleva scendere in soggiorno e affrontare la loro compagnia, l’altra voleva ritirarsi in una camera e distruggerla.
Man mano che i minuti scorrevano il senso che mi era sfuggito nei mesi precedenti prendeva forma nella mia coscienza come la chiara avversione –se non addirittura odio- che la Delacour mostrava di avere nei miei confronti, quell’astio che le si leggeva nel fondo degli occhi; sentimento che mutava nell’infliggermi una pena, allora lì i suoi occhi quasi brillavano di gloria. E poi quel giorno al bar con mia nonna e la Williams.
Entrambe erano così strane…mia nonna stava cercando di mettermi in guardia, la Williams glielo impediva, ed erano apparsi quei tre…
Ma certo!, pensai sgomenta.
Quei tre vampiri che mi davano la caccia erano mandati per conto della Delacour. Volevano il pugnale, ecco cosa. E Jennifer non essendo riuscita a far parlare mia nonna, non trovandolo nei miei affetti personali (doveva aver per forza frugato nelle mie cose) aveva incaricato quei tre, magari convinta del fatto che lo costudissi come una seconda pelle. Io e mia nonna eravamo troppo preziose, ecco perché ci aveva torturato e non ucciso. Eppure c’erano ancora tante domande a cui non riuscivo a trovare una risposta…
“Emily?”
La voce di Genevieve mi costrinse a ricadere nella realtà. I volti dei protagonisti delle mie angosce sfumarono e, davanti ai miei occhi, riapparve la ringhiera di legno, gli scalini, la parete spoglia che scendeva ed infine lei, ai piedi della rampa.
Mi guardava con la testa inclinata e un’espressione vagamente divertita, ma non sfuggì alla mia osservazione quella lieve rughetta al centro della fronte, segno che si stava domandando se avessi tutte le rotelle apposto.
No, probabilmente non le avevo più.
“Sì, Genevieve”, mi alzai di scatto,-“William non è tornato?”
“No, non ancora”, sorrise ora rilassando la fronte,-“ma ti prego, unisciti a noi. William mi ha parlato così tanto di te. Oh, è una frase che si dice spesso ma, fidati, mio fratello non è tipo da sbilanciarsi e se lo ha fatto è perché”, lasciò cadere di colpo la frase, assorta nello studiarmi mentre mi ero avvicinata a lei,-“…perché deve amarti davvero tanto. Gli stai donando una seconda vita.”
Non ebbi nemmeno modo di ribattere che mi aveva portato una mano sulla spalla e condotto al centro della sala, dove il suo rosso ragazzo aveva appena finito di cibarsi. Un residuo di sangue gli colorava l’angolo della bocca. Indirizzai lo sguardo alla vetrata e, quindi, alla vegetazione.
Per una manciata di minuti rimanemmo in perfetto silenzio, poi Henry prese in mano la situazione spazzando via la cortina d’imbarazzo con un racconto piuttosto dettagliato della loro vita a Parigi. Scoprii, dunque, che conducevano una vita assai diversa da quella di William: prima di tutto Henry non poteva uscire alla luce del sole; sostare per un tempo prolungato sotto al più timido raggio solare avrebbe potuto procurargli una paralisi e in seguito la morte. Genevieve, che poteva goderne, aveva deciso di rinunciarvi per affiancarsi all’esistenza di Henry, condividendo con lui abitudini e routine. Forse era una mia impressione ma nel dirmi questo Genevieve pareva rabbuiarsi, facendo trapelare una sorta di rimpianto.
Così chiesi:
“E se un giorno volessi uscire con la luce del sole?”
“Mi ci vorrebbe un lungo ed estenuate allenamento per riprendere quella capacità”, sospirò sorridendomi.
“Qui a Londra sarebbe l’ideale per riadattarsi”, partecipò Henry,-“il sole è sempre nascosto dalle nuvole, anche di giorno vi è buio e sarebbe più facile e meno nocivo, per te, provarci.”
“Ma le giornate non sono sempre così”, ribattei, piccata.
Henry si volse a guardarmi, assottigliando lo sguardo, intelligente e acuto.
Prima che lui potesse rispondermi o farmi notare che avevo usato un tono di voce sgarbato, lo anticipai con una domanda:
“Esistono vampiri della tua specie, Henry, che possono uscire anche di giorno?”
“Oh, è pressoché impossibile.”
Mi voltai a guardare Genevieve che sembrava stesse riflettendo sulla mia domanda. Quando alzò gli occhi dal tavolo ed incontrò i miei, nei suoi vidi il riflesso dei miei stessi dubbi.
“E se te lo stai domandato, noi siamo arrivati questa notte, qui.”
-“Ma poniamo se…se per assurdo mi è sembrato di incontrarli. Come ve lo spieghereste?” La sorella di William scosse impercettibilmente il capo, poi si alzò e tornò di fronte alla vetrata. Henry cambiò posizione sulla poltrona e, grattandosi un sopracciglio con l’indice, mi rispose:
“Non me lo spiegherei. E’ impossibile. Non ragionarci troppo.”
Eppure quel suo sorrisino non mi convinse.
Ammesso e concesso che quei tre vampiri facessero parte della stessa razza di William –da quello che ne sapevo poteva essere plausibile- ma Rebecca Williams? Era umana, prima di incontrare la Delacour. E, soprattutto, quest’ultima.
Mi alzai in piedi facendo strusciare rumorosamente la sedia indietro.
“Tu madre, Genevieve!”, esclamai, costringendola a voltarsi,-“lei era umana. Non è nata come te e William, giusto? Come è possibile che possa uscire anche di giorno?”
Con la coda dell’occhio vidi Henry alzarsi lentamente dalla poltrona, mi diede l’idea di esser riuscita a formulare la domanda corretta.
“Preferirei non parlare di lei.”
Genevieve unì le mani in grembo, lo sguardo ostinato e remoto non ammetteva repliche. E in quell’istante mi parve di vederla, sua madre, algida e rigida contro la luce filtrata del sole; i capelli neri come il carbone, la pelle liscia, le labbra strette e la postura aggraziata. Chissà se ogni tanto anche a lei capitava di rivederla in sé.
“Per me è importante saperlo.”
“Perché lo è?”, domandò Henry e per poco non sobbalzai nel vederlo a tre centimetri dalla mia spalla.
“Perché lei vuole...”
E qualcuno citofonò alla porta.
I due vampiri si scambiarono uno sguardo, poi Genevieve percorse la lunghezza del corridoio andando ad aprire.
“Forse è meglio non parlarne, non so quanto ti conviene.”
Alzai lo sguardo verso Henry, ora fattosi serio e pericoloso come lo avevo visto una mezz’ora fa. Nella sua voce non vi era cattiveria ma sarcasmo.
Stupidamente ebbi l’impulso di toccargli il volto per cancellargli quell’aria ostile, pregarlo, addirittura, di darmi la risposta che Genevieve mi aveva negato.
“Ma io devo sapere. Io e William dobbiamo…”
“Appunto, cher. William. Perché non lo hai domandato a lui prima?”
Perché prima non era un mio problema, non ci avevo pensato e vorrei averlo fatto.
Fu proprio William ad entrare nella stanza, carico di buste per la spesa, seguito da Genevieve.
Mi sottrassi da Henry e lo seguii attraverso una porta a vento poco distante dal camino; così entrammo in una cucina minimalista, dai colori freddi –bianco e grigio- con un’isola al suo centro dove Will depositò il tutto.
“Hai preso tanta roba. Forse troppa”, mormorai per rompere il silenzio, -“non potrò nascondermi per sempre, no?”
Non appena William si voltò a guardarmi sentii le ginocchia cedere, il peso di tutto ciò che stavo vivendo aveva deciso di schiacciarmi proprio in quell’istante perché… perché stavo guardando negli occhi il figlio della donna che aveva assassinato i miei genitori, quella donna di cui avrei desiderato versare il sangue poiché io ero destinata a farlo. Quei pensieri mi fecero affannare il respiro.
Io ero una Cacciatrice.
Lui un vampiro.
Non potevano essere più opposti di così.
Quell’amore che ci legava – quel bellissimo sentimento che ci faceva sentire al sicuro l’uno delle braccia dell’altro- sarebbe bastato per salvarci da chi eravamo veramente?
Non feci nemmeno in tempo a regalarmi una risposta o un briciolo d’illusione che, indietreggiando lontana da lui, persi i sensi.






Molti sostengono che il destino venga plasmato dalle nostre mani, dalle nostre scelte, rinunce, mosse. Altri che esso sia una forza imprescindibile da noi, che non può essere governata da nessun’altro se non da se stessa. Mi ero soffermata poche volte a ragionare su quanto fosse meschino, crudele e avverso il mio, non capacitandomi della tanta amarezza che aveva insinuato nella mia vita –come se dovessi scontare una terribile condanna di qualche mia esistenza precedente-; invece, il mio fato non era niente di meno che un burattino nelle mani di Jennifer Delacour.
Ero stata distrutta prima e umiliata poi, caduta ed impigliata negli stessi fili che stava orchestrando. E, quando verso le prime luci dell’alba ripresi finalmente conoscenza –proprio come se, durante il sonno, il mio cervello avesse comunque lavorato a dispetto del blackout- ebbi la straordinaria consapevolezza che era giunto il momento di tagliare i fili che mi tenevano legata a lei.
Scostai le coperte dal mio corpo e adagiai lentamente le gambe al di fuori del letto per evitare capogiri post-svenimento; la stanza era piccola, con un armadio di legno a governare gran parte dello spazio e una scrivania spoglia, ad eccezione di una piccola lampada da studio.
Mi alzai in punta di piedi e nella stessa modalità raggiunsi il bagno dove il giorno prima avevo nascosto lo zaino nel cestino dei panni sporchi. Mi accorsi di aver trattenuto il fiato solo dopo averlo recuperato ed abbracciato, con le spalle contro la porta della mia stanza, già pensando al prossimo nascondiglio. Che fu sotto il letto. Dunque uscii definitivamente dalla camera ed iniziai a scendere le scale, attizzando le orecchie per scorgere un rumore, uno scricchiolio, un qualcosa che mi facesse dissolvere la convinzione di essere sola in quella casa sperduta. Poggiato piede sull’ultimo pianerottolo faticai ad intravedere il resto delle scale, le quali sembrava conducessero nel nulla per quanto buio vi era. Aggrappata con entrambe le mani al corrimano proseguii, chiamando William a gran voce. La vetrata che avevo tanto osservato poche ore prima era sigillata dall’esterno da quella che mi sembrò, a prima vista, una serranda elettrica. Il piccolo oblò della cucina non rischiarava nessuna luce, il camino era spento e il corridoio che chissà dove conduceva era, anch’esso, avvolto nelle tenebre. Solo grazie al leggero chiarore proveniente dal pianerottolo alle mie spalle mi accorsi di un movimento alla mia destra.
“Will!”, sussultai, i nervi tesi,-“che sta succedendo? Perché è tutto così buio?”
La risatina che mi rispose –benché simile alla sua- non apparteneva a William; tanto meno la chioma rossa fuoco che intravidi nell’ombra.
“Bentornata tra noi”, disse Henry,-“spero non ti dispiaccia tutta questa oscurità, perché io e Genevieve non siamo abituati nemmeno ad un barlume. C’infastidisce.”
“Oh, non c’è problema”, balbettai,-“credo. Mmmh, dov’è William?”
Henry uscì dall’ombra, il passo strascicato e due occhi di un colore talmente scarlatto che, non solo spiccarono nonostante l’impaccio della poca illuminazione ma potevano concorrere con il colore dei suoi capelli.
Era assetato.
“Emily?”
Piroettai su me stessa nello stesso istante in cui sentii il rumore secco della porta di casa chiudersi. Ed ecco William, infagottato nel giubbotto e con un paio di pantaloni neri.
“Ti sei già svegliata. E tu.” Puntò uno sguardo velenoso verso Henry, il quale aveva un sorriso sardonico ad increspargli i lati delle labbra.
“Ed io? Ed io, cosa?”
William mi scostò delicatamente e si ritrovò a due centimetri dal viso del rosso.
“Ti ho detto che fino a questa sera non devi avvicinarti a lei. Mi hai dato la tua parola che non ti saresti avvicinato ad Emily se non dopo aver appagato il tuo bisogno.”
“Lei è entrata in soggiorno, stava gridando il tuo nome –probabilmente allarmata da questo scenario funereo- e io mi son trovato nei pressi di questo lato della casa e ho ritenuto opportuno informarla. Non le ho torto un capello, non è così Emily?”
“Sì, non è successo niente”, chiarii e presi la mano di William.
Lui rimase in silenzio per qualche istante e poi mi lasciai condurre in cucina, abbandonando un sogghignante Henry. Qualcosa mi suggeriva che indispettire il fratello della propria fidanzata doveva divertirlo molto.
In cucina mi accoccolai su uno sgabello accanto all’isola mentre William poggiava il giubbotto su una sedia e metteva a scaldare del latte per me.
“Come ti senti? Meglio?”, mi domandò, dandomi le spalle, e gli fui segretamente grata poiché, grazie a quel gesto, egli non potette scorgere la mia espressione che –lo immaginavo- avrebbe svelato il mio tormento. Cosa avrei dovuto fare? Rivelare chi ero, così, su due piedi? Fargli conoscere una parte di me che dovevo io stessa conoscere prima? La mia spiegazione sarebbe stata la chiave di tutto, ma lui mi avrebbe odiata. O stavo sottovalutando il suo sentimento per me?
“Meglio, sì”, uggiolai, stringendo i pugni.
Scolò il latte dalla piccola brocca e me lo porse in un bicchiere di vetro con i Puffi disegnati sopra. Talmente stremata che risi come una bambina, alla vista di ciò.
“Non prendermi in giro, d’accordo?”, rise anche lui, poggiandosi contro il davanzale accanto al forno.
“Vorrei poterti chiedere cosa ci fa un bicchiere dei Puffi in casa di un semi-vampiro ma non sono sicura di voler conoscere la risposta.”
“Ecco”, me ne diede atto, scuotendo la testa,-“non vuoi conoscere davvero questa storia.”
“Quale storia?”
La voce di Genevieve che trillò alle mie spalle mi fece sussultare e, se solo avesse urlato un po’ di più, il latte mi sarebbe scivolato a terra dallo spavento. Henry era dietro di lei, ancora sorridente.
“Niente che ti riguarda, sorellina.”
“Forse è la storia di come tuo fratello, cara Genevieve, si sia ridotto ad accontentarsi di un po’ di cibo umano anziché del sangue.”
Ed ecco il buonumore di William infrangersi al suolo.
“So dominare la mia sete. Il sangue animale mi basta e mi avanza.”
Questo non era del tutto vero ma non mi azzardai a riportare alla luce la notte in cui l’avevo seguito al di fuori del collegio. Non davanti a loro due.
“Credo che sia il tuo orgoglio a parlare, William, perché dopo che assaggi del sangue umano è difficile bramare quello animale”, fece una breve pausa che non fu interrotta nemmeno da un lamento,-“se qui ci fossero stati i cacciatori a procurarvi del sangue, beh, non penso proprio che l’avresti rifiutato.”
Trattenni il fiato e la tazza a mezz’aria.
Immediatamente gli occhi di William trovarono i miei; i suoi sembravano colpevoli, i miei… non volevo saperlo. Forse lui vi lesse confusione, smarrimento o addirittura vi trovò un pizzo di paura perché disse ad Henry di smetterla, di non parlare di certi argomenti davanti a me. Qualsiasi cosa scorse nei miei occhi, non aveva niente a che fare con il lieve senso di colpa e tradimento che provavo. Mai nella mia vita mi ero sentita tirata tanto in causa.
Io sono una cacciatrice, dissi a me stessa, fissando uno a uno i loro visi, le gambe perse in un tic nervoso.
“Perché Emily non sa che per tenerci buoni, come cani rabbiosi, ci donano del misero sangue in misere bustine di plastica? Come se questo possa davvero accontentar…”
“Fai silenzio!”, tuonò William,-“qui a Londra non funziona così.”
“Oh, sono a conoscenza delle condizioni di questa cittadina. Sai, che qui non ci sono cacciatori? Sembrano… scomparsi nel nulla.”
Ci misi qualche secondo di troppo a capire che Henry si stava rivolgendo a me. Il suo sguardo attento e acuto sembrava stesse attendendo una mia reazione, ma fu Genevieve ad anticiparmi.
“Basta così, d’accordo? Non sono di certo venuta a trovare mio fratello per vedervi litigare o parlare di Jennifer!”
“Infatti”, convenne William, livido, -“e se ora potete lasciare me ed Emily da soli, ve ne sarei grato.”
“Non dimenticarti che verso l’imbrunire andremo a caccia, fratello.”
Genevieve gli diede una carezza e poi seguì il fidanzato fuori dalla cucina.
William imprecò traendo, tra un borbottio e l’altro, profondi respiri.
“E’ veramente irritante.”
“Perché non mi hai mai parlato di tutto questo?”
“Non volevo ti spaventassi più di quanto non lo fossi quella famosa notte.”
“Non sono spaventata.”
Il mento di William indicò la mia mano stretta intorno al bicchiere.
“Allora perché le tue nocche sono così bianche, e il latte sta per eruttare fuori dalla circonferenza?”
Se solo sapessi…
Adagiai il bicchiere sulla superficie simulando una noncuranza in cui non mi vedevo.
“Quella notte, quando mi hai raccontato la storia della tua famiglia, non mi hai parlato molto dei cacciatori e, sapere ora queste cose da Henry...”
“Emily”, sospirò parlando con tono conciliante,-“non credi che abbiamo già i nostri bei grattacapi a cui pensare? Sei una specie di fuggitiva per colpa di chissà quale fantasia malata di mia madre e riflettere su cose che non ti riguardano –e non fraintendere le mie parole- non mi sembra un beneficio alla nostra situazione, no? Pensiamo ad un problema per volta.”
Mi limitai a guardarlo poi, non riuscendo a sostenere oltre il suo sguardo e le sue parole rimaste nell’aria, scesi dalla postazione e mi congedai nella stanza in cui mi ero risvegliata.
Lessi ancora una volta la lettera di mia nonna, carezzando i bordi mangiucchiati e sporchi; il pugnale sembrava diventare sempre più pesante e letale ad ogni sguardo.
Stavo giusto per rifoderarlo quando nei meandri della borsa percepii l’inequivocabile vibrare del cellulare.
Il nome Nicole lampeggiò sul display e, una volta premuto il tasto, fu la sua voce a farmi sentire meno sola.
Anche se per i primi cinque secondi mi ricoprì di imprecazioni e insulti per non aver risposto alle chiamate precedenti.
“Non potevo risponderti, Nic. Altrimenti l’avrei fatto.”
“Va bene, va bene. Qui è un casino, Em”, fece una breve pausa,-“la Delacour ci sta organizzando in gruppi e mandando in case famiglie. Mia madre è impazzita, letteralmente, e mi sta venendo a prendere.
Trascorrerò qualche giorno qui a Londra prima di tornare nella città di George… quello che voglio dirti è che il collegio sta per essere sgomberato e che mi sono appostata nel corridoio del quarto piano per tutta la sera, ieri.”
Sentii una scossa percorrermi il collo.
“E…”, la invitai a continuare, fremente.
“Due figure incappucciate sono entrate nell’ufficio della preside. Sono stati dentro poco –ma a me sembrava un’eternità, che te lo dico a fare- quando sono uscite ho visto che erano due ragazzi, senza più mantello e cappuccio. Uno di loro, un moro con il codino, si stava tirando giù le maniche della camicia e indovina che cosa aveva sulle braccia? Un simbolo. Fatto con il sangue. Capito? Emily dì qualcosa!”
“Sì, sì ci sono!”, risposi dopo un po’, immaginando chi poteva essere quel tizio: Ben, uno dei tre –ora due?- inseguitori.
“Quelli che hai visto sono i vampiri che mi hanno aggredito, Nic. Sicura non fossero tre?”
“Assolutamente. Erano solo in due. Avevano un’espressione tirata, gli occhi bassi.”
“Sapresti descrivermi l’altro?”
“Grosso. Solo questo. Sembrava un gorilla, Emily. Ricordo di aver pensato che con le manone che si ritrova potrebbe stendere cinque cavalli di fila”, fece un verso angosciato, -“e un elefante.”
Le mie labbra non potettero non distendersi in un sorriso.
“Quanto vorrei fossi qui.”
“Oh, io non ti vorrei qui!”, sbottò Nicole, ridendo sommessamente,-“non sarebbe sicuro. Come se non bastasse mi tocca fare i conti con Jamie. Le ho raccontato tutto, come mi hai detto di fare.”
“Non voglio nemmeno sapere che reazione ha avuto.”
Mi alzai da terra trascinandomi di fronte alla finestra; appoggiando la fronte contro il vetro non potetti non sentirmi in colpa anche per Jamie, nuova recluta in questa pazza storia.
Dall’altro capo della cornetta sentii il fruscio dell’acqua.
-“Dove sei?”
“In bagno, sto cercando di far scorrere l’acqua calda”, sospirò, -“la Delacour per giustificare la tua assenza ha detto che sei in ospedale. Giusto per informarti.”
Grugnii un qualcosa di incomprensibile.
“Le piacerebbe”, bofonchiai, poi, nervosa.
“Ascoltami, Emily…”
Ma non seppi mai cosa avrebbe voluto dirmi Nicole perché udii lo schiocco secco della porta e il telefono mi sfuggì di mano, rovinando a terra e slittando sotto il letto.
William mi trovò innaturalmente appoggiata al davanzale della finestra; nonostante la posa poco probabile non mi domandò cosa stessi facendo.
Teneva poggiata la mano sulla maniglia e con buone probabilità la lingua lunga di Henry doveva averlo innervosito più di quanto non abbia lasciato intendere, perché un nervo delle sua mandibola scattava avanti e indietro. Mi chiese cosa desiderassi per pranzo e gli risposi che ci avrei pensato io a me; un panino andava più che bene per il mio stomaco in subbuglio. Poi rimase titubante sulla soglia, incerto se entrare o meno.
Sperai non lo facesse. Ed infatti se ne andò senza raggiungermi, informandomi solo che verso l’imbrunire avrebbe portato Henry e Genevieve a caccia, nel limitare del bosco.
Mi chinai per recuperare la conversazione con Nicole, ma la linea era caduta.



Quando William, Genevieve ed Henry uscirono per dedicarsi alla caccia mi ritrovai a vagare come un’anima in pena in quella casa esageratamente silenziosa, incredibilmente inquietante nel crepuscolo. Prima di uscire William mi aveva preso il volto tra le mani promettendomi che sarebbero rincasati presto, poi stava per aggiungere dell’altro –probabilmente una frase di conforto- quando Henry fece un colpo di tosse nemmeno troppo discreto, facendoci intendere, da come le sue dita allentavano il colletto della camicia, che il suo livello di sopportazione andava ad esaurirsi.
William sospirò e mi depositò un piccolo bacio sulle labbra, un bacio che non sentivo di meritare.
Mi sedetti a gambe incrociate sul divano, osservando la mia unica compagnia: il fuoco crepitante nel camino.
Ovunque posassi gli occhi vedevo la sorte che mi sarebbe toccata molto presto, una solitudine immensa e triste, con oggetti che non riuscivo a mettere a fuoco completamente per via della forza dei miei pensieri tormentati. William non avrebbe mai fatto più parte del mio futuro; sempre che, nel migliore dei casi, io ne avessi ancora uno.
Indugiai con lo sguardo sulla mia ombra e fu a quel punto che la vidi.
Ora, non so da quanto fosse rimasta lì –come una macchia sgradita- ma un’altra ombra si era materializzata non troppo lontano dalla mia e, subito, presi coscienza della presenza gravosa di qualcuno alle mie spalle. Mi alzai voltandomi di scatto.
E incontrai un volto furente.
“Ci rivediamo, Emily Collins. Per l’ultima volta.”
   
 
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