Capitolo
Quindicesimo
Cambiamento
Se
ne rende conto un istante prima del risveglio.
Quando la sua coscienza è già vigile, ma ancora le palpebre calate oscurano il
mondo.
Nell’attimo
in cui il sogno termina e ha inizio la veglia, Niphredil sente un presentimento
scivolarle fra i pensieri, appena percepibile, come un velo di malinconia.
Un’ombra
si scinde dalle tenebre. Una sagoma umana, ma senza lineamenti, senza dettagli,
un essere fatto completamente di nebbia. I suoi stessi contorni sono vaghi,
tremolanti, a parte le sue mani. Sono nitide e pallide. Le dita adunche
stringono una piccola gemma grezza, dai delicati riflessi azzurri.
“Lui lo sa” mormora l’ombra
-
Chi sei? – chiede Niphredil, confusa.
“Se la storia non progredisce, non tornerò
mai alla mia dimora” l’essere inclina il capo, con un suono simile ad un
sospiro “pensavo che il chiasso dei nani
fosse inconciliabile col mio sonno, ma è stata l’avidità del drago a sottrarmi
definitivamente il mio giaciglio” solleva la gemma, tenendola in equilibrio
sulle punte delle dita. In un battito di ciglia, la pietra comincia a
sgretolarsi, fino a divenire grigia polvere, in balia del vento.
-
Chi sei? – ripete Niphredil, in un sussurro – cosa vuoi, da me? –
“Non permettergli di mandarti via.”
L’essere
scuote la testa, poi sul suo volto compare una bocca, straordinariamente
concreta, rispetto al resto dell’ombra. Quando parla, la sua voce è ruvida e
grave, non più un sussurro appena percepibile
“Le tue mani sono lorde di sangue!”
Di
nuovo, le labbra si trasformano. Diventano morbide, sottili e delicatamente
rosee.
“Non avremmo salvato la tua gente ed avremmo
condannato la nostra. Condivido la tua rabbia e il tuo dolore, ma non rimpiango
la mia decisione” pronunciano, con la voce di Niphredil.
L’elfa
impallidisce, mentre una morsa le serra la gola.
-
Chi sei? – grida, cercando di afferrare l’ombra, ma trovandosi con in mano solo
un pugno di nebbia
“Un avvertimento può
dirsi efficace, se chi l’ha ricevuto non può rammentarlo?” domanda l’essere, di
nuovo con la sua voce esile, vagamente nasale.
Un’irresistibile
debolezza s’impossessa del corpo di Niphredil. L’elfa sente il sangue scorrere
a fatica nelle proprie vene, mentre ogni arto diventa pesante come piombo. Cade
in ginocchio, senza la forza di ribattere. Anche tenere gli occhi aperti è uno
sforzo immane, una lotta persa in partenza.
L’ombra
si china, fino a prenderle il mento fra le dita.
La
sua mano non ha una vera consistenza, è come una gelida corrente d’aria.
“Lascialo gridare, ma non permettergli di
allontanarti. Ha ancora bisogno di te.”
Il
sussurro dell’essere riecheggia per qualche istante poi, con un gemito
strozzato, Niphredil si drizza a sedere sul letto, madida di sudore freddo.
Thorin
socchiude gli occhi, accartocciando la pergamena fra le mani.
Improvvisamente,
non è più nella dimora di Angus, sulle brulle alture del Dunland, sotto un
cielo limpido e pieno di stelle. Improvvisamente, è di nuovo davanti ad Erebor.
Il frastuono era assordante, le urla ed il
clangore delle armi si levavano in alto, squarciando la coltre di fumo.
La strada, un tempo lastricata di pietre candide,
era ingombra di macerie e di cadaveri. Nani ed orchi, alcuni intrappolati in
una lotta eterna, altri supini, con lo sguardo vuoto rivolto al cielo grigio.
Thorin si muoveva, con solo un barlume di
lucidità a separarlo dal baratro della follia, riuscendo a malapena a rivolgere
dei comandi ai suoi uomini. La città era perduta. Il numero dei nemici era
soverchiante. Continuare a lottare, a camminare, persino a respirare era difficile, un’impresa forse priva di ragione.
- Muoviti! Ci stiamo ritirando! – aveva
ringhiato, voltandosi verso un giovane nano, accucciato a terra, forse per
riprendere fiato. Quello l’aveva ignorato.
Masticando una bestemmia, Thorin l’aveva
afferrato per la spalla e gli aveva dato uno strattone.
Il nano si era accasciato a terra, a peso morto,
rivelando il profondo squarcio con cui la lama di un orco gli aveva aperto la
gola. Thorin era indietreggiato, sentendo l’ira e l’orrore contendersi quel che
rimaneva della sua mente. Aveva cercato qualcosa a cui aggrapparsi. Un
proposito, una speranza, finanche un bel ricordo, ma i suoi occhi vedevano solo
sangue e desolazione. Avevano perduto tutto. La loro patria, i loro compagni,
la fierezza di un tempo. Aveva aumentato la stretta sull’impugnatura della
spada.
Poi qualcosa, un barlume, un riflesso, aveva
attirato la sua attenzione verso l’alto.
Su un’altura, poco distante, c’erano due elfi.
Dietro di loro, una marea indistinta di volti, armature, lance svettanti a
ghermire il ventre plumbeo del cielo.
Per qualche istante, il sollievo l’aveva
sopraffatto. Boccheggiando, si era voltato verso di loro, sbracciandosi,
gridando aiuto, pregando che Thranduil, signore del Reame Boscoso, si unisse
alla battaglia.
Aveva davvero creduto che, come in una favola,
avrebbero potuto sopraffare gli orchi, uccidere il drago e fare ritorno ad Erebor.
Irrazionalmente, una parte del suo cuore pretendeva quel finale, la soluzione
in cui tutte le loro angosce sarebbero scomparse, come la neve che si scioglie
al caldo tocco del sole.
Poi Thranduil aveva fatto un cenno. L’altro elfo
aveva chinato il capo, annuendo.
Ed il mondo era crollato addosso a Thorin. Era
stato un dolore fisico, lacerante.
Per qualche istante, Thorin non era stato in
grado di fare niente. Era rimasto immobile, bloccato, soffocato dall’agonia,
poi ogni frammento della sua anima aveva gridato ed il dolore era divenuto
rabbia. Purissimo, accecante odio. Il
principe aveva stretto più forte l’impugnatura della spada ed era tornato a
gettarsi nel folto della battaglia, seminando morte.
Thorin
lascia cadere a terra la pergamena stropicciata.
Si
fissa le dita, confuso, sentendole prive di forza.
Perché
ora ricorda. Ha accettato quello che,
dalla battaglia di Azanulbizar, si è rifiutato di vedere.
L’elfo
accanto a Thranduil, con l’armatura splendente come argento e le lunghe chiome
bionde. L’elfo che si era voltato, per guidare la ritirata dell’esercito.
L’elfo che, non meno di Thranduil, ha condannato a morire le genti di Erebor. Quell’elfo è Niphredil.
Niphredil
spalanca gli occhi, poi esala un lungo sospiro e rimane a fissare Thorin, con
una tranquillità rassegnata. Non ricorda cos’ha sognato, ma la sensazione che
tutto sta per cambiare le è rimasta sulla pelle, come un velo di gelida brina
di cui non riesce a liberarsi.
Si
alza in piedi, poi accenna col mento alla pergamena, accartocciata, a terra,
davanti agli stivali di Thorin.
-
Non sono stata sincera, Thorin Scudo di Quercia – mormora, avvicinandosi al
nano – te ne chiedo perdono. –
-
Perdono?!- ripete il principe,
afferrandola per il polso e dandole uno strattone – tu chiedi perdono per le
menzogne, ma non per ciò che hai fatto alla mia gente! – abbassa la voce, ed il
suo tono si fa gelido e tagliente come il vento d’inverno – la tua stessa
presenza qui è un insulto alla memoria di coloro che sono morti ad Erebor! Le
tue mani sono lorde di sangue! –
Niphredil
distoglie lo sguardo dagli occhi di Thorin mentre, per un attimo, un’eco ripete
l’ultima frase del nano, un’eco delicata e sibillina, che svanisce in un
battito di ciglia.
-
Mi dispiace – mormora, mentre le dita del nano si stringono più forte al suo
polso, come a volerle scavare dei solchi nella carne. E’ una stretta disperata,
rabbiosa, addolorata, una stretta terribile.
-
Me l’avresti mai detto? – le chiede Thorin, in un roco sussurro – Avresti avuto
il coraggio di affrontarmi a viso aperto oppure saresti rimasta per sempre
celata dietro alle tue menzogne, contando sul fatto che nessuno si sarebbe mai
ricordato di te, dello sguardo superbo che lanciavi al nostro popolo mentre
veniva massacrato? Parla, Niphredil di Eryn Galen! Me l’avresti mai detto? –
Quando
termina di parlare, Thorin sta gridando. Molla di scatto la presa sul braccio
di Niphredil, come se il semplice contatto con la pelle di lei l’avesse
ustionato.
L’elfa
solleva il capo, mentre una lacrima le riga la guancia.
-
Un giorno te l’avrei detto – esala – ma, per il momento, né tu né io eravamo
pronti. Questa conversazione distruggerà tutto ciò che abbiamo costruito,
Thorin, tutto ciò che abbiamo fatto sarà disperso nel vento come polvere. Non
permettere che questo avvenga, ti prego. –
Il
nano tace per qualche istante. Una luce furente brilla nelle sue iridi, una
luce implacabile.
-
Che tu sia maledetta – ribatte, gelido – tu e il tuo amato re ci avete tolto
Erebor non meno degli orchi. –
-
Non avremmo salvato la tua gente ed avremmo condannato la nostra. Condivido la
tua rabbia e il tuo dolore, ma non rimpiango la mia decisione. – mormora
Niphredil
-
Perché sei venuta da noi, allora? – ringhia Thorin, finalmente incrociando il
suo sguardo
-
Perché la consapevolezza di aver agito per il meglio nulla poteva per placare
il mio animo. Ero tormentata dall’aver voltato le spalle alla sofferenza di un
intero popolo. Vi ho cercati per portarvi aiuto,
non rabbia. Per essere un volto amico durante il cammino, un’altra voce attorno
al fuoco di bivacco. –
-
Ebbene, non sei più la benvenuta, qui. Prendi le tue cose e vattene o, lo giuro
sul mio nome, ti ucciderò con le mie mani. –
“Un avvertimento può
dirsi efficace, se chi l’ha ricevuto non può rammentarlo?” cantilena una voce,
accanto all’orecchio di Niphredil, ma l’elfa è troppo turbata per darle peso.
Oltrepassa
Thorin ed esce dalla stanza, mente le lacrime le pungono gli occhi.
Sul
monte Gundabad, Tàri ha convocato Mald, il capo degli esploratori, perché le
faccia rapporto.
Mentre
l’orco, palesemente a disagio, cerca di sfuggire gli occhi fiammeggianti della
bestia, Erag lo guarda dalle ombre, maledicendo la decisione del serpente di
tenerlo lì, e di non farlo partire assieme all’avanguardia di Sinag. Non
conosce il motivo dietro quella scelta, ma di certo non tenterà di capire
quello che il drago pensa.
Così
rimase appoggiato al muro di pietra, in attento ascolto.
-
Sinag ha dunque lasciato il campo… - sta dicendo la belva, per una volta con un
accento compiaciuto
-
Lui ed i suoi uomini più fidati, mia signora – annuisce Mald, drizzandosi in
tutta la sua altezza – a tendere l’imboscata ai nani come ordinato. –
-
E chi è al comando, in sua assenza? –
-
Nultug, mia signora. –
Il
Drago picchetta delicatamente con le unghie a terra, producendo un suono
sinistro.
Eppure,
più Erag la guarda, più lei sembra appagata, soddisfatta della piega che stanno
prendendo gli eventi.
-
Devo tenere pronto il resto dell’esercito per la partenza? – domanda infine
Mald
Il
serpente sogghigna, facendo scrocchiare l’attaccatura delle maestose ali.
-
No – dice poi, senza smettere di sorridere – ma dimmi, orco, c’è forse uno dei
tuoi uomini di cui desideri disfarti? Un esploratore incompetente, un vecchio
che si rifiuta di accasciarsi e morire, un codardo capace solo di coprirsi di
vergogna? –
Erag
rabbrividisce, non sa se per la strana richiesta o per il tono gentile della
loro padrona.
Mald
si gratta la testa, perplesso, poi annuisce: - eh, ci sarebbe Orth. – ammette
-
Ebbene – si compiace il drago – mandalo da me. Voglio che raggiunga Sinag e i
suoi e che gli consegni un messaggio, quando la battaglia sarà iniziata. –
-
Eh… sì, mia signora – conclude Mald. Sta già per avviarsi verso l’uscita,
quando il serpente lo trattiene. Si china verso di lui, fino a respirargli
sulla schiena.
-
E mandami anche Nultug. E’ tempo di operare qualche… - schiocca la lingua, con
quello che ad Erag sembra un enorme godimento -… cambiamento -
Una
volta all’aperto, raggiunge il piccolo ruscello e s’inginocchia sulle sue rive.
L’acqua scorre placida e limpida, mentre il vento fa stormire dolcemente i
ciuffi d’erba sulle sponde.
Una
lacrima riga la guancia di Niphredil e cade nell’acqua, perdendosi fra i
flutti, confondendosi con le onde.
Sa
di dover partire, ma l’idea di lasciare i nani le causa più dolore di quanto
immaginasse. Non vuole abbandonarli così, nel bel mezzo del viaggio, senza una
spiegazione, una parola di saluto, senza un’ultima battuta sulla birra.
Lasciare di sé stessa solo un vago ricordo, condannato ad essere cancellato
dagli improperi e dalle scarne spiegazioni di Thorin Scudo di Quercia.
Niphredil
sospira, accarezzando l’acqua.
Se
non altro, potrà fare ritorno a casa. Riabbracciare Thranduil, sentire di nuovo
la risata di Lu, cingere ancora la spada di comandante, del cui peso quasi
sente la mancanza. Potrà ricominciare con la sua vita, sapendo che ha offerto
ai nani tutto ciò che poteva e che, anche se loro alla fine l’hanno rifiutata,
questo non li fermerà e, presto, avranno comunque una nuova dimora, un luogo in
cui dimenticare gli orrori della guerra e prosperare.
Socchiude
gli occhi, lasciandosi cullare dal canto del ruscello.
Eppure,
ancora le parole di Thorin le trafiggono il cuore come pugnali.
Si
sente ancora avvelenata dal suo disprezzo.
E’
giunta a provare dell’affetto, per il principe dei nani, un affetto che non è
caldo e chiassoso come quello per Glòin, né pacato e rassicurante come quello
per Balin, qualcosa di flebile, ancora insicuro, ma certamente sincero.
-- La Coda!
(in
cui –La Matta- non ha un granché da dire, quindi si limita ad inchinarsi al
pubblico ed a ringraziare ancora chi la commenta ed anche chi la legge e basta)
Fra
l’’altro, sappiate che i pezzi più importanti di questo capitolo li ho scritti
nel cuore della notte e volevo postarli ieri alle quattro del mattino, ma poi
ho pensato che sarebbero stati un tripudio di errori e quindi ho avuto pietà di
voi e ho aspettato di revisionarli a mente lucida!
Un
bacio e a presto!
- La Matta -