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Autore: EffieSamadhi    02/03/2015    4 recensioni
{Su Youtube è disponibile il trailer della storia: https://www.youtube.com/watch?v=RuY_VgECJKc}
Con i suoi colori caldi e rassicuranti, l'autunno ha portato l'amore. Con il suo gelo e la neve, l'inverno lo ha spazzato via. Ma come ogni anno torna la primavera, quella strana e straordinaria stagione in cui ogni cuore spezzato capisce di poter amare ancora.
Daria è cresciuta: ha visto la sua vita cambiare, si è scoperta più grande, più forte, più sicura di sé, e ha finalmente capito che la sola cosa importante è essere sinceri, sempre, anche a costo di finire bruciati. Per questo decide di prendere un aereo e volare a Los Angeles, per dire a Shannon tutto ciò che per mesi, o forse per una vita intera, ha sempre negato a se stessa.
Nella città degli angeli, Shannon è in piedi sull'orlo del baratro, restituisce il truce sguardo dell'abisso ed è sul punto di saltare, quando si rende conto che non può essere tutto qui, che la sua vita non può finire così, non senza combattere. E quando davanti ai suoi occhi stanchi, dopo molti mesi, torna a farsi vivo lo sguardo di Daria...
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio, Shannon Leto, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Direzioni ostinate e contrarie.'
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La lunga strada verso casa - 1
Del tutto inaspettatamente, già un paio d'ore dopo la pubblicazione del primo capitolo il contatore delle visite è schizzato a cento, per non parlare di tutti coloro che hanno inserito questa nuova storia in una delle tre liste! Grazie per ogni cosa, davvero. Mi fate sentire speciale, e non saprò mai come ringraziarvi a dovere.
Vi lascio al prossimo passo,
EffieSamadhi






Per aspera ad astra






Capitolo secondo
Non basta un raggio di sole in un cielo blu come il mare,
perché mi porto un dolore che sale, che sale.1


Cedar Creek, 7 marzo 2014


    Quando varco la soglia del centro, il primo pensiero che mi attraversa la mente è che non somiglia per niente all'idea che mi ero fatto di posti del genere: credevo che il bianco delle pareti mi avrebbe abbagliato, o che le mie narici avrebbero subito percepito un odore simile a quello degli ospedali, e che appena entrato mi sarei sentito soffocare dalla tristezza dell'ambiente – invece l'atrio del Safe Heaven è più simile all'ingresso di un centro estetico, con pareti colorate e numerose piante in vaso. Mi avvicino timidamente al bancone, seguito ad una certa distanza da Jared e mia madre, che tiene molto corto il guinzaglio di Bruce, e più indietro da Vicki e Tomo, che si tengono per mano. «Buongiorno» mi saluta l'infermiera seduta dietro la scrivania, un'energica donna afroamericana dal viso cordiale, che per certi versi mi ricorda la Mamie di Via col vento. «Cosa posso fare per lei?»
    «Salve, mi chiamo Shannon Leto. Ho chiamato ieri mattina. Sono qui per...» La mia voce ha una leggera incertezza: in fondo, per quanto sia una mia scelta, una scelta molto ponderata, mi è ancora difficile pronunciare la parola ricovero senza che mi tremi la voce.
    «Oh, certo, ricordo. Ero io al telefono» mi soccorre lei, e dal suo tono capisco che non dev'essere la prima volta che le accade di trovarsi di fronte qualcuno nelle mie condizioni. «Io sono Darlene» aggiunge, tendendomi la mano al di sopra del bancone.
    «Piacere di conoscerla, Darlene» rispondo, ricambiando timidamente la stretta.
    «Per prima cosa, dovrebbe farmi il piacere di riempire questi moduli» prosegue, mettendomi davanti agli occhi alcuni documenti e una penna a sfera blu. «Io intanto chiamerò il dottor Connors.» Mi lascia solo di fronte all'immenso spazio bianco dei moduli, e si rimette alla scrivania, alzando il ricevitore e premendo un paio di tasti. Mi volto per un istante verso il mio seguito, leggendo chiaramente negli occhi di Jared la sofferenza causata dall'idea di abbandonarmi in un posto simile, anche se soltanto per un paio di settimane. Torno a voltarmi verso i moduli, che inizio a compilare con mano incredibilmente ferma, quasi non avessi fatto altro per tutti i giorni della mia vita.
    Ho appena terminato, quando da un corridoio alla mia sinistra appare un uomo in maniche di camicia che non somiglia affatto all'idea che si ha in generale dei medici. «Il signor Leto? Sono il dottor Connors» esordisce, venendomi incontro con la mano tesa e un gran sorriso stampato in faccia, quasi fossimo due persone normali che si incontrano per la prima volta ad una festa. «Può chiamarmi Patrick, se la fa sentire più a suo agio.»
    «Shannon» rispondo, ricambiando la stretta, notando che non può essere molto più anziano di me. «Ah, questi sono mia madre, Constance, e Jared, mio fratello» proseguo, voltandomi per presentargli tutto il resto del circo. «Tomo e Vicki, due cari amici» aggiungo, mentre il dottore stringe la mano a tutti. «E il mio cane, Bruce. Avrei evitato di portarlo, non conoscendo la vostra politica in fatto di animali, ma non potevo affidarlo ad altri» concludo, sentendo più che mai il bisogno di giustificare le mie azioni.
    «La nostra politica è che tutto ciò che giova ai nostri ospiti è ben accetto» risponde lui, inginocchiandosi per accarezzare Bruce, che si presta senza remore alle coccole. «Splendido esemplare, splendido davvero. Un Border Collie, dico bene? Della varietà Australian Red, direi.»
    «Beh, io... io non...» balbetto, sorpreso dall'assoluta eccentricità di questo medico, apparentemente più interessato al mio cane che al mio ricovero nella sua struttura.
    «Mi perdoni» riprende, rialzandosi. «Sono sempre stato un amante dei cani, ma i miei non mi hanno mai permesso di tenerne uno, e ora che ne avrei la possibilità non ho il tempo materiale per occuparmene, perciò mi distraggo facilmente ogni volta che ne vedo uno. Ma torniamo a lei. In fondo è per lei che siamo qui, giusto? Darlene le ha già consegnato la documentazione necessaria?»
    «Tutto in ordine, dottor Connors» risponde lei, mostrandogli un fascicolo.
    «Allora andiamo a dare un'occhiata alla sua stanza. Potete venire tutti, se lo desiderate» aggiunge, rivolgendosi all'intero gruppo.
    «Io resterei qui, se per te non è un problema» risponde Vicki. «Ho bisogno di riposare per qualche minuto» aggiunge, sfiorandosi il ventre con una mano.
    «Le consiglio di uscire nel parco» replica il dottore. «Sulla panchina sotto il salice, in particolare. A quest'ora dovrebbe trovarla sgombra.»
    «L'accompagno» aggiunge Tomo. «Vuoi che porti Bruce con noi? Così magari si sgranchisce le zampe.» Annuisco, e mia madre gli consegna il guinzaglio. Mentre loro escono, diretti verso il parco, la mamma mi prende per mano, accompagnandomi verso la stanza, mentre Jared non riesce a camminare al mio fianco, preferendo restare indietro di un paio di passi.
    «Come sicuramente saprà, signor Leto» inizia il dottore, camminando lentamente lungo il corridoio, «questa struttura non è un ospedale, né una clinica, o qualunque altra definizione possa venirle in mente. Non è nemmeno un centro di riabilitazione» aggiunge, e a questo punto, anche senza vederlo in faccia, so che Jared sta tremando, «ma un centro d'ascolto e di supporto. Noi qui al Safe Heaven non curiamo le persone, le aiutiamo a trovare una soluzione ai loro problemi. E questo, mi creda, è molto più difficile di quanto si pensi. Non dirò che non ci sono stati insuccessi, nel corso degli anni, ma le assicuro che tali insuccessi non sono da imputare a noi, quanto ai nostri ospiti. E badi, sto parlando di ospiti, non di pazienti» aggiunge, voltandosi per un sorriso. «Tutte le persone che conoscerà nel corso della sua permanenza sono entrate qui di loro spontanea volontà, e di conseguenza possono decidere di andarsene in qualunque momento. Nessuno è un prigioniero, qui. L'unica condizione sulla quale non ci permettiamo di transigere è la serietà: quando una persona decide di rivolgersi a noi per avere quell'aiuto che non riesce a trovare altrove, pretendiamo che si fidi completamente di noi, che abbandoni ogni pregiudizio o timore e non si faccia scrupolo di parlarci di qualunque cosa. Mi rendo conto che si tratta di un notevole sforzo, uno sforzo che io stesso non sarei certo di poter compiere, ma è necessario. Per tutto il tempo che si tratterrà qui, signor Leto, dovrà sforzarsi di vedermi come un amico, e non come un dottore. Se può aiutare, può anche darmi del tu. Avrà modo di imparare che non badiamo molto alle formalità.» Finalmente, dopo aver svoltato in un secondo corridoio, il dottore si ferma davanti ad una porta in legno chiaro, simile a molte altre, riconoscibile soltanto grazie ad un numero, il nove. «Eccoci arrivati» sussurra, ruotando la maniglia e aprendo il battente. «Questa sarà la sua stanza. Mi rendo conto che non è il Ritz, ma di sicuro apparirà meno impersonale quando avrà sistemato le sue cose.» Mi lascia un attimo per guardarmi attorno, poi riprende: «Sulla scrivania troverà una copia del regolamento e una piantina dell'edificio, per aiutarla ad orientarsi meglio nei suoi primi giorni qui. Per questa mattina non ha impegni, così avrà tempo di sistemarsi per bene e dare un'occhiata in giro, se ne ha voglia. Si pranzerà alle dodici e trenta, e per le quattordici verrà nel mio studio, così potremo fare una chiacchierata.» Sorride ancora, dandomi una pacca amichevole sulla spalla. «Ora vi lascio soli. Signora» saluta mia madre, stringendole le mano e chinando appena il capo, «signor Leto» aggiunge, porgendo la mano a mio fratello. Ha già un piede fuori dalla stanza quando torna indietro, con l'aria di chi abbia dimenticato di dire qualcosa di importante. «Spero che questo non mini del tutto la mia posizione come figura autorevole, ma non posso proprio trattenermi: adoro la vostra musica.» Detto ciò scompare, chiudendosi la porta alle spalle.
    «Un tipo decisamente fuori dal comune» commenta mia madre con una risata, mentre muovo qualche passo in avanti e appoggio il borsone sul letto rifatto.
    «Sì, decisamente» osserva Jared con un sospiro. «Siamo sicuri di poterci fidare? Insomma, avete visto come si è messo a giocare con Bruce? Questo va oltre ogni norma igienica» aggiunge, come sempre fissato con la pulizia e i batteri.
    «Ho controllato le sue referenze, tranquillo» rispondo, appoggiando una mano sul materasso per saggiarne la consistenza. «Sembra un tipo strano, ma ha studiato nelle migliori università e conseguito un dottorato alla Johns Hopkins.»
    «Questo non toglie che sia strano» replica lui, dando una rapida occhiata al regolamento lasciato in bella vista sulla scrivania. «Che razza di centro è? Ti lasciano il cellulare?»
    «Non sono più in galera, Jared» gli faccio notare, avvicinandomi per prendere la piantina, cui do un'occhiata veloce e che ripongo subito in tasca.
    «Vuoi che ti dia una mano a disfare il bagaglio, tesoro?»
    «Grazie, mamma, ma mi arrangerò» le sorrido. «Tanto mi restano ancora un paio d'ore prima di pranzo» aggiungo, controllando l'orologio. «Andiamo fuori, voglio salutare gli altri.»



*



Torino, 7 marzo 2014


    Sono le nove di sera, e me ne sto distesa sul divano a rivedere per l'ennesima volta Casablanca, mentre Solo mi zampetta incerto sullo stomaco, incespicando e restando impigliato nei fili della coperta ogni due per tre. Quando suona il campanello penso subito che possa essere la signora Lorenzoli, che stasera si è data alla cucina e poco fa mi ha telefonato chiedendomi se mi facesse piacere una teglia di biscotti. Invece, non appena sono riuscita a scollarmi di dosso il gatto e a guadagnare l'ingresso, a reggere un enorme piatto ricolmo di biscotti trovo Alice. «E tu che ci fai qui? E perché hai i miei biscotti?»
    «Ho incontrato la tua vicina mentre uscivo dall'ascensore, e mi ha chiesto se potevo risparmiarle le scale. Ho accettato perché sono sempre cortese verso le vecchiette, ma adesso pretendo di assaggiarne uno. Il profumo è buono.»
    «Ovvio che puoi averne uno» rispondo, scostandomi per lasciarla entrare. «Però mi dici che succede? Insomma, per venire fin qui a quest'ora...»
    «Fin qui, esagerata. Non ho attraversato Torino. Sono dieci minuti a piedi, lungo strade ben illuminate e molto frequentate. Non ho rischiato scippi né stupri» replica, facendosi strada fino alla cucina. «L'assideramento però sì, fa un freddo cane la sera.»
    «Dev'essere successo qualcosa di veramente grave, allora. Non affronteresti mai condizioni tanto avverse per una stupidaggine. In quel caso useresti il telefono.»
    «E va bene, mi hai scoperta» sbuffa, appoggiando i biscotti sul bancone e sfilandosi la sciarpa. «Dov'è Solo?» aggiunge dopo un istante, guardandosi attorno con aria preoccupata.
    «Ho commesso l'errore di fargli vedere un documentario a proposito del monte Everest. Ora si crede Edmund Hillary, e sta provando a scalare il divano» rispondo, facendo un cenno verso il salotto. «In quale modo ti avrei scoperta, comunque?»
    «C'è qualcosa di cui ti devo parlare.»
    «Ho capito, metto su qualcosa da bere con i biscotti. Basta una tisana o serve la cioccolata?»



*



Cedar Creek, 7 marzo 2014


    Salutare tutti è stato doloroso, ma nulla mi ha mai straziato tanto quanto stringere tra le braccia Jared, che nonostante gli occhi lucidi e l'espressione di uno che sta per mettersi a piangere è riuscito a mantenere la propria integrità, sapendo che se si fosse abbandonato all'emozione lo avrei fatto anch'io. Sono rimasto fermo all'ombra del salice, guardandoli andare via con la consapevolezza che questa separazione è necessaria, se voglio sperare di tornare in mezzo a loro come l'uomo che ero un tempo, e non come il ragazzino spaventato che sono in questo momento. Qualche minuto più tardi sono tornato dentro, rivolgendo un sorriso a Darlene, e una volta al sicuro nella mia nuova stanza ho tenuto impegnata la mente svuotando il borsone e sistemando ogni cosa al proprio posto, replicando i gesti compiuti anni fa, quando ho lasciato la casa della mamma per traslocare in un posto tutto mio.
    Ho trovato la mensa senza difficoltà, scoprendo con una certa sorpresa che anche il cibo è di ottima qualità, decisamente diverso da quello degli ospedali, e ho pranzato da solo, in un angolo, consapevole di avere addosso gli sguardi di tutti i presenti, non per la mia condizione di celebrità – dubito che qualcuno mi abbia già identificato – quanto per la mia estraneità all'ambiente, per la mia condizione di persona nuova all'interno di un gruppo già coeso.
    Pochi minuti prima delle due sono seduto di fronte alla porta dello studio del dottor Connors, in attesa di essere ricevuto. Durante la mia breve attesa non perdo l'occasione di guardarmi attorno, incontrando lo sguardo di almeno otto diversi dipendenti, che mi salutano con un sorriso e passano oltre senza commiserarmi, senza provare pena per me, come se fossi un semplice visitatore, e non un essere umano profondamente tormentato che annaspa e lotta contro la corrente senza trovare un appiglio. Alle due in punto la porta si apre, rivelando la figura del dottore. «Buongiorno, Shannon. Prego, venga dentro.» Si scosta per lasciarmi passare, e non appena varco la soglia richiude la porta. «Va tutto bene, per ora? Ha sistemato le sue cose? Ha pranzato?» aggiunge subito dopo, apprensivo come credevo potesse essere soltanto una madre.
    «Tutto a posto, grazie. So che non dovrebbe essere la prima cosa a colpirmi, ma la qualità del cibo è eccellente» rispondo, sedendomi sulla poltroncina che mi viene indicata con gesto educato.
    «Ne sono felice» replica. «Ho scelto io stesso il personale delle cucine e il menù. Spesso anch'io mangio qui, e mai e poi mai avrei accettato di mangiare la stessa roba che servono negli ospedali.» Si siede per un istante dietro la scrivania, finendo di compilare alcuni documenti: osservandolo, mi accorgo che è mancino. Subito dopo si alza, prendendo da un cassetto un mini-registratore dello stesso genere di quelli che si vedono nei film. «Come specificato nei moduli che ha firmato, e di cui provvederò a fornirle al più presto una copia, ogni nostro colloquio sarà registrato. Spero che questo non le crei problemi.»
    «Sono già stato in una sala d'incisione» riesco a scherzare, strappandogli una risata.
    «Sono contento di vederla così sereno, sa?» ribatte. «Bene, iniziamo.» Preme un tasto e appoggia il registratore sulla scrivania. «Shannon Leto, primo colloquio. Sette marzo 2014.» Fa il giro della scrivania e si siede sulla poltrona accanto alla mia, assumendo un atteggiamento rilassato, quasi non fosse un dottore, ma un amico pronto ad ascoltare ogni dubbio o preoccupazione. «Shannon, ora desidero che sia completamente sincero con me. Che cosa si aspetta dalla sua permanenza qui a Safe Heaven
    Mi prendo mezzo minuto per pensare ad una risposta sensata – la verità è che non so di preciso a quale traguardo mi traghetterà quest'esperienza, ma ho un bisogno spasmodico di credere che qualcosa accadrà, e che tra due settimane sarò in grado di sopravvivere alla vita. «Credo... mi aspetto di guarire, in un certo senso.» Lo vedo cambiare posizione sulla sedia, e mi affretto a correggermi. «So che probabilmente non è il termine più adatto da usare, ma... guarire è la sola parola che mi venga in mente per descrivere ciò che mi aspetto dalla mia permanenza qui.»
    Annuisce, congiungendo le mani davanti al volto e sfiorandosi il labbro inferiore con la punta degli indici. «E da cosa si aspetta di guarire, stando qui?»
    «Da me stesso» replico immediatamente, senza esitare.
    «Risposta interessante.»
    «Non sono mai stato bravo con la psicologia, ma se c'è una cosa che sono certo di aver capito è che il mio problema... sono io
    «Se la cosa può esserle di conforto, qui non si parla di psicologia, ma di onestà morale. Ammettendo di avere un problema dimostra una certa consapevolezza della sua situazione, ma accettando di essere parte del problema dimostra di essere onesto verso se stesso, e mi creda se le dico che questo è un grande passo avanti. Ma ora mi parli di lei. In fondo siamo due estranei, non ci conosciamo. Mi racconti qualcosa della sua vita.» Mi passo entrambe le mani sul volto, sospirando e chiedendomi da dove cominciare. «Parta pure dall'inizio, se le va. Mi piacciono le lunghe storie» aggiunge, forse comprendendo il mio smarrimento.
    «Beh, sono nato in Louisiana, a Bossier City. È un piccolo centro del nord. Quando venni al mondo, mia madre aveva soltanto diciassette anni.»
    «Avevo l'impressione che fosse molto giovane, in effetti» è il suo commento.
    «Quando i suoi genitori scoprirono che era incinta la cacciarono di casa» aggiungo, abbassando lo sguardo al pensiero di quegli anni lontani. «Si trasferì a casa del suo ragazzo... mio padre» mi correggo, rendendomi conto che in fondo è questa la giusta definizione, per quanto il suo contributo al mio sviluppo come essere umano non sia andato oltre quel punto. «Era soltanto una roulotte ai bordi di una palude, ma si amavano, e quando c'è l'amore tutto sembra migliore. Si arrangiavano entrambi con dei lavoretti saltuari, tiravano avanti, insomma. Non vivevano nel lusso, ma so che non mi hanno mai fatto mancare nulla. Si sposarono un paio di mesi prima che nascessi. L'anno seguente mia madre restò incinta di mio fratello, e poco dopo la sua nascita le cose tra loro... non lo so, lei non ne ha mai parlato apertamente. Non so per quale motivo sia finita, in realtà.»
    «Deve essere stato molto difficile per una ragazza così giovane tirare avanti con due bambini piccoli da crescere» osserva lui, estremamente concentrato sul mio racconto. «Cosa fece, tornò dai genitori?»
    Scuoto la testa, grattandomi distrattamente la guancia. «Per quanto ne so, dal momento in cui li lasciò, quando era incinta di me, non tornò mai indietro. È sempre stata una donna molto orgogliosa, non si sarebbe mai abbassata a tornare indietro. Tornare indietro a chiedere aiuto avrebbe significato inginocchiarsi ai loro piedi implorando perdono, e lei non sarebbe mai riuscita a guardarsi di nuovo allo specchio, se lo avesse fatto. Fece la scelta più coraggiosa che una donna possa fare: si rimboccò le maniche, si cercò un lavoro e una casa e si impegnò con tutta se stessa per darci la migliore vita possibile» aggiungo con un sorriso, ripensando ai tempi felici della mia infanzia, chiedendomi perché non si possa rimanere per sempre bambini, per sempre immersi in quello stato di grazia proprio dei primi anni di vita. «Alcuni suoi amici del liceo vivevano in una specie di comunità hippie nella periferia sud della città, perciò ci trasferimmo lì. Avevo soltanto due anni, non mi ricordo un granché, ma quando ne parla lei ha sempre un gran sorriso sul volto, il che mi fa pensare che ci trovassimo bene. Agli occhi del mondo erano soltanto un gruppo di spiantati che si lavavano poco e passavano le giornate fumando erba e suonando la chitarra attorno ad un falò, ma per lei sono stati una vera ancora di salvezza. Sono stati una famiglia, per lei, per me e per mio fratello. Almeno in quel primo periodo.»
    «Ci siete rimasti molto?»
    «Poco più di sei mesi, credo. Presto la mamma racimolò un po' di soldi facendo la cameriera in un ristorante di lusso. Al campo c'erano altre donne con bambini della nostra età. Ci affidava a loro e copriva quanti più turni possibile per guadagnare di più. Comprò un'auto da uno sfasciacarrozze, un vero rottame. Era una Gremlin rossa, con una striscia bianca sulle fiancate. Dio, mi ricorderò di quell'auto finché avrò vita. Apparteneva ad un tale che si era schiantato contro un palo del telefono, era tutta piena di bozzi e d'nverno era piena di spifferi, ma era carina. Un ragazzo del campo la rimise in sesto, e appena fu pronta prendemmo le nostre cose e lasciammo la città.»
    «Per dirigervi...» interviene, lasciando in sospeso la frase per consentirmi di continuarla.
    «Ovunque, e allo stesso tempo da nessuna parte. Non aveva un programma, o una destinazione da raggiungere. Aveva vent'anni» aggiungo, facendo spallucce, come se questo potesse spiegare ogni cosa. «Forse voleva cercare il posto adatto per costruirci una casa nostra, o forse aveva soltanto voglia di vedere il mondo. Quel che è certo è che andammo in un sacco di posti. Non ci fermavamo mai più di sei mesi, ma andava bene così. Era una gran lavoratrice, riusciva sempre a scovare i posti in cui pagavano di più.»
    «E quando lei era al lavoro, voi che cosa facevate?»
    «Ogni volta che arrivavamo in un posto nuovo, lei riusciva sempre a scovare la comunità hippie del posto. Erano gli anni settanta, ai margini di ogni città ce n'era un gruppo. Riusciva a fare amicizia facilmente, ma soprattutto è sempre stata brava a capire le persone. Ancora adesso è il tipo di donna che riesce a capire con una sola occhiata la vera natura di una persona, o se di lei ci si possa fidare. So che può sembrare che ci abbia esposto ad un sacco di pericoli, ma le assicuro che non mi sono mai sentito più al sicuro di quanto mi sentissi allora.»
    «Quindi si può dire che ha avuto un'infanzia felice.»
    «In generale, direi di sì. Beh, c'era il problema della scuola. Ogni volta che ci trasferivamo cambiava tutto: i compagni di classe, gli amici... essere il nuovo arrivato era sempre difficile, ma in qualche modo riuscivamo sempre a farci accettare, mio fratello ed io. E anche quando non riuscivamo a fare amicizia con gli altri bambini, avevamo sempre l'un l'altro.»
    «Capisco cosa vuol dire. Anch'io ho un fratello. So quanto sia importante avere accanto qualcuno sempre pronto a sostenerti.»
    «Jared è più giovane di me di un anno e mezzo, ma... è sempre stato il più forte, in un certo senso. Credo che ciò che gli difetta in età sia compensato dalla personalità.»
    Sorride, incrociando le braccia davanti al petto. «Sono curioso: quando è arrivata la musica?»
    «Non lo so» ammetto, scuotendo la testa. «Mia madre ha sempre detto che ero pieno d'energia, fin da piccolissimo. Già a tre anni rincretinivo tutti battendo sulle pentole con i mestoli e i cucchiai di legno che rubavo dalla cucina. Avevo dieci anni quando mi comprò la prima batteria. Era piccola, ma completa di tamburi e piatti. Ci battevo sopra giorno e notte, come se ne andasse della mia vita. Ma avevo iniziato a strimpellare la chitarra già da un paio d'anni. Gli amici di mia madre gliel'avevano regalata prima che lasciasse Bossier City. Credo che la conservi ancora. Non suona più come una volta, ma è comunque un ricordo.»
    «I ricordi sono una parte importante della nostra vita. Ci aiutano a tenerci ancorati alla realtà» asserisce, cambiando posizione sulla sedia. «E i primi problemi, invece, quando sono arrivati? Insomma, non mi illudo che sia stato un percorso privo di ostacoli.»
    «Poco prima che iniziassero le superiori» rispondo, sapendo che era soltanto questione di tempo prima che si arrivasse a questo discorso. «Avevo quasi quattordici anni, e avevamo trovato un posto in Mississippi. Non ce la cavavamo male, ma non mi piaceva. Non ero riuscito a legare con nessuno, Jared invece era riuscito a fare amicizia, si era integrato bene.»
    «Che cosa le ha impedito di trovare qualcuno con cui legare?»
    «Il fatto di avere quasi quattordici anni, suppongo» replico. «O forse... l'anno prima uno degli amici di mia madre l'aveva chiamata per dirle che mio padre era morto.»
    «Mi dispiace molto» sussurra lui, mostrando un sincero cordoglio.
    «Non ricordo nemmeno il suo viso» rispondo, cercando di fargli capire quanto poco tenessi a lui. «Credo che mia madre abbia qualche sua fotografia, ma... non è stato un gran padre.»
    «Come successe? Se le va di parlarne, naturalmente.»
    «Si infilò una pistola in bocca» ribatto, sorprendendolo per la mia schiettezza. «Mi scusi se non le indoro la pillola, ma è quello che è successo. Poco dopo il divorzio da mia madre si era risposato, e aveva avuto altri figli. Non li ho mai conosciuti, ma a mia discolpa posso dire che nemmeno loro si sono mai fatti avanti. Per quanto ne so, non sanno nemmeno della mia esistenza, o di quella di mio fratello.»
    «Com'è possibile? Insomma, considerando che siete diventati famosi, come... almeno il cognome o la provenienza avrebbero dovuto suscitare qualche sospetto, o una minima curiosità.»
    «Leto non è il cognome di mio padre. Dopo il divorzio la mamma cambiò legalmente il nostro cognome, dandoci il suo. E qualche anno più tardi anche lei si rifece una vita: conobbe un altro uomo, che decise di adottarci e darci il suo cognome. Anche il secondo matrimonio finì con il divorzio, ma restarono in buoni rapporti, e noi ci tenemmo il nome.»
    «Complicato, ma... adesso mi è tutto più chiaro. Dunque, siamo rimasti ai suoi tredici anni, e alla notizia della morte di suo padre. In quale modo questo evento influì su di lei?»
    «In un primo momento, non mi sconvolse più di tanto. In fondo, non lo conoscevo. Per me era morto da tempo. Ma credo... non lo so, forse inconsciamente mi turbò più di quanto osassi ammettere. Forse nel profondo avevo sperato che si pentisse della propria decisione e che tornasse da noi, non lo so. Quello di cui sono certo è che a quattordici anni il fatto di non avere un padre iniziò a pesare. Tutti gli altri ragazzi avevano un padre che li portasse a pesca o che andasse a vedere le loro partite di calcio, mentre io non avevo nessuno. Mi sembrava che gli altri mi guardassero in un modo strano, come se fossi un alieno.»
    «Ma poco fa ha detto che suo fratello non ebbe problemi a farsi amici, quando eravate nel Mississippi. Questo come se lo spiega?»
    «Differenti personalità» replico. «Lui è sempre stato un tipo più estroverso, più... espansivo. Se è stato ad uno dei nostri concerti o ha visto qualche intervista, dovrebbe esserci arrivato da solo» ammicco.
    Soffoca una risatina. «Ero a San Diego, l'anno scorso» ammette. «Credo di aver capito di che cosa stiamo parlando.»
    «Io ho sempre avuto maggiori difficoltà ad aprirmi. Forse adesso risulterà difficile da credere, ma trent'anni fa non ero così. Dicevo sì e no una trentina di parole al giorno, e a quattordici anni, se non sai comunicare, non ti puoi fare degli amici.»
    «La capisco più di quanto creda» sorride. «A quattordici anni anch'io ero un tipo silenzioso. La lingua mi si è sciolta al college, ma credo che il merito sia da attribuire alla birra, più che alla mia forza di volontà.» Rimaniamo in silenzio per un secondo, poi riprende: «Che genere di problemi ci furono?»
    «Risse con i compagni di scuola, soprattutto. Fui sospeso per aver picchiato un ragazzo più grande che si faceva beffe della mia statura. E poi iniziai a non andarci più, a scuola. Per un paio di settimane funzionò, anche perché convinsi mio fratello a reggermi il gioco. Solo che poi la preside chiamò mia madre, e ci restai fregato.»
    «Che successe, a quel punto?»
    «Mi misi seduto con mia madre a parlare di ciò che mi turbava. Credo sia stata il miglior psicologo con cui abbia mai parlato» aggiungo con un sorriso. «Con tutto il rispetto per lei, naturalmente.»
    «Non si preoccupi, sopporto bene le critiche» replica. «Trovaste una soluzione?»
    «Optammo per la decisione più semplice: caricammo tutte le nostre cose sulla Gremlin e ripartimmo. Alla fine, si rivelò anche come la scelta più giusta. Vagammo ancora per un po', e quando avevo diciassette anni arrivammo un Virginia.»
    «Un bel viaggio, dalla Louisiana.»
    «La Virginia è il posto in cui siamo rimasti più a lungo, escludendo Los Angeles. Ci sistemammo nei dintorni di Richmond, mamma trovò un lavoro in un negozio di dischi e riuscì a farci iscrivere nella migliore scuola della città.»
    «Ma poi i problemi tornarono, vero? Glielo leggo negli occhi.»
    «Diciamo che le liti con i compagni di scuola nel Mississippi non sono state il punto più basso della mia vita. Ci sono state cose peggiori.» Faccio una breve pausa, durante la quale il dottore sceglie di non interrompermi. «In realtà andò bene, per un po'. Anzi, per molto, considerando i miei precedenti. A diciotto anni conobbi una ragazza, Christine. Era un anno indietro, studiava nella stessa classe di mio fratello.»
    «Era la prima ragazza che destava il suo interesse?»
    «Era la prima che avessi avuto abbastanza tempo per osservare. In tutti i posti in cui eravamo stati prima ero stato troppo occupato a cacciarmi nei guai per darmi il tempo di guardarmi intorno. Era carina. Non la ragazza più bella del mondo, ma... carina. E poi aveva un'aria... non lo so, normale. Viveva con i suoi genitori e una sorella più piccola in una villetta in periferia. Suo padre era portoricano, quindi sapeva che cosa vuol dire faticare per sentirsi accettati dalla comunità. Era brava a scuola, cantava nel coro della chiesa, faceva volontariato alla mensa dei poveri...»
    «L'ultima brava ragazza, quindi» osserva lui.
    «Nella mia mente, Christine rappresentava qualcosa che non avevo mai conosciuto, e che fino a quel momento non avevo mai sospettato di volere. Mi piaceva come avevamo vissuto fino a quel momento, il fatto di poter prendere e andare via ogni volta che qualcosa non girava come dovuto, ma quando incontrai Christine...»
    «...iniziò a desiderare qualcosa di diverso» conclude il dottore, dando voce a pensieri che io non sarei mai stato in grado di esprimere così bene. «Come si comportò con lei?»
    «Come avrebbe fatto qualunque altro ragazzo di diciotto anni» rispondo, facendo spallucce. «Ci provai, e lei mi respinse. Ci provai ancora una volta, e ancora una volta non funzionò. Forse chiunque altro si sarebbe scoraggiato e avrebbe lasciato perdere, ma non io. Ero determinato a strapparle un appuntamento, e non mi sarei arreso per tutto l'oro del mondo.»
    «Beh, dicono che la fortuna aiuti gli audaci. Fu uno di quei casi?»
    «Sì e no. Mi ci vollero un paio di mesi e qualche buona parola da parte di mio fratello. Vede, il fatto era che la scuola aveva ricevuto la documentazione riguardante tutti i nostri soggiorni precedenti, e in qualche modo si era sparsa la voce che fossi un cattivo soggetto. Le brave ragazze non si avvicinavano a nessuno, meno che mai ad uno come me. E Christine era una che puntava in alto. Il suo sogno più grande era studiare legge a Yale, perciò...»
    «...era una di quelle che si tenevano alla larga.»
    «Non per molto, comunque. Scoprii di piacerle, ma che il timore e la timidezza la tenevano lontana da me. Fortunamente, mio fratello è sempre stato un tipo molto diplomatico, uno che avrebbe avuto una carriera assicurata come ambasciatore. La convinse ad accettare di accompagnarmi ad una festa, e lì... beh, per usare un'espressione poetica, fu lì che accadde la magia. Scoprì che non ero il criminale che tutti credevano, che sapevo anche essere simpatico, accomodante, forse addirittura dolce. E poi avevamo un sacco di interessi in comune, come la musica. Di certo non saremmo mai stati a corto di argomenti.»
    «La classica storia d'amore che molti ragazzi sognano» è il suo commento. «Ma ad un certo punto Christine lasciò la scena. Come accadde? Successe qualcosa?»
    «Durò qualche mese, dall'autunno fino alla tarda primavera. Per molto tempo considerai quel periodo come il momento più bello della mia vita. In primavera decisi di mollare la scuola, nonostante mancasse poco al diploma. Non avevo buoni voti, sapevo che un pezzo di carta non mi avrebbe aiutato a trovarmi un lavoro migliore di quelli che avrei potuto trovare senza. Iniziai a lavorare presso un'officina meccanica, e fu allora che mi venne la passione per le motociclette.» Faccio una pausa, mentre lo osservo alzarsi per sgranchirsi le gambe. «Christine cercò in ogni modo di farmi cambiare idea, convinta com'era che avrei potuto fare grandi cose, se soltanto mi fossi impegnato. Iniziai a detestare il suo atteggiamento, quelle sue continue insistenze... mi sentivo come se stesse cercando di cambiarmi, di mutare la mia personalità, e questo non mi stava bene. Insomma, sapevo che anche mia madre e mio fratello non condividevano la mia scelta, ma mi conoscevano abbastanza da sapere che ogni protesta avrebbe rischiato di spezzare per sempre il nostro legame. Non condividevano la mia scelta, ma mi hanno sempre sostenuto, perché sapevano che il loro supporto era la sola cosa che davvero contasse per me.»
    «Non le venne in mente che forse Christine si comportava così soltanto perché teneva davvero a lei, perché voleva per lei unicamente il meglio?» osserva il dottore, tornando a sedersi.
    «Adesso so che se insisteva tanto era soltanto perché mi amava e non voleva che buttassi la mia vita» replico, calcando l'accento sulla prima parola. «Ma allora ero convinto che volesse cambiarmi, che stesse cercando di manipolarmi per avvicinarmi all'ideale romantico di ragazzo perfetto che aveva sempre sognato. In qualche modo ci trascinammo avanti per l'intera estate, e poco prima che ricominciasse la scuola mi piantò.»
    «Sul serio? Fu lei a dire basta? Non successe il contrario?»
    «Io sono come gli irlandesi. Non metterei mai fine ad una cosa sbagliata» sorrido. «No, non fui io a lasciar perdere, ma lei. Per riuscire a scaricarmi mi raccontò un sacco di bugie: disse che voleva concentrarsi sullo studio, che doveva avere la mente libera per concentrarsi sui propri obiettivi, e cose del genere.»
    «Come sa che erano bugie?»
    «Perché me lo ha detto lei» replico. «L'ho rivista, dopo più di vent'anni, e mi ha confessato ogni cosa. Abbiamo parlato a lungo, e mi ha spiegato che non mi vedeva felice, e sapeva di essere la causa del mio disagio, almeno in parte. Per questo mi aveva lasciato, per evitare che diventassimo due estranei astiosi che si accusano a vicenda di essersi rovinati la vita.» Mi fermo di nuovo per qualche istante, mentre tutte le sgradevoli sensazioni di quei giorni lontani tornano a galla, per molto tempo celate agli occhi, ma mai davvero dimenticate. «Per qualche mese riuscii a cavarmela, a tirare avanti nonostante il cuore spezzato, poi Richmond iniziò a starmi stretta. In ogni angolo rivedevo qualcosa di noi, qualche misero dettaglio che riportava alla mente il mio fallimento. Richmond iniziò a farmi star male, così com'era già successo con il Mississippi. Dissi ai miei che avevo bisogno di cambiare aria per qualche tempo, per schiarirmi le idee e vederci più chiaro riguardo al mio futuro. Mamma sarebbe stata disposta a prendere tutto e cambiare di nuovo città, ma la pregai di restare. Si era sistemata bene, aveva accanto un uomo che la amava e un lavoro che la rendeva felice... per la prima volta dopo molto tempo la vedevo realizzata, davvero serena, e non mi sarei mai perdonato se avesse dovuto rinunciare a tutto per seguire i miei capricci. In fondo avevo diciotto anni, ero sulla strada per diventare un adulto. E non potevo nemmeno costringere Jared a partire: lui a Richmond si trovava bene, aveva ottimi voti e splendide prospettive per il futuro. Per la prima volta nella vita aveva iniziato a fare dei progetti seri per il futuro, aveva dei grandi sogni da realizzare... se qualcuno doveva portargli via tutto, quel qualcuno doveva essere la realtà, non suo fratello. Così, caricai tutte le mie cose sulla Gremlin e partii. Come quando ero bambino, andai ovunque e in nessun luogo. Trovavo lavoretti che mi tenevano impegnato per qualche mese, e quando me ne stancavo partivo e cambiavo città. Per tre o quattro anni andò tutto bene. Mi sistemai in Tennessee, nei dintorni di Memphis, convinto di aver seminato i miei vecchi guai» sospiro, passandomi una mano suglio occhi come a cancellare la vergogna di quello che seguì.
    «Ma come sempre, quando i vecchi guai tolgono il disturbo ne arrivano di nuovi, vero?»
    «Compresi quanto fossi incapace di scegliermi gli amici, o anche solo di capire le persone» rispondo. «In tutti i luoghi in cui sono stato, mai una volta mi è capitato di fare amicizia con qualcuno che fosse meno incasinato di me. Riuscivo sempre a scovare le persone più sbagliate con cui legare. Mi vergogno di molte delle cose fatte in quel periodo.»
    «Spero che la cosa non le dispiaccia, ma ho fatto qualche ricerca su di lei, in previsione del suo arrivo qui da noi» commenta, allungando un braccio verso la scrivania per prendere alcuni documenti. «Si parla di un paio di arresti e multe per rissa e guida in stato d'ebbrezza. E poi c'è un fascicolo del Memphis Memorial Hospital, in cui si parla di un ricovero per...» Si interrompe, quasi temesse di mettermi in imbarazzo leggendo la diagnosi.
    «Abuso di sostanze stupefacenti» concludo. «Non si faccia problemi a dire le cose come stanno, dottore. Cercava il punto più basso della mia vita? Lo ha trovato» aggiungo, abbassando la testa. «Non saprei nemmeno dire quante e quali schifezze avessi preso, se non mi avessero fatto un esame tossicologico. Rimasi in coma per quattro giorni.»
    «Ma poi si è rialzato» mi fa notare lui. «Come può un ragazzo che si è completamente perso risalire l'abisso e raggiungere la vetta?»
    Ci scambiamo un lungo sguardo, e quando finalmente trovo una risposta sento un sorriso sincero illuminare il mio viso. «Jared.»



1Non basta un raggio di sole in un cielo blu come il mare, perché mi porto un dolore che sale, che sale. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone La notte della cantante italiana Arisa, contenuta nell'album Amami (2012).
   
 
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