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Autore: Neuri    10/12/2008    3 recensioni
Il giorno è pieno di stonature, angoli vivi e dettagli volgari. Nelle silenziose ombre che la Notte porta con sé, con più facilità si attraversano e oltrepassano limiti e confini.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Draco Malfoy | Coppie: Draco/Hermione
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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The Witching Hour è una oneshot dell'autrice di lingua inglese Neuri. Potete leggere l'originale seguendo questo link.

Questa storia, nominata anche recentementi nei dramione_awards nelle categorie Best Angst e Best Tale with a Baby, è stata scritta prima dell'uscita del Principe Mezzosangue, pertanto è compatibile con il canon solo fino al quinto libro.

Approfitto di questo spazio per ringraziare di cuore chi ha commentato Passages of Time di Bambu.

Buona lettura,
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The Witching Hour


È quasi mezzanotte quando mi Materializzo a casa, circondato da un’oscurità alimentata molto più che non solo dalla mia veste, dal mio mantello e dalla maschera che mi copre il volto.

Ho sempre avuto affinità con il buio, ed è solo un ironico gioco del destino che i miei colori siano, invece, quelli del sole: delicati quanto quelli dei più puri tra gli angeli del Botticelli. La Notte è sempre stata una cara amica. Offre protezione e copertura, aiuta la fuga e il tranello. Maschera tutto quello che non voglio vedere con la chiarezza che la luce dona. Il giorno è pieno di stonature, angoli vivi e dettagli volgari. Nelle silenziose ombre che la Notte porta con sé, con più facilità si attraversano e oltrepassano limiti e confini.

Sono il suo consorte favorito, portatore delle più macabre, sinistre e tormentate promesse che racchiude in sé.

È una simbiosi mutuamente benefica, credo.

La porta alla fine del corridoio è socchiusa; un frammento della luce delle candele, calda e dorata, si propaga nella densa oscurità. È una promessa irresistibile, speranza di alleviare il freddo che mi porto dentro e che mi avvolge come un mantello. È tardi, e ci sono ancora molteplici compiti da concludere prima di potermi concedere all’illusoria pace del sonno, ma sono sempre stato prono a concedermi delle indulgenze. È una caratteristica spiacevole, ma che temo non riuscirò mai a sradicare.

Infilo la maschera sotto il mantello, mentre cammino lungo il corridoio. Estraggo la bacchetta ed eseguo un Incantesimo Ripulente con familiare praticità. In un istante, l’odore metallico del sangue si leva dalla mia pelle e dai vestiti, insieme ai rimasugli di terra smossa di recente, erba compatta e polvere. Sono completamente pulito quando la mia mano apre la porta. O meglio, pulito quanto uno come me possa sperare di essere. Alcune macchie sono impossibili da rimuovere, tranne che con un potente Oblivion.

Ma questo non si accorderebbe affatto alle mie necessità.

Il tempo, all’esterno, è araldo del vicino inverno, e la stanza è avvolta da Incantesimi Riscaldanti. Una vecchia elfa domestica è raggomitolata su una sedia a lato del piccolo letto a baldacchino, mezza addormentata e con il capo screziato a riposare, in posizione precaria, sull’angolo del materasso.

Si sveglia mentre mi avvicino e si affretta a rimettersi in piedi, il più velocemente possibile date le sue vecchie membra. Mi saluta con un profondo inchino e un tenero sguardo verso la piccola sagoma, appena visibile sotto le pesanti coperte.

La lascio andare e la porta della stanza si chiude con un quieto rumore quando esce.

Molto più che una coscienziosa, sentimentale e vecchia elfa domestica è a guardia del più che prezioso occupante della stanza. Gli incantesimi intessuti intorno alla camera sono quanto di più potente abbia mai creato; e, nel corso degli anni, ho usato tante e potenti maledizioni. Sono di mia invenzione e, per mancanza di definizione migliore, indistruttibili. Dovesse crollare anche l’intera dimora, dovesse essere arsa e ridotta a poche ceneri e pietra, questa stanza e tutto quello che contiene rimarrebbero illesi.

In tempi difficili, non ci si può mai preparare abbastanza. Non c’è distinzione tra l’essere cauti e la paranoia. Per me, sono esattamente la stessa cosa. Altri hanno intrapreso passi simili per salvaguardare i loro tesori.

Il mio compito era molto più semplice, dato che solo una è la mia possessione senza prezzo.

Detta ‘possessione’ si sta ora svegliando dal suo sonno, nel suo piccolo letto da bambino.

Mio figlio ha quattro anni. Scuri capelli riccioluti e grandi occhi di cioccolata liquida, pronti a riempirsi di lacrime e ancora più veloci nel risplendere dell’impossibile ottimismo che solo i bambini posseggono.

La sua pelle porta la fragranza del latte e delle rose. È la mia più profonda gioia.

Siamo simili per molti aspetti, ma anche molto diversi. Per mio figlio la parte migliore del giorno è quando si sveglia, la mattina; quando è ricolmo del suo esuberante entusiasmo e di una irrefrenabile energia che me lo fa guardare divertito, mentre girovaga per la nostra casa sulle sue piccole gambe. Trova le cose più semplici interessanti e quelle interessanti affascinanti. Dire che abbia una natura curiosa è dire poco, mio figlio ha fatto ammattire molteplici ospiti con le sue domande senza mai fine. Io ero un bambino sempre quieto, pronto ad osservare, con un dono per risposte fulminanti e graffianti. Mio figlio guarda e mette tutto in dubbio. Da me ha preso il talento per la riflessione e l’intuizione, da sua madre quello per i dettagli.

Una combinazione pericolosa, quando intrecciata in maniera corretta.

È seduto contro i cuscini, ora, si stropiccia gli occhi e mi guarda con rassegnata irritazione.

Non è un’espressione che si vede spesso sul volto di un bambino di quattro anni.

“Sei in ritardo, papà.”

Spesso vengo sgridato in questo modo.

Mi siedo sul letto, una mano guantata che tocca una ciocca dei suoi capelli color mogano. “Le mie scuse. Sono stato trattenuto. Pensavo che saresti già dovuto essere addormentato, a quest’ora.”

“Volevo aspettarti. Hai detto che mi avresti portato a camminare con te questa sera.” C’è esasperazione nello sguardo che volge verso la finestra della sua camera, dove la luce fioca della tarda luna illumina il vetro colorato in tenui, luminosi aloni.

“È ancora sera, e possiamo ancora fare la nostra camminata, se vuoi.”

“Davvero?” Sembra estasiato dalla mia completa dimenticanza del fatto che avrebbe dovuto essere a letto da almeno cinque ore.

“Solo per questa volta,” concedo. “Cercherò di non fare più tardi, in futuro.”

La mia promessa viene accolta da un’espressione scettica che, però, lascia presto il posto ad un’altra, irresistibilmente gioiosa. Gattona fuori dal letto, ed io l’aiuto a vestirsi con abiti più pesanti. Tuttavia, devo farmi da parte e aspettare, quando cerca di allacciarsi le stringhe delle scarpe. Per esperienza, so che ogni offerta d’aiuto sarebbe causa di risentite occhiatacce. Impara incredibilmente in fretta, mio figlio, ed è fieramente indipendente.

E mentre penso a queste cose, si alza davanti a me, le braccia tese e un comando muto nei suoi occhi cioccolato.

Su.

‘No’ non è una parola che mio figlio sente molto spesso e, ammetto, io lo vizio. Sistemandomi il mantello sopra una spalla, lo prendo tra le mie braccia, accomodando la sua leggera figura contro il mio petto.

Attraverso il giardino ci avviamo su un sentiero battuto, passiamo oltre le serre, sotto l’arco che emana la fragranza intossicante delle Rose Sanguinarie, sempre in fiore, e dei Giacinti Notturni.

La nostra destinazione è l’Antico Boschetto, il luogo che mio figlio ama più di ogni altra cosa.

Lo porto in braccio mentre camminiamo tra le statue incantate. Lui punta con le dita paffute i simulacri degli antenati della mia famiglia; per ognuno di essi chiede il nome e una storia. Le statue, per loro natura, non hanno molto con cui occupare le giornate, e sono attratte da mio figlio come api al miele. Credo che ormai possa recitare i loro prevedibili dialoghi anche nel sonno, ma c’è comunque conforto in questo rituale che eseguiamo da ancor prima che lui avesse imparato a parlare.

Giungiamo poi alla nostra prima fermata, la statua reclinata della Prozia Elspeth, che schiocca la lingua quando mi vede con mio figlio in braccio. Di nuovo.

“Il ragazzo è abbastanza grande. Di certo saprà camminare per conto suo, adesso,” ci rimprovera, aggrottando la fronte marmorea.

Mio figlio non è tipo da essere messe all’angolo. Col mento alto incrocia lo sguardo della statua. “A papà non importa, vero, papà?”

“Certo che no,” rispondo, con il tono altezzoso che mio figlio ha imparato ad imitare con incredibile precisione. “Aver perso sensibilità al braccio destro è un piccolo prezzo da pagare per farti stare comodo.”

Sono spesso accusato di essere decisamente poco divertente. Ed è quello che mi ripete anche lui, mentre si dimena tra le mie braccia e chiede di essere messo giù. Lo faccio sedere sul divano di marmo, ricoperto dal muschio, della Prozia Elspeth.

Con un tono autoritario che non mancava mai di far infastidire sua madre, lo informo che presto sarà troppo grande perché io possa continuare a portarlo in braccio.

Si mordicchia le labbra per un momento, valutando cosa potrebbe significare questo cambiamento inevitabile per le nostre gite notturne. Poi pretende di sapere quando, esattamente, questa prevista crescita accadrà.

“Tra un anno, più o meno. Dipende da quanto in fretta crescerai, naturalmente,” gli dico, divertito.

“Crescerò molto in fretta, allora. E camminerò di fianco a te, papà.”

Non ho dubbi che lo farà. Ma il suo sentiero sarà diverso dal mio. Non sarà costretto e imbottigliato dal fardello delle aspettative di famiglia e dalla cieca, stretta e stagnante veduta mentale di coloro che si consideravano i suoi fratelli. Il mio dono per lui sarà di maggior valore di qualunque possessione materiale, più potente della salute, del potere e dell’influenza che sia io che lui portiamo con il nostro nome.

Avrà ciò che mio padre non è stato in gradi di darmi. Mio figlio avrà una scelta.

Continuiamo a camminare attraverso il Boschetto, avanzando tra alberi da frutto e castagni, fermandoci di tanto in tanto al saluto felice di qualche parente.

L’umore è decisamente meno allegro, tuttavia, quando ci avviciniamo all’alta e imponente statua che ci aspetta alla fine del sentiero.

Gli occhi di mio padre mi scrutano, osservando il mantello nero e fermandosi per un mero istante sul rigonfiamento causato dalla maschera sotto le mie vesti, per poi passare a studiare suo nipote, a cui tributa un cenno di saluto appena percettibile. Non ci fermiamo mai molto a parlare con i miei genitori. Le ragioni sono molte, complesse e troppo avvilenti da considerare senza una copiosa quantità di liquore accanto.

“Buonasera, Padre. Dove si trova la signora Madre?” chiedo, osservando quelle cortesie solo per amore di mio figlio. Fossi stato da solo, non mi sarei nemmeno fermato.

“A controllare le sue orchidee. A meno di non legarmela ad una gamba, è impossibile far rimanere ferma quella donna in un solo posto. Come statua, è davvero terribile.”

Mio figlio ride nell’immaginare la scena descritta da quelle parole, ma presto la sua risata si spegne sotto la piena forza dello sguardo granitico di suo nonno. Da vivo, mio padre aveva uno sguardo glaciale e tagliente che poteva riconoscere amici da nemici, verità da menzogna, nello stesso tempo che serve per stringersi le mani o bofonchiare un saluto. Eternizzato in pietra, il suo aspetto imponente non è meno snervante.

“Va’ avanti verso il lago,” dico al mio bambino, dandogli una spinta di incoraggiamento tra le scapole. Non ha bisogno che gli venga ripetuto. Il lago, dopotutto, è la nostra ultima destinazione.

“Ti assomiglia molto,” dice mio padre, il tono pensieroso.

“È molto di più,” la mia fredda risposta.

“Sì,” concorda mio padre, guardando suo nipote, che agita con netti schizzi l’acqua bassa, con i suoi duri occhi di pietra. “È tutto quello che dovrebbe essere, nonostante -”

“Porgi a mia Madre i miei saluti,” lo interrompo bruscamente, girando sui tacchi.

Ho poca pazienza per le provocazioni senza scopo. Le statue sono note per il loro humor e la loro tendenza ad intavolare sempre le stesse discussioni. Mio figlio può trarre piacere in questi prevedibili giochi di parole, ma io non mi diverto così facilmente.

Lasciamo il Boschetto e ci fermiamo ai bordi del lago, dove sono state poste diverse panchine di pietra. Lì, un contorto salice piangente offre la sua ombra malinconica alla più recente aggiunta alla famiglia delle statue incantate. Oche ed anatre hanno abbandonato da tempo il lago per migrare in climi più dolci, ma gli incantesimi intessuti sopra quel luogo permettono ancora che l’aria porti con sé il profumo della primavera.

Il tempo passa con lentezza, in quel luogo; gli alberi non perdono le loro foglie e l’erba è sempre verde.

“Madre,” dice mio figlio, sempre pieno di ammirazione, sempre con una voce soffusa e rispettosa. Lascia la mia mano e va a sedersi di fianco a lei, sotto al salice. Il suo piccolo volto a forma di cuore diventa serio. È abbastanza grande per capire la morte, per sapere che sua madre non è semplicemente assente o via, ma che se ne è andata dal nostro mondo. Avrei voluto schermarlo da quei pensieri, ma il dono della scelta richiede la comprensione. E così deve sapere della morte.

Le statue magiche sono piuttosto speciali. Si possono permeare di incantesimi, complicate tessiture che donano alla pietra i tratti caratteristici di coloro che rappresentano. Nei fatti, le statue magiche sono un grossolano facsimile di una persona, vivente o deceduta che sia. Con il beneficio delle tre dimensioni, possono camminare, parlare, toccare e sentire. Ma come per le fotografie magiche, anche il movimento delle statue non può essere predetto con alcuna precisione.

La madre di mio figlio ha scelto di non muoversi né parlare sin dall’istante in cui fu scolpita con meticolosa cura dalle mani di un mastro scultore, poco dopo la sua morte. Spesso mio figlio mi chiede perché.

Temo di non avere risposte da dargli.

Il suo immobilismo non lo disturba. Le racconta, con una precisione sbalorditiva, tutto quello che è accaduto nella sua giornata. Lei ascolta, seduta sulla sua panchina di marmo, il mento appoggiato al dorso di una mano e un libro aperto in grembo. Un sorriso divertito è eternamente cesellato sul suo volto. In uno dei rari momenti in cui cedo alla fantasia, immagino che il contenuto del suo libro non debba essere lontanamente interessante e divertente quanto l’elenco dei tormenti che nostro figlio infligge ai domestici, a casa.

Con il passare dei minuti, mio figlio inizia poi la lista delle rimostranze del giorno – una lista potenzialmente infinita – che inizia da come Cook l’abbia scacciato dalla cucina per avere rovesciato un sacco di farina, a come l’insegnante di francese gli abbia dato dei colpetti sulle nocche per star sognando ad occhi aperti durante la lezione.

Contrariamente alla credenza popolare, so benissimo di aver allevato qualcosa di simile ad un folletto pestifero. Non che tollererei che qualcuno me lo dicesse in faccia.

Gli ultimi scampoli della recente chiamata tramite il Marchio Nero bruciano ancora sotto la manica delle mie vesti. Senza pensare mi massaggio il braccio, e vedo il mio bambino che mi guarda. Sa del Marchio, ma non ancora del suo significato. Non sono così crudele da negargli uno spaccato di vera infanzia. La realtà del nostro mondo sa corrompere e degradare a velocità disarmante.

“Fa male ancora?” mi chiede, preoccupazione e curiosità mischiate nella sua voce. È dietro di me, ora, e coraggiosamente mi prende il braccio e tira su la manica. L’esposizione del Marchio produce un effetto istantaneo sull’ambiente magico che ci circonda. Tanto è il potere che quel simbolo porta, ancor più oggi che non una decade fa. L’aria intorno a noi crepita debolmente, l’ombra dei richiami degli uccelli e dei suoni della foresta cade in un persistente silenzio.

Mio figlio sta aspettando la mia risposta. Non che sia veramente interessato alle mie parole, piuttosto a come io reagisco a quell’argomento. Mi guarda il volto come un falco che osserva il campo in cerca della preda.

All’improvviso mi accorgo che è come se mi guardassi allo specchio.

“A volte,” dico.

“Puoi toglierlo?”

“No. Mai.”

La curiosità abbandona il suo viso. Ora è semplicemente pensieroso. Quelle mie poche parole sono state immagazzinate attentamente nella sua mente, e so che più tardi, quando sarà da solo, le analizzerà nei minimi dettagli.

“Osservi le cose con gli occhi di tua madre,” gli dico sorridendo, mentre gli passo una mano sul volto.

Per un momento valuta le mie parole, cercando di decidere se sia una buona cosa. Sta catalogando i suoi tratti, uno a uno. I suoi pensieri gli danzano sul volto, leggibili come fosse un Pensatoio. Mi ricordo che anche con sua madre era la stessa cosa.

“Era intelligente, papà?”

“Era più che intelligente. Come te.”

Questo è vero. Con grande, orgoglioso e paterno piacere, posso dire che mio figlio ha prodotto il suo primo incantesimo involontario che era ancora avvolto nei vestitini da neonato.

Sorride poi, in silenzio e dentro di sé deve aver raggiunto una qualche conclusione. “E coraggiosa.”

“Sì, anche coraggiosa.”

“E bellissima...” dice mentre si volta ancora verso sua madre.

Con incertezza le tocca il viso con una mano e, per un breve e delirante momento, immagino che sarà questa la notte in cui il suo tocco la chiamerà alla vita. Dove tutto il resto ha fallito, sarebbe poetico e indubbiamente giusto che sia mio figlio colui che l’animerà.

Ma sua madre continua a rimanere immobile, mentre vigila silente sul suo libro, e la nostra solenne riunione continua come sempre.

Siamo un trio strambo noi tre, credo. Il Mangiamorte, l’angelo di pietra e il loro figlio.

Sembra che anche mio figlio si aspettasse qualcosa di diverso, questa sera. Abbassa le spalle con evidente delusione, poi stacca la mano dalla guancia fredda di sua madre e torna al caldo del mio grembo.

Pare blasfemo che le vesti che mi hanno aiutato e coperto nei miei brutali incarichi in questa stessa sera, possano ora fornire calore e protezione a qualcosa di così puro ed incontaminato. Ma la mia vita è sempre stato una curiosa miscela di ironie.

“Quando sarò più grande, potrò venire qui da solo a sedere con mamma.”

L’insinuazione è posta con acume. Quello che mio figlio vuol dire è che forse lei non si muove perché io sono lì.

Sospetto che possa aver ragione nella sua deduzione.

“Abbiamo finito per stasera?” Gli chiedo con gentilezza. Le sue palpebre si stanno già socchiudendo e la presa intorno al mio collo meno sicura.

Appoggiando la sua testa riccioluta sotto il mio mento, annuisce.

Guardo oltre il suo capo, verso sua madre, e penso che la speranza è una devastante dipendenza umana. Lo credo perché le parole che le rivolgo come arrivederci rimangono le stesse, sempre.

“Magari domani.”

La rassegnazione nella mia voce è così palpabile che mio figlio, mezzo addormentato, mi mette una mano su una spalla e mi conforta.

Dopo aver avvolto il mio mantello con più fermezza intorno a noi, riprendo il sentiero che attraversa il Boschetto.

****


Padre e figlio si fanno strada verso la tenue luce del maniero. La risata cristallina del bambino risuona nel quieto ambiente che li circonda, quando il padre lo alza sulle proprie spalle.

Non passa loro per la testa di girarsi, ma se lanciassero uno sguardo al salice vicino al lago, potrebbero notare che la statua non è più immobile.

La testa alzata, gli occhi che osservano avidamente e ricolmi di profonda tristezza i membri in vita della sua famiglia. Si tocca una guancia con una delle sue lunghe dita di pietra, cerca le vestigia del calore lasciato lì dal contatto della mano - carne e sangue - di suo figlio.

Quando l’uomo e il bambino sono fuori dalla portata del suo sguardo, si volge nuovamente verso il libro nel grembo e, lentamente, sfoglia una pagina.

Fine


Un grazie (ancora :p) a chi mi ha convinto a ritentarci, anche se non sono ancora del tutto convinta che ne valga la pena XD
Alla prossima^^
  
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