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Autore: cup of tea    03/03/2015    1 recensioni
La notte di Capodanno, quattro sconosciuti - Rachel Berry, Kurt Hummel, Quinn Fabray e Sam Evans - si ritrovano sul tetto di un palazzo, tutti con lo stesso proposito: buttarsi giù. Ognuno ha i suoi buoni motivi per farla finita, ma la sera si conclude con un nulla di fatto. Anzi, i quattro firmano di un patto che li obbliga a non togliersi la vita almeno fino a San Valentino. Nascerà tra loro un legame, più simile a una costrizione, almeno all'inizio, ma poi sempre più simile a una vera amicizia che li aiuterà ad affrontare le avversità.
(Warning: Samchel)
Liberamente tratto dal film "Non buttiamoci giù" ("A Long Way Down") di Pascal Chaumeil, a sua volta basato sul libro omonimo di Nick Hornby.
[Questa storia partecipa al Glee Big Bang Italia, organizzato da Flan e ALanna]
Dal testo:
"Che ci fa una promettente giovane attrice di Broadway, appena entrata nel pieno della sua fiorente carriera, sul tetto di un palazzo, la notte di Capodanno?
Be’, permettetemi di metterlo subito in chiaro, perché i giornalisti finiscono sempre per alterare la realtà: arriva un momento, nella propria vita, in cui non ce la si fa più."
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel, Quinn Fabray, Rachel Berry, Sam Evans | Coppie: Blaine/Kurt, Puck/Quinn
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LA TAVOLA DI CUP OF TEA
Buongiorno, tazzine!
Quarta e ultima parte della nostra storia.
Ringrazio tutti per avermi accompagnato fino a qui, in particolare potteriani che avrebbe tanto voluto farmi fuori, eheh ;)
Vi mando un grandissimo abbraccio,
cup of tea
 
https://www.facebook.com/CupOfTeaEfp?ref=hl
 



PARTE QUARTA - Give me your hand and I'll hold it
 
 
SAM
 
(15.32)
Ragazzi, avete notizie di Rachel?
 
(15.35)
Per la miseria, Sam, non continuare a chiederlo. Non vivo più con lei, non so che fine abbia fatto, e no, non si è più fatta sentire.
 
(15.36)
Ma dobbiamo trovarla e farle capire che non siamo stati noi!
 
(15.40)
E come pensi che possa ancora fidarsi? Eravamo gli unici a saperlo, le conclusioni si tirano da sole. Mettiti l’anima in pace, Sam.
 
(15.42)
NO! Non siamo stati noi, qualcun altro doveva esserne al corrente!
 
(15.45)
Vi prego, ragazzi, sto lavorando, ne parliamo più tardi!
 
“Più tardi” finalmente arriva. Siamo allo Spotlight e Kurt ha appena finito il turno, così si siede con me e Quinn.
«Ragazzi, la faccenda è seria. Oggi è già il dieci e Rachel sembra introvabile. Come fate a non essere preoccupati?! Era sconvolta, se n’è andata senza dirci niente!»
«Sì, Sam, noi siamo molto preoccupati, ma non c’è niente che possiamo fare.» Cerca di convincermi Quinn.
Il suo disfattismo mi disturba. «Perché getti la spugna così presto? Di cosa hai paura, Quinn?»
«Se stai insinuando che sia stata io a spifferare tutto, sei fuori strada. Credevo che fossimo d’accordo che nessuno di noi è il colpevole.»
«Perché dovrei credere che non sia stata tu? Sei stata la prima a venire a conoscenza del passato di Rachel e hai sempre avuto un sacco di problemi con lei!»
«Che stronzo.»
«Ragazzi, ragazzi, ragazzi. Diamoci una calmata!» Ci richiama all’ordine Kurt. Poi, dal nulla sbuca fuori un giornalista da quattro soldi, armato di macchina fotografica e taccuino per gli appunti. «Che scoop! Il Club dei Suicidi è in crisi! Questa è una notizia da prima pagina: la scadenza si avvicina e le tensioni vengono a galla!» L’istinto è quello di tirargli un pugno, ma vengo trascinato via da Quinn e Kurt prima che possa fare qualsiasi cosa.
Continuiamo il nostro discorso a casa mia. I bambini sono ancora a scuola e i miei sono fuori, finalmente con un lavoro di cui occuparsi.
«Pensiamoci,» riprende Kurt, «se non siamo stati noi, e non lo siamo stati, chi altri poteva avere motivo di parlarne?»
Nessuno ha un’idea valida, anche perché, stando a quello che ci ha raccontato Rachel, nessuno a parte lei e la famiglia di Finn sapeva della loro storia.
Ed ecco che la risposta si rivela da sola.
«Sono stati i familiari di Finn.» Lancio la bomba.
«I familiari di Finn?» chiede, giustamente perplessa, Quinn. Sto per spiegare la mia teoria, ma il cellulare di Kurt squilla sul più bello.
«È Blaine. Devo rispondere.»
«No, Kurt, non adesso!»
«Sam, non riusciamo mai a sentirci, ti prego! Sarò qui fra poco!» Prende e se ne va a cinguettare fuori. Dio, qui sembra che solo a me importi che Rachel è scomparsa.
«Lascialo fare, Sam. Non prendertela.» Mi dice Quinn, e io mi lascio cadere sulla sedia, senza parole. Un paio, comunque, poi le trovo: «Io vado a trovare la famiglia di Finn perché voglio delle risposte, voi fate quello che volete.» Prendo le chiavi della macchina ed esco.
«Sam, aspettaci!» Urla Quinn.
«Dove sta andando?» Sento chiedere Kurt, che si è degnato di tornare.
«Vuole andare dagli Hudson.»
«Venite o no?!» Li chiamo.
Saltano in macchina e mi chiedono quale sia la mia teoria.
«Okay, seguite il mio ragionamento,» comincio, mentre guido tra un taxi e l’altro. «Loro sono gli unici, a parte Rachel, che fossero a conoscenza del fatto che stessero insieme. Lui muore, lei decide di suicidarsi. Poi arriviamo noi, le interviste e i soldi. Devono aver pensato che non era giusto che solo lei ci guadagnasse, in tutta questa storia. Probabilmente volevano la loro fetta di denaro.»
«Sam, queste sono accuse pesanti. Come puoi pensare che una madre voglia speculare sulla morte di suo figlio?» Mi chiede Quinn.
«Be’, era strano anche pensare che un padre ripudiasse la figlia perché incinta e poi fosse trovato a spassarsela con una minorenne. Eppure…»
«Sam, adesso devi finirla!» Grida Kurt.
So di avere esagerato perché lo leggo negli occhi tristi di Quinn e in quelli carichi di rimprovero di Kurt, ma la mia teoria non è così poco plausibile. È ora che capiscano che la situazione è grave.
«Siamo arrivati.» Accosto nel vialetto degli Hudson.
«D’accordo, se vogliamo davvero fare questa cosa, Sam, dovrai stare zitto e lasciar parlare noi.»
«Come?» Non possono farmi questo.
«Kurt ha ragione. Sei una bomba a orologeria, in questi giorni.»
«Ma io… d’accordo.» Solo perché non ho voglia di perdere tempo a discutere.
 
La signora Hudson è una donna di mezza età, con capelli stinti e vestiti vecchi. Non so perché ci fossimo messi in mente che ci fosse anche un marito, ma la verità è che non esiste nessun signor Hudson.
Ci siamo presentati come amici di Rachel e la signora Hudson ci ha invitati a entrare, offrendoci una tazza di tè. Effettivamente, considerati i suoi modi gentili e generosi, non sembrerebbe una persona capace di infrangere qualsivoglia promessa fatta a suo figlio, ma prima di scagionarla voglio essere sicuro che lei non c’entri.
Quinn e Kurt le raccontano di come abbiamo conosciuto Rachel e di come ci abbia parlato di Finn. Le fanno le condoglianze, lei piange e ci stringiamo a lei. Molto diplomatici. Qualche lacrima più tardi ci dice di sapere che Finn è su tutti i giornali, ma non approfondisce il discorso e la cosa non fa che nutrire i miei sospetti. Alla fine, Kurt introduce la vera ragione per la quale siamo qui.
«Signora Hudson, ci scusi, ma ci chiedevamo come la notizia possa essere arrivata fino ai media.»
«Vuoi dire che non siete stati voi? Rachel mi ha…»
«Cosa? “Rachel le ha” cosa? Sa dove si trova?» Non resisto ad intervenire.
«Non spetta a me dirvelo. Quando vorrà vedervi vi cercherà.»
«Ma-» Kurt mi zittisce per tornare alla domanda di partenza: «Quindi non le viene proprio in mente qualcuno che potrebbe aver raccontato la storia?»
La signora Hudson ci pensa per qualche minuto e poi scoppia di nuovo in lacrime. «Io… io non lo so proprio.»
«Ne è sicura?» Chiedo, guadagnandomi un calcio sotto il tavolo da parte di Quinn.
«Certo che ne sono sicura. Cosa vorresti dire?» Mi risponde indignata la signora Hudson, ma non me la bevo.
«Signora Hudson, mi dispiace per il suo dolore, ma vorremmo vederci chiaro in questa storia.»
«SAM!» Una voce piena e furiosa irrompe nella stanza e dalla porta del salotto entra Rachel, con capelli spettinati e una tuta comoda. Deve essere stata a casa Hudson per tutto questo tempo.
Le vado incontro. «Rachel! Ti abbiamo cercato dappertutto.»
«Dovreste andarvene, ora.»
«Non senza di te.»
«Sam, non voglio venire con voi. E non è stata Carole a parlare ai giornali, com’è potuto anche solo venirvi in mente?»
«Noi l’avevamo detto che era un’idea assurda.» Fa la spia Quinn.
«Ma, Rachel, non siamo stati neanche noi…» Mi gira la testa.
«Lo so.» Si avvicina e mi prende una mano.
«Allora ci credi?»
«Sì… perché sono stata io.»
 
***
RACHEL
 
«Cosa significa?» Quinn rompe il silenzio che è seguito alla mia confessione.
Mi siedo al tavolo insieme a loro e comincio a spiegare.
«I giorni appena trascorsi sono stati un tormento. Sono tornata di corsa a New York, convinta di lasciarmi alle spalle le persone che consideravo responsabili della mia disgrazia, ma solo arrivata a casa mi sono resa conto che la vera responsabile non mi aveva ancora lasciata, perché non potevo che essere stata io a rovinare tutto. Sam, ti ricordi la nostra cena al molo? C’era tanta gente e molti scattavano fotografie al quartetto d’archi che suonava. Dev’essere stato in quel momento, quando ti ho raccontato di Finn, che qualcuno deve averci riconosciuto. D’altra parte, siamo il Club dei Suicidi, no? Quasi tutti sanno chi siamo. Dev’esserci stato qualcuno che si è ben mimetizzato con la folla e ha ascoltato. Non c’è altra spiegazione. Sono venuta qui, a casa Hudson, perché non riesco più a stare da sola. Casa mia è inavvicinabile per via dei paparazzi e io sono stanca di stare attenta a ciò che dico. Carole, perdonami, ma non ho avuto il coraggio di raccontarti niente, prima d’ora.»
Nascondo il viso tra le mani e sento quella della signora Hudson accarezzarmi i capelli. «Non preoccuparti, cara.»
«Ma ho combinato un disastro…»
«Sistemeremo ogni cosa.» Cerca di rassicurarmi.
«Sì, Rachel, sistemeremo tutto.» Concordano Sam, Kurt e Quinn.
«Vi ringrazio, ragazzi, ma non credo che ci sia più nulla da fare.»
«Comincia con il ritornare a casa, Rachel. L’invito a stare da me è sempre aperto, Stacey e Stevie sentono la tua mancanza, e anch’io.» Mi propone Sam.
«Sei molto dolce, Sam. Ma non me la sento. Spero che capirai.»
Leggo nei suoi occhi confusione e frustrazione, e so che prima o poi dovremo parlare di noi, ma non sono ancora pronta.
«D’accordo, ma… il quattordici ci troviamo all’Hot Coffee per festeggiare il traguardo raggiunto… ci sarai, vero?»
«M-ma certo.»
 
***
QUINN
 
Oggi è il tredici febbraio, ed è una data che ricorderò per sempre.
Lo so, ho detto tredici e non quattordici, come ci si sarebbe aspettati, ma non è un errore.
Oggi, tredici febbraio, è il giorno in cui ho trovato una lettera di Noah nella casella della posta.
La tengo tra le mani da più di un’ora, seduta sul letto, da sola. Quando mi sono chiusa in camera, lo stereo suonava Come See About Me delle The Supremes, poi ricordo che è passata Papa Don’t Preach di Madonna e ora James Brown con It is a Man’s World, che, ironia della sorte, nomina il nome “Noah” in un verso. Ma in tutto questo tempo, la busta è ancora chiusa.
Sento mia madre bussare alla porta.
«Quinn, tutto bene?»
No, ho proprio bisogno della mia mamma adesso.
«Puoi entrare un secondo?» Le chiedo.
Fa capolino nella mia stanza e capisce cosa le sto chiedendo.
«Non l’hai ancora aperta, vero?»
Scuoto la testa.
«Vuoi che stia qui con te, mentre la leggi?»
«No, io… vorrei che la aprissi tu, e me la leggessi.»
«Sei sicura? Questa è una cosa che dovresti fare solo e soltanto tu.»
«Sono sicura.» Affermo, facendole spazio sul letto. Lei si siede accanto a me, prendendo la busta.
Ora lo stereo suona Saving All my Love for You di Whitney Houston.
La mamma apre un bordo dell’involucro di carta e libera finalmente le parole di Noah.
«Mia cara Quinn,» comincia a leggere, e d’un tratto mi rendo conto che voglio essere io a leggere ciò che ha da dirmi, voglio vedere la sua calligrafia, voglio immaginarmelo mentre pensa a cosa scrivermi e voglio conservare tutte le cancellature e sbavature nel mio cuore. Strappo il foglio di mano alla mamma e lei capisce subito. Si alza dal letto per darmi la giusta privacy, e prima di andare commenta: «E’ una bella canzone.»
«Mamma, parla di una che sta ad aspettare che quello che le piace torni da lei dopo essere stato con sua moglie e i suoi bambini… non è una bella situazione.»
«Oh, be’, devo essermi fermata al verso: “Love gives you the right to be free. You said, "Be patient, just wait a little longer". Mi sembrava appropriato.» Mi bacia sulla fronte ed esce dalla stanza canticchiando.
Love gives you the right to be free.
Suona bene.
Comincio a leggere.
 
Mia cara Quinn,
in questo momento provo emozioni contrastanti.
Ti amo – dio, se ti amo! – ma ti odio. Mi capisci?
Probabilmente no.
Miseria, saremo genitori! Ho il cuore che mi scoppia dalla gioia, oppure è la rabbia? Probabilmente è la rabbia. Perché io sono qui, lontano da te, lontano dal nostro bambino, lontano dalla mia vita. E tu, tu non puoi prendere tutte le decisioni da sola! Non sai se lo terrai? Che ne dici se ne discutessimo insieme? E cos’è questa storia del suicidio?! Cosa avresti risolto?! Niente di niente, e avresti fatto morire di dolore anche me. Quinn, non sei sola, anche se ti sembra di esserlo. Hai un pancione da sopportare, e quello puoi farlo solo tu, ma almeno, di quello che può essere dimezzato, vorrei occuparmene anch’io. Hai già pensato a un nome? Che ne dici di Beth? Ovvio, se è una femminuccia. Ma lo sarà, sento che lo sarà! Una bella bambina bionda ed ebrea. E se nascesse con la cresta? Sarebbe davvero buffo, non credi?
Quinn, mi manchi da morire. E ti prego, ti scongiuro, non tagliarmi fuori da questa cosa. Non mi hai chiesto di tornare, ma so che hai bisogno di me. Ne avete bisogno tutte e due. Perciò tornerò, Quinn Fabray. Tornerò. Abbi solo un po’ di pazienza, aspetta ancora un poco e sarò lì con te.
 
Mi interrompo un momento perché mi torna in mente la canzone di Whitney. Be patient, Just wait a little longer. Ha ragione la mamma, è una bella canzone.
 
Ti amo, futura signora Puckerman.
 
Noah.
 
P.S. Era troppo, chiamarti così? Sì, era decisamente troppo. Ma non cambia ciò che provo.
 
Scoppio a ridere tra una lacrima e l’altra, e mi accorgo che “Quinn Fabray in Puckerman” sarebbe proprio un buon titolo da portare.
Ti aspetterò signor Puckerman.
Ti aspetterò perché tu possa chiamarmi con il tuo cognome tutti i giorni.
 
***
KURT
 
La nostra rimpatriata di San Valentino è piuttosto silenziosa, per essere una festa.
Siamo seduti a un tavolo dell’Hot Coffee, luogo scelto in alternativa allo Spotlight Diner perché lì i giornalisti hanno ormai messo le tende. Quinn gioca con il cellulare, Sam guarda l’orologio ogni tre minuti e sbuffa. Rachel non si è ancora vista.
In mezzo a questo clima di negatività e noia, mi ritrovo a rimpiangere di non aver scelto un’altra data per il termine del nostro patto. Insomma, invece di essere in compagnia di questi musi lunghi, in questo momento avrei potuto essere con Blaine, magari a dividerci un Cupidolcetto e a dedicarci canzoni d’amore al karaoke.
La verità è che avevo scelto San Valentino perché, in questo modo, almeno per una volta, non l’avrei passato da solo. Chi avrebbe detto che le cose sarebbero cambiate tanto, in un solo mese e mezzo?
«Forse dovremmo provare a chiamarla.» Suggerisce Sam, interrompendo il flusso dei miei pensieri. Aggrotto le sopracciglia.
«Rilassati, è in ritardo solo di un quarto d’ora. Come minimo starà aspettando il momento giusto per fare un’entrata da star.» Suppone Quinn.
Aspettiamo ancora un po’.
I nostri caffè si fanno freddi.
«Okay, io vado a cercarla.» Dichiara Sam.
«Andiamo, non agitarti. Vedrai che non le è successo niente di grave.» Provo a tranquillizzarlo, ma la verità è che comincio a preoccuparmi anch’io. 
«Non devo agitarmi? È San Valentino, cazzo. Volete sapere dov’è, con tutta probabilità? Sul tetto del Mistral Palace a cercare di buttarsi giù, se non l’ha già fatto.»
Io e Quinn non abbiamo il coraggio di contraddirlo.
Nel mio cuore sento insinuarsi una paura profonda, la paura di perdere qualcuno a cui, inaspettatamente, si tiene davvero. Rachel ha un caratteraccio, è esuberante e capricciosa, ma ho imparato a volerle bene.
«Prendo la macchina.» Annuncio.
 
Guido fino al Mistral Palace, poi parcheggio ed entriamo nell’hotel. Dappertutto ci sono palloncini a forma di cuore e scatole di cioccolatini e le stanze sono addobbate a tema. Corriamo su per le scale sperando di non essere beccati dagli uomini della sicurezza e aiutando Quinn che fa più fatica di noi e in qualche modo arriviamo fino al tetto, ma ci blocchiamo. La porta è semiaperta. A Capodanno, siamo venuti qui di notte, sperando che la nostra morte passasse inosservata, come se volessimo fare le cose in segreto, indisturbati; ma ora, se Rachel è davvero qui, si ucciderà – se non l’ha già fatto! – in pieno giorno, sotto gli occhi indifferenti di tutti, e la cosa mi fa rabbrividire.
Spingiamo la porta che si apre con un cigolio, e sono sicuro che in questo momento stiamo tutti e tre pensando la stessa cosa: Fa’ che sia ancora viva!
C’è nebbia, silenzio e fa freddo da morire, quassù. Socchiudo gli occhi per vedere meglio, ma Sam grida e finalmente la vedo anch’io.
«RACHEL!» Sam l’ha trovata. È sul cornicione, ci dà le spalle e fissa il vuoto.
«Non fate nessun un altro passo, per favore.» Ci avvisa, continuando a guardare giù. Ci immobilizziamo.
Dopo qualche minuto di silenzio, Sam mette da parte l’angoscia e l’apprensione che lo hanno divorato fino ad ora e le parla lentamente, con calma, per non spaventarla.
«Speravo di non trovarti qui.»
«Lo sapete che, tra la notte di Capodanno e oggi, sono morte tre persone buttandosi giù da questo palazzo?» Risponde lei, con voce altrettanto calma e distaccata. Mi fa paura. Poi continua: «Grace Hillington, tradita dal marito. Hannah Bolton, che aveva perso la sorella qualche mese prima; e David Peterson, semplicemente stanco della vita.» La sua voce è spezzata.
«E tu vuoi aggiungerti a quella lista?» Chiede Quinn.
«Ho tenuto duro fino alla fine del nostro patto, Quinn. Da oggi, qualsiasi cosa io faccia non vi riguarda più.» Per la prima volta da quando siamo qui sopra, Rachel si gira verso di noi e ci guarda. Ha il viso rigato di lacrime e io sto trattenendo il respiro. Guardo Sam, ha il volto contratto e i pugni serrati: di certo, quest’ultimo commento di Rachel non gli ha fatto bene. Sono triste per lui – per loro – per come è andata a finire. Erano una bella coppia, stavano bene insieme, lei mi sembrava felice. Non avrebbe dovuto finire in questo modo.
«D’accordo, ma perché vuoi farlo?» Chiedo allora io.
«Perché non tutto ha un lieto fine. Non tutto si può risolvere. Non tutto si sistema. Kurt, tu avevi bisogno di sentirti accettato, e hai trovato Blaine. Quinn, tu avevi bisogno del sostegno della tua famiglia e l’hai avuto, almeno per quanto riguarda tua madre. E tu, Sam, ora i tuoi genitori lavorano e andrà tutto bene. Io, invece… ho perso.»
«Non mi ero reso conto che fosse una gara.» Commenta Sam, a denti stretti.
«E non lo è! Solo… io non riesco a risolvere i miei problemi. È passato un mese e mezzo da Capodanno, e non è cambiato niente! Sono ancora su tutti i giornali, dipinta come una strega, e ho trascinato nel fango anche voi, come ho fatto anche con Finn!»
«Ma Rachel, come fai a non accorgertene?! TUTTO è cambiato da Capodanno!» Continua Sam.
«Sentite, io sono stanca… stanca di avere paura di quello che dico o faccio e stanca di cercare di cambiare. Perché malgrado ogni sforzo, rimango sempre io.»
«Quindi è molto più facile farla finita, non è così? È l’unico modo per risolvere tutto, giusto? Morire, e non dover più vivere nella paura.»
So cosa sta facendo Sam. Molto di ciò che dice è dettato dalla rabbia, ma anche dall’amore. La provoca, la sta mettendo di fronte alla realtà dei fatti. Sta lottando per lei e insieme a lei. Rachel scoppia a piangere. «Noi la pensavamo come te, Rachel, ma ciò che non riesci a vedere, ciò che è diverso dalla notte di Capodanno, è che nessuno di noi ha più avuto voglia di tornare quassù.»
«Ha ragione! Quassù… quassù è una merda!» Interviene Quinn, spaventata nel vedere la persona a cui più si è legata, quella che credeva la più forte tra noi, volersi togliere la vita per la seconda volta in pochissimo tempo.
A questo punto, voglio dire anch’io la mia. «Io spero, anzi credo, che contiamo ancora qualcosa per te. Altrimenti perché scegliere San Valentino, per suicidarti? Forse credi di voler morire, ma non è così. Sapevi che saremmo venuti a cercarti. Noi siamo una squadra.»
«È così, lo siamo. Siamo la squadra peggiore del mondo, eppure siamo qui tutti insieme, il Club dei Suicidi Che sono Sopravvissuti.» Conferma Quinn.
«Lo so, potrebbe non sembrare molto. Ma può essere un inizio, e a volte è l’unica cosa che serve.»
Finalmente, sembra darci ascolto. Scende dal cornicione e cade sulle ginocchia che le sono cedute. Sam le va incontro e l’aiuta a rialzarsi. Piangono, piangiamo tutti, e ci abbracciamo in un abbraccio infinito.
È finita.
È finita.
Grazie al cielo, è finita.
 
***
 
 
EPILOGO – 320 giorni dopo, Vigilia di Capodanno
 
Cara Quinn, Caro Kurt,
io e Sam vi auguriamo un buonissimo inizio anno nuovo!
Ci pensate? È già passato così tanto tempo, da quando ci siamo conosciuti.
Quinn, sono felice di sapere che Beth sta bene e che Noah è un bravo papà. Non vedo l’ora di stringere tra le braccia di nuovo quel batuffolino biondo!
Kurt, la tv dell’albergo in cui stiamo alloggiando è sintonizzata sul canale 112 e non vediamo l’ora di vederti salire sul palco di Times Square per il concerto di Capodanno della Nyada. È fantastico che tu sia riuscito a entrare. Blaine sarà orgoglioso di te, così come lo siamo noi! Salutacelo tanto, ci mancate!
Per quanto riguarda me e Sam, la vista dalla nostra camera è meravigliosa. Non l’abbiamo lasciata neanche per un minuto da quanto siamo arrivati, ma scommetto che questo voi non lo volete sentire.
Oh, eccoti ti vediamo, Kurt! “Questa canzone è per ogni ragazzo nel pubblico, ogni ragazzo sul palco e ogni ragazzo che ci sta seguendo da casa. Questa canzone parla di noi, parla di voi. Qualsiasi problema abbiate, anche quando vi sembra che vada tutto male, ricordate una cosa: le cose si sistemeranno. Andrà tutto bene. Io ballerò come se fossi da solo, voi ballate come vi piace di più.” Davvero molto toccante.
E sapete cos’altro lo è?
Il fatto che mi abbiate impedito di buttarmi giù, entrambe le volte. Sapete, conosco la storia di un signore che si è buttato giù da un palazzo ma è sopravvissuto, e nel momento in cui si è buttato, si è reso conto che l’unica cosa nella vita che non poteva sistemare era quella che aveva appena fatto. Immaginate quei cinque secondi di caduta nel vuoto: dev’essere stata un’angoscia tremenda. Be’, grazie a voi, i miei cinque secondi li ho avuti in cima a quel tetto e non nel vuoto. Mi avete regalato cinque secondi, poi un anno, e ora una vita intera.
Grazie di tutto.
Mi mancate.
 
Rachel
   
 
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